Dal Feudalesimo ai Comuni
Conflitto tra Papato ed Impero
di Franco Savelli e Tonino Pau
La fine dell’impero
carolingio: La successione nel Regno d’Italia - Origine del feudalesimo - “Ordinamento
feudale” - Il tempo degli imperatori germanici e la germanizzazione
dell’Impero; “Privilegium Othonis” - Formazioni comunali.
Conflitto fra Chiesa
e Stato: Lotta per le investiture; Politica di Federico I Barbarossa per
l’affermazione dell’Impero; “Arnaldo da Brescia”; Conflitto del Barbarossa con
i Comuni; “La battaglia di Legnano”; Conflitto di Federico II con il Papato ed
i Comuni; Epilogo.
Il
sorgere e lo sviluppo delle autonomie locali fu favorito dall’insuccesso dei
progetti imperiali seguiti al disfacimento dell’Impero carolingio, fondato
sull'indiscussa autorità di un uomo e strutturalmente inadeguato ad
amministrare un dominio di tale ampiezza.
Dopo la morte di Carlo Magno (814), l’unità
dell’Impero carolingio e la sua organizzazione amministrativa, basata sulla
divisione in marche e contee,
fu compromessa da tre tendenze:
a) Il recupero di autonomia della
Chiesa su cui Carlo Magno aveva stabilito un diretto controllo. Questa si era
realizzata sulla spinta di religiosi, come Benedetto d’Aniane, interpreti di un
movimento di pensiero che, pur volendo mantenere i valori sacri e cristiani del
potere imperiale, distoglieva i Monasteri dai sentieri estranei alla vera
vocazione.
b) La crescita del potere delle
aristocrazie militari che acquisirono il controllo di ampie aree agricole.
c) La formazione di regni minori nati
dal conflitto di assegnazione fra i figli di Ludovico I il Pio (778-840).
Questi, bigotto, bonario e suggestionabile, unico figlio sopravvissuto ed erede
di Carlo Magno, aveva riunificato i territori dell’impero acquisendo quelli che
inizialmente erano appartenuti ai fratelli Carlo il giovane (772-811; re dei Franchi) e Pipino (773-810; destinato a re d’Italia).
Ludovico con una Ordinatio Imperi
(817) divise l’Impero fra i figli nati da Ermengarda (figlia del conte Ingram),
associando all’impero il primogenito Lotario cui assegnò la parte
più cospicua dei territori (tra cui il Regno d’Italia) mentre destinò al figlio
Pipino (797-838) le
regioni sudoccidentali comprendenti l’Acquitania e la marca di Tolosa ed all’altro figlio Ludovico II “il Germanico”
le regioni orientali prospicienti la Baviera. Divisione che suscitò la
ribellione di Bernardo, figlio del defunto secondogenito di Carlo Magno,
Pipino, destinatario del Regno d’Italia ma morto prima di ereditarlo. La
ribellione di Bernardo finì con sconfitta e la morte del giovane (818) che
lasciò disponibile per Lotario il Regno d'Italia che gli sarebbe toccato in
eredità dal padre.
In Occasione della dieta di Worms
(829), Ludovico il Pio, su pressione della seconda moglie Giuditta di Baviera,
stabilì di includere tra i suoi eredi il figlio avuto da questa Carlo II “il
Calvo” (823-877) che ottenne l'Alsazia,
la Rezia
e parte della Borgogna, sottratti a Lotario.
Nell'839, a seguito della morte (838) di Pipino (figlio di Ludovico), si
tenne una nuova dieta a Worms, dove, ignorando il figlio di questi
(Pipino il Giovane), furono confermate a Ludovico il
Germanico le regioni orientali, mentre la restante parte dell'impero fu divisa,
destinando la parte più orientale a Lotario, cui era destinato il titolo
imperiale (843-855), ed a Carlo il Calvo quella occidentale in cui era compresa
anche l'Aquitania. Assegnazione quest’ultima non accettata dai nobili locali che
la destinarono invece a Pipino il Giovane.
Gli eventi verificatesi alla morte di
Ludovico il Pio (840) sono significativi in quanto delinearono distinte aree
geografiche che determinarono i successivi assetti di potere. Ludovico il
Germanico, insoddisfatto della parte riconosciutagli, si unì a Carlo il Calvo
per contrastare Lotario che si era proclamato erede dell’Impero. Con il
trattato di Verdun (843) si arrivò ad una ristrutturazione del Regno che venne
diviso in tre Stati:
a) la parte occidentale francese fu confermata a
Carlo il Calvo;
b) quella orientale germanica ed austriaca a
Ludovico il Germanico.
c) la fascia centrale dell’impero che, tra
l’Olanda ed il settentrione d’Italia, comprendeva Borgogna, Lorena, Renania e
Provenza fu assegnata a Lotario, cui veniva riconosciuto il titolo imperiale (Lotario
I; 843-855). Il Regno d’Italia (costituito dal settentrione d’Italia) da allora
rimase collegato al titolo imperiale.
Alla morte di Lotario I (855), la regione
politico territoriale cuscinetto fra Francia e Germania di cui era titolare si
frantumò: il titolo imperiale ed il Regno d’Italia andarono a Ludovico il
Germanico (Ludovico II; 855-875), a Carlo il Calvo toccò il regno di
Provenza e parte della Borgogna ed a Lotario
II (865-869; figlio di Lotario I) andarono le regioni comprese tra il Reno
e la Savoia (Lotaringia) che, alla morte di questi, vennero divise tra i primi
due. Alla morte di Ludovico II, Carlo il Calvo, assunse la corona imperiale
(875-877) e la corona di Regno d’Italia, mettendo fine alla conflittualità
interna.
Alla morte di Carlo il Calvo l’impero venne
diviso tra i figli Ludovico il Balbo (balbuziente) e Carlomanno prima che,
nell’879, l’impero carolingio, costituito dalla parte occidentale della
Francia, da quella orientale e dal Regno d’Italia, venisse riunificato nelle
mani del figlio di Ludovico II il Germanico, Carlo III “il Grosso” (839-887)
che, inetto ed impedito, venne rimosso dalla Dieta di Francoforte (887) per non
aver saputo fronteggiare l’invasione di Vichinghi che erano giunti ad assediare
Parigi.
In questo passaggio in cui si realizzò
la disgregazione dell’impero di Carlo Magno tutte le diverse fazioni cercarono
di assumere il controllo dei territori in cui erano insediate e così Oddone conte
di Parigi (860-898) divenne re delle regioni
occidentali (Franchi occidentali) che occupavano pressappoco l’attuale Francia,
mentre il figlio naturale di Carlomanno, Arnolfo di Carinzia (850-899)
venne nominato re delle regioni orientali
che, comprendenti Sassonia, Franconia, Svevia, Baviera e successivamente anche la
Lotaringia, individuarono la Germania (Franchi orientali).
Ad Arnolfo successe il giovane figlio Ludovico
IV il Fanciullo (893-911), quindi Corrado
I di Franconia (911-918), alla cui morte fu scelto il principe sassone Enrico
I l’Uccellatore (919-936) coll’intento delle regioni orientali (Regno tedesco) di liberarsi
definitivamente dalla sua origine francese e costituirsi in monarchia autonoma,
scegliendo il principio di eredità dinastica della corona.
Ad Enrico successe il figlio Ottone
I il Grande che avviò il periodo
della dinastia sassone degli Ottoni (936-1002).
Al momento della deposizione di Carlo
il Grosso l’Italia era frantumata in tante unità di cui la più consistente era
il Regno d’Italia costituto da Liguria, Lombardia, Veneto, Emilia e Toscana e
la cui titolarietà spettava di diritto all’imperatore.
Nel resto d’Italia c’erano i territori
del Papato, il Ducato di Benevento governato dai Longobardi, i territori
bizantini e la Sicilia conquistata dai musulmani.
Con lo smembramento dell’impero
carolingio si avviò un settantennio di instabilità che sfociò nella
costituzione di un Regno d’Italia indipendente (888-960) conteso da molti
pretendenti tra cui i maggiori feudatari dotati di una potenza militare atta ad
ambire al controllo dei territori fin allora soggetti all'influenza carolingia.
Tra questi il marchese del Friuli, quello di Toscana, il duca di Spoleto,
ai quali successivamente si aggiunse il marchese d'Ivrea.
Di essi, i più accreditati pretendenti al titolo di re d’Italia, per diritti
dinastici, erano il nipote di Ludovico il Pio, Berengario I del Friuli
(850-924) ed il discendente di Lotario I, Guido II di Spoleto (-894).
La corona di re d’Italia venne assunta
(888) da Berengario I del Friuli che, sorretto da una potente milizia creata
per difendere i confini orientali dell’impero, riuscì a convincere una dieta
di Conti
e Vescovi
appositamente riunita nella capitale del Regno, Pavia, a farsi eleggere successore di Carlo il Grosso
sul trono italiano. Guido da Spoleto che, in concorrenza con Oddone di Parigi,
aveva concorso invano alla corona di re della Francia occidentale, rientrò con
il suo esercito in Italia e, rifiutando di riconoscere il titolo assunto da
Berengario, si mosse contro di lui e, nei pressi del fiume Trebbia (Piacenza),
gli inflisse una disastrosa sconfitta (889). Quindi convocò a Pavia (891) una
nuova assemblea per farsi proclamare re in cambio del riconoscimento ai vescovi
elettori dei loro domini e della concessione di immunità ecclesiastiche. Guido
da Spoleto, essendo anche riuscito a farsi incoronare imperatore (891-894) da papa Stefano V
(885-891), associò al trono il giovanissimo figlio Lamberto da Spoleto (880-898) che fece incoronare re d’Italia da
papa Formoso (891-896) con cui entrò successivamente in contrasto.
Infatti Formoso, d’accordo con Berengario, sollecitò il re dei Franchi
orientali, Arnolfo di Carinzia
a venire in Italia per spodestare Lamberto da Spoleto. Cosa che Arnolfo attuò
nell'894
allorché, dopo aver conquistato Bergamo,
Milano
e Pavia,
si fece riconoscere re di Italia in contrapposizione ai da Spoleto. Quindi,
ricevuto l'omaggio feudale da Berengario, fece ritorno in Germania, malgrado il
marchese d’Ivrea, sostenuto da contingenti inviati dal re Rodolfo I di
Borgogna, avesse tentato di sbarrargli la strada.
Nello stesso anno (894) Guido II di
Spoleto morì, lasciando il conteso titolo di re d’Italia al giovane figlio Lamberto
che si trovò in chiara contrapposizione con Arnolfo di Carinzia. Questi nel
896, ritornato in Italia per riprendersi il titolo, mosse verso Roma accolto
benevolmente da papa Formoso che lo incoronò imperatore, realizzando così il
trasferimento del titolo imperiale in mano a principi germanici.
Rientrato Arnolfo in Baviera,
Berengario del Friuli e Lamberto da Spoleto concordarono la spartizione del Regno
d’Italia: a Berengario venne assegnato il Friuli e il territorio fino all’Adda
ed a Lamberto il resto. Lamberto morì accidentalmente a Marengo nel 898 per una
caduta da cavallo.
Nell’899, dopo la morte di Lamberto,
mentre Arnolfo era impegnato militarmente, Berengario si fece rieleggere re
d'Italia dalla dieta dei feudatari, prima di dover correre a contenere, nella
pianura padana, una scorreria di Ungari che lo sconfissero sul Brenta
costringendolo a pagare un forte riscatto. Evento che causò a Berengario
perdita di prestigio e fece sorgere dubbi sulla sue capacità di difendere il Regno
d’Italia. Ragion per cui, alla morte di Arnolfo (899), i potenti del Regno
sollecitano papa Benedetto IV (900-903) a proporre, per la copertura del
titolo imperiale rimasto vacante, il nipote di Ludovico II il Germanico, Ludovico
III di Provenza (880-928), che venne in Italia e, dopo aver sconfitto
Berengario, si fece eleggere re d’Italia dalla dieta di Pavia (900) e quindi
incoronare imperatore (901).
Berengario, preparò la rivalsa
rafforzando l’esercito bavarese con mercenari magiari e sconfiggendo per ben
due volte (902 e 905) Ludovico III che, imprigionato ed accecato, fu costretto
a rinunciare al titolo regale assunto da Berengario. Questi cercò di riprendere
il controllo del regno distribuendo benefici ma non poteva ambire al titolo
imperiale senza l’aiuto del papa. L’occasione si verificò nel 915 allorché,
avendo fornito a papa Giovanni X (914-928) l’aiuto richiesto per espellere una
forte comunità musulmana insediata presso il Garigliano
con l’intento di minacciare Roma, venne eletto imperatore (915-924) e ricevette
l’omaggio dei feudatari. Sembra che durante l’incoronazione il popolo abbia
acclamato il sovrano “nativa voce”
che sarebbe una delle prime testimonianze della lingua italiana.
Il periodo di tregua che aveva
accompagnato i primi anni di investitura fu rotto nel 922 quando una congiura
di nobili, avversa a Berengario incolpato di aver dato spazio a truppe ungare,
voleva portare sul trono d’Italia Rodolfo II di Borgogna (888-937).
Questi scese in Italia e, sconfitto
Berengario a Fiorenzuola d’Adda in una delle più cruente battaglie dell’epoca,
gli sottrasse la corona d’Italia. Berengario, mentre Rodolfo era in Borgogna a
curare gli affari di quella regione, cercò una ennesima rivalsa assediando
Pavia con un esercito mercenario e sconfiggendo Ugo di Provenza
(880-948; successore di Ludovico III e nipote di Lotario II di Lotaringia) che
cercava di inserirsi nelle vicende italiane e sostituirsi a Rodolfo. Le milizie
di Berengario sconfissero Ugo di Provenza e distrussero Pavia facendo strage di
civili. La guerra si concluse con l’assassinio di Berengario (824) a Verona a
seguito di una congiura. Mentre l’Italia settentrionale era attaccata dagli Ungari che devastavano la Lombardia
e incendiavano Pavia,
i nobili e gli ecclesiastici che avevano sostenuto Berengario si ribellarono a
Rodolfo, offrendo il regno d’Italia ad Ugo di Provenza che fu incoronato a
Pavia dopo che Rodolfo aveva abbandonato definitivamente l’Italia.
Ugo cercò l’appoggio del papato nel
vano tentativo di essere eletto imperatore ed a tal fine sembra abbia sposato
(932) la nobildonna romana Marozia (892-955), madre di papa Giovanni XI (931-935).
Nel 945, i feudatari italiani guidati dal nipote di Berengario I, Berengario
II d’Ivrea (900-966) si opposero ad Ugo che fu costretto a trasmettere il
regno al proprio figlio Lotario II di Provenza (945-950). Berengario II prima
prese sotto la sua tutela Lotario II, quindi ne ordinò la soppressione per
assumere direttamente il titolo di re (950-961) ed associarsi il figlio
Adalberto. Berengario II per rafforzare la sua posizione resa debole dal
sospetto che avesse fatto avvelenare il predecessore cercò di far sposare il
figlio Adalberto con la vedova di Lotario II di Provenza, Adelaide di Borgogna
che rifiutò. L’azione politica di Berengario non convinse né i feudatari né gli
ecclesiastici e papa Giovanni XII (955-964) e la vedova di Lotario,
Adelaide, chiesero un intervento del re di Germania (dal 1936) Ottone I il
Grande (912-973) che scese in Italia, depose Berengario II e dopo aver
sposato Adelaide di Borgogna si fece incoronare (951) a Pavia re d’Italia. Ottone,
ricevuta quindi la sottomissione a vassallo da parte di Berengario II, pose la
corona del Regno d’Italia sul capo di quest’ultimo, il quale, successivamente adottò
una politica aggressiva sia verso i feudatari che verso il papato. Circostanza
che spinse Giovanni XII
(955-964) a richiedere l’intervento di Ottone che scese in Italia (961) depose Berengario e nel 962, ricevette
dal Papa la corona imperiale vacante dal tempo di Berengario I del Friuli.
Dalle vicende tracciate si può dedurre
quanto la storia di quel sessantennio che intercorre tra la morte di Carlo
Magno (814) e la deposizione di Carlo III il Grosso (877) sia dominato da una
conflittualità che generò una condizione di insicurezza sociale e di debolezza
strutturale da far precipitare tutti i territori dell’Impero nell’anarchia. Una
condizione che lasciò spazio alle pressioni, da Oriente, di diverse orde
barbariche di Ungari e di Slavi ed alle incursioni di Saraceni e Vichinghi.
Questi percorrevano le strade di Francia tra l’indifferenza delle popolazioni e
degli aspiranti locali al potere, le prime assorbite da problemi di sopravvivenza,
i secondi impegnati in conflitti periferici. Infatti le esigenze di difesa del
territorio, venuta meno l’autorità centrale e non trovando più risposta nello
Stato, furono demandate a quelle forze territoriali, principati e signorie locali,
anello di collegamento tra apparato regio e società che rappresentavano un
potente strumento di coesione politica.
I principati erano aggregazioni
formatesi localmente con il consenso regio e per iniziativa autonoma di
famiglie dotate di una base patrimoniale e spinte da esigenze di difesa
territoriale che, nella gestione pubblica, avevano assunto una posizione
dominante esercitando, talvolta da secoli e tramandata da padre in figlio, un'autorità
quasi assoluta sui servi della gleba, assorbendo la piccola proprietà e costringendo
i coloni, abbandonati da uno Stato in disfacimento, a porsi sotto la loro
protezione.
Queste entità si impegnarono in
contrapposizioni al fine di rinsaldare i propri possessi o per realizzare
ulteriori espansioni i cui confini, pur mutevoli, mantenevano una certa
stabilità. Lotte che provocarono il frazionamento dell’autorità politica con
l’evoluzione nei rapporti fra principi e signori locali i cui membri, una volta
assorbita la piccola proprietà, poterono insediarsi su ampi distretti (latifondi).
Qui, oltre a garantire un rapporto di alleanza e sostegno al principe,
asservirono i coloni ed amministrarono il governo, esercitando la giustizia con
una autonomia tanto maggiore quanto più marcata si mostrava la debolezza
dell’apparato centrale. In definitiva essi aspirarono a divenire, nell’ambito
dei loro distretti, quasi altrettanti piccoli sovrani. Ugualmente si
comportavano i rappresentanti delle aristocrazie militari e delle gerarchie
ecclesiastiche. I primi, in misura della loro rango e dei servigi prestati,
ricevevano gratuitamente dall’Imperatore o dal signore beni immobili (terre e
dimore: beneficium) dove si insediavano in qualità di vassalli per procurarsi il legittimo mantenimento
(attraverso le entrate dell’erario) coll’impegno di fornire al principe, quale
contropartita, un compenso rappresentato dal servizio militare richiesto (servitium).
Analogamente le gerarchie ecclesiastiche ed abbaziali diedero origine a formazioni
territoriali che, tendenti a controllare e sottomettere i fedeli al loro
ministero, svilupparono, nel groviglio delle nuove forze locali, connotati
signorili.
Tali entità, pur non direttamente
gestiti, furono riconosciuti dal potere regio ed imperiale perché costituivano
un efficace strumento per assemblare l’esercito e controllare il territorio.
Esse vennero a costituire quel tipo di frazionamento politico denominato feudalesimo
(feh-od: possesso di bestiame assimilabile a beneficio ricevuto
in cambio dei servizi resi) che, pur se nella sua struttura economica essenziale
esisteva fin dal tardo Impero e dai regni romano-barbarici, si sostituì allo
stato unitario e fortemente centralizzato di Carlo Magno. Il quale dirigeva
l’apparato statale, riunendo una assemblea annuale di laici ed ecclesiastici (Placitum generale) le cui delibera
venivano assunte nei Capitularia,
e ne controllava la funzione servendosi dei vescovi (missi dominici),
quali ispettori itineranti in tutte le regioni. Organizzazione diffusa anche nel
regno d’Italia che, allora, comprendeva tutto il territorio centro
settentrionale dislocato a nord dei Ducati di Benevento e di Spoleto.
Quando Carlo Magno conquistò il regno
d’Italia ai preesistenti ducati, istituì la marca e la contea, la prima costituita da varie contee
era una circoscrizione militare di frontiera retta da un marchese scelto
fra i conti, amministratori di una unità territoriale detta contea. Con
la caduta dell’impero, queste entità (ducati, marche e contee) che arano state
concesse in appalto dal re o imperatore si trasformarono in unità indipendenti
i cui titolari (margravi) divennero proprietari e liberi di disporre a
loro arbitrio di esse e dei loro abitanti a cui imponevano corvées, tasse ed utilizzavano anche per costituire la milizia (banno). Questa concentrazione di terra
in mano a pochi originò la crescita di un istituto sociale, la nobiltà,
destinato a condizionare la vita delle nazioni per molti secoli. Il privilegio
dei margravi, col tempo venne esteso ai vassalli a cui, in cambio del servizio
militare, fu dal signore assegnato il godimento di una fetta di proprietà non
trasmissibile per eredità. Il vassallo dava a sua volta la terra da gestire ad
un sottoposto (valvassore) che a sua volta la faceva lavorare da un
colono. Una prassi che col tempo si venne a modificare ed i feudatari minori,
che non potevano lasciare la terra ai propri eredi ma trasmettere solo le funzioni,
finirono con il diventare proprietari (Constitutio de feudis, 1037) e
lasciare in eredità ai figli maschi feudo e l’associato titolo nobiliare col
privilegio di non dover pagare tributi ma solo assicurare il servizio di
milizia.
I caratteri più generali dell’ordinamento feudale sono sintetizzati nel riquadro [•], perché in effetti i rapporti fra i vari
soggetti potevano essere più articolati e prevedere diverse forme di
organizzazione sociale importate dai popoli invasori dai lontani paesi di
origine. Così fu per il feudalesimo introdotto nel XII sec. (secondo
feudalesimo) dai Normanni nel Meridione d’Italia dove feudo e vassallaggio
furono organizzati in un ordinamento fortemente centralizzato e basato su
ordinamenti e leggi dettate direttamente dal sovrano, presente sul territorio e
che rappresentava il vertice del potere pubblico in cui si concentravano
funzioni e diritti trasmissibili ereditariamente. Vertice che, invece, nell’organizzazione carolingia era
rappresentato dal signore feudale.
Successivamente la crescente capacità delle monarchie nazionali di
impedire il costituirsi di nuovi nuclei autonomi di potere politico-militare e
di imporsi ai potentati locali già esistenti permise di convogliare i poteri
autonomi dentro un assetto statale centralizzato. Questo, attraverso una catena
di controllo affidata ai funzionari, svuotò il potere dei referenti periferici
di ruolo politico e lo subordinò all’autorità regia che venne a riacquisire
potenza ed efficacia.
Nell’Italia centrosettentrionale l’esistenza di Comuni (v. seguito: Formazioni
comunali)
di tradizione romana impedì il pieno sviluppo degli
ordinamenti feudali che restarono circoscritti ai centri rurali.
[•]
Ordinamento feudale
Successivamente al
disfacimento dell’impero carolingio si svilupparono i fondamenti preesistenti e
relativi a beneficio, vassallaggio ed immunità.
-
Il
beneficio, o frazione territoriale (feudo) rappresentava una
concessione del principe che andava a formare o ad integrare piccole e grandi
signorie (marche e contee). Esso veniva dato in dono in un
contesto privato, come benevola concessione del signore ai vassalli in cambio del servizio reso a quest'ultimo. Inizialmente
il feudo veniva concesso in “comodato” che attribuiva il possesso ma non la
piena proprietà, per cui non poteva essere venduto né alienato ed, alla morte
del vassallo, il feudo non si tramandava agli eredi ma ritornava al signore.
Tuttavia i feudatari riuscirono a modificare lo stato di cose e, nell’877,
Carlo il Calvo, con il capitolare di Quierzy, concesse ai grandi
feudatari la possibilità di trasmettere i feudi in eredità, mentre i piccoli
feudatari dovettero aspettare la Costitutio de feudis del 1037 per ottenere la trasferibilità
ereditaria.
-
Il
vassallaggio era una sorta di contratto che si istaurava tra signore e
vassallo in una cerimonia di investitura in cui il vassallo (homo),
ricevendo l’omaggio e la protezione del signore, assicurava fedeltà e servizio.
Il mondo feudale che trovò formale espressione nell’ordinamento in marche e contee facenti capo all’imperatore cui spettavano determinati
diritti (regalia) era dominato da una
rigida scala gerarchica. In essa ciascun membro godeva della assoluta
sudditanza dei sottoposti secondo un sistema che poneva al vertice una carica
di alto rango (imperatore, re, papa, vescovo, conte), quindi i vassalli
con i loro sottoposti, valvassori e valvassini (ultimo scalino
dei feudatari) sotto il cui controllo si trovavano solo i servi della gleba. Una società
piramidale a base molto ampia che, con la progressiva alienazione delle
proprietà fondiarie, diede origine ad una feudalità minore composta da
valvassori, da mercanti e da funzionari agiati che, possessori di terreni,
ambirono a liberarsi degli anacronistici vincoli feudali.
-
I’immunità
consisteva nel privilegio di non subire, entro i confini della signoria
feudale, alcun controllo da parte dell'autorità pubblica. Nel caso dei feudi
più grandi si aggiungeva la concessione del diritto di giurisdizione che
consisteva nella delega ad amministrare la giustizia pubblica ed a goderne i
proventi nel caso di pene pecuniarie.
Il Sacro Romano Impero di Ottone I
L’impero medievale, sotto la dinastia
degli Ottoni, consacrò l’unità delle stirpi germaniche assumendo la difesa dell’Occidente
dalle incursioni degli Ungari e Slavi.
Ottone I, re di Germania dal 936 e,
nominalmente, re d’Italia settentrionale dal 951, unificò il governo delle due
nazioni (più tardi si sarebbero associati i regni di Borgogna, dal 1032, e di
Boemia, dal 1041) e dopo la vittoria di Lechfeld sugli Ungari (955) che pose fine
alle loro incursioni in Europa acquisì un prestigio che gli valse la nomina ad
imperatore (962) da parte di papa Giovanni XII. Nomina che stabilì il
collegamento fra nazione germanica ed Impero dando vita al Sacro Romano
Impero della Nazione Germanica (noto anche come Primo Reich, un
agglomerato politico medioevale che si dissolse in epoca napoleonica,
1806)
che fece della Germania il paese più ricco ed ordinato d’Europa. La nomina fu propiziata
anche dall’interesse dei vertici ecclesiastici di poter contare, dopo la
contrapposizione con la Chiesa d’Oriente (emersa nell’863 tra papa Nicolò I ed
il patriarca di Costantinopoli Fozio sul
Simbolo niceno-costantinopoliano), su un protettore della religione cattolica e
della Chiesa di Roma. E pur se l’imperatore veniva ad assumerne il controllo
come alle origini carolingie dell’Impero, il vantaggio per Roma e la sua
Chiesa, considerata la manifesta attrazione dei re germanici per l’antico universalismo
da essa rappresentato, consisteva nel conseguente spostamento del centro ideale
dell’Impero dal mondo germanico al Mediterraneo. Orientamento che, emerso con
Ottone I, ebbe la sua celebrazione con le scelte di Ottone III
(880-1002) che trasferì a Roma la capitale del regno.
La concentrazione di potere nelle mani
di Ottone implicarono interventi nei problemi di sicurezza dell’intera penisola
italiana e proposero la prospettiva di unificazione dell’intera penisola
italiana sotto la corona tedesca. Ragion per cui Ottone pensò di stabilire un
legame con l’imperatore bizantino Giovanni I Zimisce, facendo sposare (972) la
nipote di questi, principessa Teofane con il figlio Ottone II (955-983).
Ciò che gli avrebbe consentito di estendere la sua influenza non solo sui
territori e ducati bizantini ma anche di operare un controllo sui ducati di
origine longobarda (Benevento, Capua e Salerno). Ottone II tentò addirittura di
annettere ai territori dell’Impero le regioni bizantine del Meridione
continentale e quelle musulmane del Meridione insulare ma venne sconfitto nella
battaglia di Capocolonna (982), presso Stilo, e fortunosamente riuscì a
salvarsi con pochi supersiti e riparare a Capua.
Dopo l’incoronazione ad imperatore,
Ottone I, informato della corruzione e del malcostume diffuso nella Roma di
Giovanni XII, rispondendo alla sua visione austera del potere, decise un
intervento (963) volto a definire i rapporti fra Stato e Chiesa, Privilegium
Othonis (962) [••] attraverso il quale confermò alla Chiesa le donazioni di
Pipino il Breve e di Carlo Magno (756 e 774), riconobbe ai papi la legittimità
del potere temporale e, coll’intento di sottrarre la scelta del papa
all’arbitrio della aristocrazia romana, stabilì che l’elezione del pontefice
dovesse avvenire con il consenso dell’imperatore ed, al fine di dotarsi di
funzionari di livello culturale elevato e di impedire loro la trasmissione
ereditaria dei feudi, dispose che gli imperatori potessero scegliere i propri
vassalli fra le autorità ecclesiastiche, stabilendo così per essi una doppia
dipendenza dai re da cui ricevevano sia i simboli del potere spirituale che
quello temporale. Per realizzare il suo progetto Ottone I intese superare il
sistema feudale con l’istituzione del feudo cittadino che affidò con
carattere vitalizio ai vescovi (vescovi-conti) che vennero inseriti
nella gerarchia feudale. Il feudo, non potendo essere dagli ecclesiastici trasmesso
per successione, alla morte del vescovo ritornava di fatto nella disponibilità
dell’imperatore. Il feudo cittadino, nel tentativo di espandersi verso la
campagna, avviò un conflitto fra feudatari cittadini-eclesiastici e feudatari rurali-laici
che alterando le coordinate della gerarchia ecclesiastica feudale che venne a
trovarsi in uno schieramento più vicino all’imperatore che al papa.
I vescovi-conti erano scelti tra i
membri della nobiltà, la qualcosa determinava stretti vincoli di interesse tra
aristocrazia ed alto clero. Il quale, pur se sovente si manifestò rozzo e
corrotto, allorché venne insignito, oltre a quelli religiosi, dei compiti
amministrativi e militari che si traducevano nel conferimento del diritto di
giurisdizione, di tassazione e di responsabilità militari di sostegno, si
rivelò abile nella gestione dei patrimoni ed animoso sostenitore militare
dell’Impero. Inoltre nel momento in cui acquisirono il feudo cittadino, i
vescovi non solo fondarono chiese e monasteri ma, con lo stesso zelo,
cercheranno di fortificare le città con solide mura per farne un luogo protetto.
Ciò che indusse l’urbanizzazione del popolo contadino e il conseguente sviluppo
dell’artigianato e del commercio, velocemente sviluppatosi con il potenziamento
delle vie di collegamento con altri centri. D’altro canto il trasferimento
della forza lavoro dalla campagna alla città produsse un frazionamento del
latifondo che, dato in affitto, favorì, con l’intensificazione delle
coltivazioni, il miglioramento dell’agricoltura.
Si venivano così ad attuare i
presupposti per lo sviluppo delle formazioni comunali (v. seguito) in cui il vescovo-conte, capo politico
e militare, modificò la sua collocazione di sostenitore dell’imperatore
assumendo il ruolo di oppositore del potere laico dell’Impero.
[••]
Privilegium Othonis
L’accordo
stabilito, nel 962, fra il re di Germania Ottone I e papa Giovanni XII,
prevedeva il “beneplacito” alla nomina dei papi da parte dell’imperatore che si
attribuiva il dovere di sorveglianza della città di Roma e l’impegno di
mantenere sotto tutela imperiale tutte le donazioni ricevute dal Papato.
L'anno
successivo (963) alla promulgazione del Privilegium, a seguito della
fuga di Giovanni XII colpevole di aver
tradito il patto di alleanza con l'Imperatore, fu indetto un sinodo in
S.Pietro, nel corso del quale Ottone modificò la clausola del Privilegium
relativa al ”beneplacito” del sovrano ad elezione del papa avvenuta con il “beneplacito”
preliminare.
Ottone
depose Giovanni XII e fece eleggere un uomo integro, Leone VIII (963-965,
ritenuto un antipapa) ponendosi in contrasto con i cittadini romani che
elessero a loro volta Benedetto V (964-966). Il contrasto non si placò con la
morte di Leone VIII e l’elezione di Giovanni XIII (965-972) su indicazione
dell’imperatore dovette superare altri contrasti prima di affermarsi.
Il
Privilegium fu riconfermato attraverso il Diploma Heinricianum,
stipulato il giorno di Pasqua del 1020 tra il papa Benedetto VIII (1012-1024) e l'Imperatore Enrico II di Baviera.
Tutti
i papi dal 963 al 1058 furono eletti sulla base di quanto prevedeva il Privilegium.
Nei
decenni successivi alcuni pontefici, a partire da Leone IX (1049-1054), iniziarono una
riforma della Chiesa opponendosi al Privilegium, che ne limitava
l'autonomia. Esso fu abolito da Niccolò II (1059-1061) nel
Concilio Lateranense del 1059, a seguito del quale
il papa emanò un decreto con cui veniva stabilito che, da allora in poi,
l'elezione del pontefice sarebbe stata una prerogativa esclusiva di un collegio
di cardinali, riuniti in Conclave.
L'abolizione
del Privilegium fu alla base del duro scontro che contrappose la Chiesa
e l'impero dal 1076 al 1122: Lotta
per le investiture.
Ottone III, dopo l’investitura ad
imperatore (996) si trovò in difficoltà a seguito dell’imposizione sul soglio
pontificio di suo cugino, Bruno di Carinzia, cappellano di corte e primo papa di
origine tedesca Gregorio V (996-999).
Infatti appena Ottone III si allontanò da Roma, il papa da lui indicato venne
deposto dalla nobiltà romana, guidata da Giovanni Crescenzio, e nominato al suo
posto l’antipapa Giovanni XIV che venne scomunicato da un sinodo di vescovi tenutosi (997) a Pavia. La controversia si
risolse con il rientro a Roma di Ottone che segnò l’emarginazione e condanna di
Crescenzio. Alla morte di Gregorio V, Ottone indico al soglio pontificio il suo
precettore, Gerberto di Aurillac, che assunse il nome di Silvestro II
(999-1003). Sotto l’influenza di questi Ottone impose il greco ed il latino come
lingue ufficiali dell’Impero e cullò il progetto di una Renovatio Imperii
che non riuscì ad avviare per l’opposizione che si manifestò e che la sua
prematura morte (forse per malaria o probabilmente per veleno) fece accantonare.
Ad Ottone III successe come re di
Germania ed imperatore il cugino Enrico II di Baviera (1002-1024) che, abbandonando i progetti di rinnovamento
cristiano di Ottone III, ritornò ad una visione più prettamente germanica della
centralità dell’Impero che esigeva il collegamento della dignità imperiale e
del Regno d’Italia alla potenza tedesca a cui veniva subordinato il vincolo con
Roma.
Nel momento in cui l’Impero allentò la
sua attenzione sui fatti italiani si verificarono tentativi di riappropriarsi
di forme di autonomia. Così la nomina dei papi ritornò ad essere condizionata
dal patriziato romano le cui preoccupazioni erano del tutto estranee agli
aspetti spirituali di quella carica. Con lo stesso intento un gruppo di
vassalli laici ostili al potere imperiale, nell’estremo tentativo di creare un
regno politicamente e giuridicamente distinto dall’impero tedesco, elessero a
Pavia un nuovo re, Arduino d’Ivrea (1002-1014). Ma la fazione
ecclesiastica filo-imperiale, nel timore di venire esclusa e preferendo mantenere il potere in mano ad una dinastia
tedesca che non presente sul territorio lasciava integra la possibilità di
salvaguardare i propri particolarismi, si rivolse all’imperatore Enrico II per
sollecitarlo ad emarginare Arduino e a riaffermare il principio che il regno
tedesco dovesse mantenere il diritto esclusivo delle scelte politiche inerenti
il regno d’Italia che, gravando politicamente su Roma, implicavano anche la
protezione della Chiesa e l’intervento nell’area di dominazione temporale dei
papi.
L’ideologia del potere imperiale
sull’Italia e su Roma si rafforzò con gli imperatori della dinastia salica di Franconia (gli imperatori ed i re erano scelti
da una assemblea di Grandi elettori, sulla base della influenza personale e
tribale).
L’imperatore Corrado II il Salico (1027-1039) cominciò ad
applicare alle tre entità politico-territoriali (impero, nazione tedesca e
nazione italiana) il titolo di Romanum imperium ed a adoperare nel sigillo
imperiale la formula che celebrava Roma caput mundi. Egli fu l’artefice
della Costitutio de feudis, una legge rivoluzionaria (v. sopra) che scompaginò, in Italia,
l’impalcatura feudale.
Il successore Enrico III
(1039-1056) si fece conferire dai romani il titolo di
Patricius Romanorum e ribadì il diritto dell’imperatore di proporre il
nome del futuro papa (principatus in electione papae). In un
concilio da lui convocato a Sutri (1046) depose tre papi, ciascuno espressione
di una diversa fazione, accusati di simonia (Gregorio VI,
Benedetto IX e Silvestro III),
designando al soglio pontificio un prelato tedesco di sua fiducia, Clemente
II (1046-1047) a cui fece succedere altri tre pontefici scelti tra i
prelati tedeschi attivi in azioni di potenziamento dell’autorità imperiale:
Damaso II, Leone IX e Vittore II. Di questi, Leone IX (1049-1054),
ispirato dall’intransigente Ildebrando di Soana, eminenza grigia della Curia (poi
papa Gregorio VII; v. seguito) svolse
una azione determinata a ripristinare la dignità del clero e le norme del
diritto canonico (tra cui l’obbligo del celibato), introducendo innovazioni liturgiche
(Eucarestia con pane non lievitato; innovazioni prese a pretesto dal patriarca
di Costantinopoli Michele Cerulario per operare il Grande Scisma del 1054) e
riaffermando il diritto della Chiesa romana di nominare e rimuovere i titolari di cariche ecclesiastiche. La
risposta non si fece attendere ed Enrico IV (1056-1106; v. seguito), oltre a rivendicare la dignità
imperiale romana riuscì a collegarsi il patriziato romano che, legato alla
amministrazione politico-sociale della città, deteneva il controllo
dell’elezione del pontefice, in contrasto con l’emergenti istanze riformatrici
della Chiesa. Il processo di romanizzazione formale avviato dall’imperatore
andò quindi a scontrarsi con il movimento riformatore della Chiesa, avverso
alle degenerazioni del costume ecclesiastico provocato dalle ingerenze dei
laici a tutti i livelli della gerarchia ecclesiastica e che culminò nell’azione
di papa Gregorio VII (1073-1085).
Con Enrico V (1106-1125) che costrinse
(1105) il padre ad abdicare in suo favore, entrò in uso la designazione del re
tedesco come rex romanorum in quanto destinato ad assumere la corona
imperiale (dopo l’incoronazione ricevuta da papa Pasquale II egli cedette il
titolo di re d’Italia alla contessa Matilde di Canossa, 1111).
Effetti del buono governo in città
In
Italia molti centri che avevano sviluppato un forte impianto urbano fin dal
tempo dell’Impero romano mantennero la loro tradizione cittadina per diverse
opportunità:
- alcuni centri, favoriti dalla posizione
geografica che le situava strategicamente allo sbocco di valli o su nodi di
comunicazioni, divennero sedi di stazioni doganali;
- altri, avvantaggiati da una particolare
situazione storica, divennero sedi di amministrazioni laiche o ecclesiastiche
in cui si concentrarono milizie, servizi e scambi commerciali;
- altri, situati sulle coste, poterono dar
vita a rilevanti attività commerciali che indussero anche la crescita del
territorio retrostante.
Alla
nascita dei centri urbani contribuirono anche le incursioni predatorie dei sec.
IX-X di Saraceni ed Ungari che, rispettivamente sulle coste e nell’interno,
costrinsero le comunità ad unirsi per organizzare una vita associativa fondando
sulle alture borghi idonei alla difesa, fortificando vecchie mura o
costruendone nuove. A questo fenomeno associativo si sovrappose quello della
crescita demografica del XIII sec. che riempi le città (gente nova) non solo di miseri villani in cerca di fortuna e di
sottrarsi al giogo cui erano obbligati dal diritto feudale ma anche della media
borghesia campagnola e benestante che, attratta dalla prospettiva degli affari,
contribuì a far realizzare rapidi arricchimenti.
Nell’XI
sec. la crescita dei centri urbani fu favorita dai cambiamenti che le gerarchie
ecclesiastiche subirono nel corso della lotta
per le investiture e dalla mancanza di una costante presenza regia che
favorì il sorgere di poteri locali tendenti ad intraprendere una lotta per la
emancipazione e per l’affermazione delle proprie istanze. Modalità e tempi di
formazione delle autonomie del centri urbani furono differenti, essendosi esse
costituite a seguito del naturale sviluppo della gestione pubblica risalente
alla romanità o per rottura con le strutture del passato che, di fatto,
rappresentarono un cambiamento rivoluzionario. I centri urbani, per
costituirsi, dovettero lottare per contrastare il potere feudale che, pur
ritenuto arbitrario, imponeva vincoli e tributi ostacolando lo sviluppo ma
subiva a sua volta un condizionamento da parte dei propri stessi vassalli che
ambivano a rompere i vincoli di dipendenza. Per evitare limiti alla crescita, i
centri urbani si posero, al fine della emancipazione delle classi cittadine, l’obiettivo
di acquisire una autonomia di gestione, ottenuta con le armi o mediante
trattativa con il feudatario che comportava il riconoscimento di un compenso.
L’autonomia diede luogo ad una profonda trasformazione sociale caratterizzata
dal rifiorire delle attività artigianali e dall’emergere di una nuova classe,
la borghesia che andò a rafforzare quei ceti subalterni (piccoli mercanti ed
operatori economici) che, organizzatesi in Associazioni
professionali delle Arti o Corporazioni
di mestiere costituirono società armate con compiti di fanteria e di difesa
delle fortificazioni.
Le Associazioni
delle Arti o Corporazioni (Arti
in Italia, Guildes in Francia, Guilds in Inghilterra, Gremios
in Spagna, Zünften in Germania, Gremi in Sardegna) erano delle associazioni nate per regolamentare e
tutelare le attività degli appartenenti ad una stessa categoria professionale. Le
corporazioni si costituirono o trasformando le confraternite
di carattere devozionale o fondando un sodalizio che impegnava i membri
all’assistenza reciproca e alla difesa degli interessi comuni. Le prime
associazioni costituitesi nel corso del XIII sec., riuscirono ad assumere un
ruolo guida nelle istituzioni cittadine, estendendo il loro controllo su
funzioni pubbliche e la sorveglianza delle strade. Le associazioni artigianali
si suddivisero in Maggiori che
formavano il popolo grasso (mercanti, banchieri, medici,
speziali, giudici, notai), Medie
e Minori (o dei Mestieri:
conciatori, sellai, macellai, falegnami, bottai, fornai, albergatori,
vinattieri, pizzicagnoli, ecc.) che raggruppavano le categorie produttive (popolo
minuto) ed erano relegate a un ruolo subalterno rispetto alle
corporazioni mercantili.
Il
compito primario di ogni corporazione era la difesa del monopolio nella pratica del mestiere, vincolato
ad un ordine gerarchico che distingueva i maestri
dagli apprendisti e dai lavoratori tra cui la disparità
economica era sensibile e su cui le corporazioni erano competenti nel
determinare salari e prezzi, fissare orari di lavoro, dirimere controversie e
praticare sanzioni. I membri delle corporazioni rispondevano ad un rigoroso
codice morale, avevano il dovere si soccorrersi vicendevolmente in caso di
bisogno (rapimenti, fallimenti, imprigionamenti), di finanziare la costruzione
di Chiese ed edifici pubblici e di organizzare feste e spettacoli
Il
regime corporativo non si diffuse ovunque secondo le medesime modalità e nello
stesso arco di tempo: nelle città europee, più strettamente vincolate alle
autorità imperiali, le corporazioni si costituirono solo per iniziativa del
potere laico o ecclesiastico mentre in Italia la nascita e lo sviluppo di esso
fu prevalentemente spontaneo e legato alla fioritura dei Comuni. Differentemente da quanto avveniva
nel Meridione normanno dove i capi delle associazioni erano designati dal
sovrano.
Nel
corso del XII-XIII sec. le città acquisirono il controllo della campagna
circostante, contado, prima che questo, manifestando aspirazione all’autogestione,
si ponesse in conflitto con le città al fine di autodeterminarsi attraverso la
costituzione dei comuni rurali. Le due entità ebbero uno sviluppo differenziato,
richiedendo le città manodopera artigianale ed i centri rurali lavoro contadino
per la messa a coltura di nuove terre.
Il
primo avvio organizzativo fu, attraverso articolati passaggi, la costituzione
di associazioni comunali che agirono in rappresentanza del
pubblico interesse ed assunsero, con il governo della città, il potere di
legislazione e di nomina dei magistrati. Il trasferimento di poteri dal
feudatario, che sovente era il vescovo rappresentante della città di fronte al
sovrano e del sovrano presso i cittadini, alle associazioni comunali si
realizzò mediante il passaggio intermedio di una parte di diritti ai vassalli.
Questi, convenendo con l’autorità ecclesiastica del luogo nell’interesse comune
di svincolarsi dal dominio imperiale, sostennero, nella gestione degli affari
amministrativi e giudiziari, il vescovo e coloro (potentiores) che per autorevolezza (professionisti in ambito
giudiziario ed amministrativo) o per prestigio (mercanti) ne condizionavano
l’autorità. Gradualmente si formò un nuovo ceto di piccoli proprietari,
professionisti, mercanti, artigiani e salariati che, volendo acquisire una
maggiore autonomia dai grossi proprietari e dal vescovo diedero avvio alla
prima forma di associazionismo, le coniurationes fra gruppi di cittadini,
prima che si costituisse il Comune (da commune usato per indicare quanto atteneva al diritto privato di
una classe, mentre a publicum si
attribuiva una più alta valenza statale; municipium
equivalente a comunità
cittadina). Il Comune divenne una
entità politica opposta all’ordine feudale, si garantì una autonomia gestionale
usurpando i diritti dell’imperatore (regalia:
v. [•]) ed assunse un carattere intermedio tra associazione
privata, esponente degli interessi di una classe, ed ente pubblico rappresentante
della cittadinanza.
I primi
rappresentanti della collettività furono i cittadini ragguardevoli scelti in
base al censo, i consoli (Comune
consolare). Questi presero il posto dei rettori,
rappresentanti della “vicinanza” (adunanza popolare dei “vicini”) presso il
feudatario. I consoli, incaricati
della “reggenza” del Comune, prestavano giuramento davanti alla cittadinanza
elencando i propri obblighi che possono ritenersi le prime forme di Statuto.
Inizialmente tutti i cittadini che godevano dei diritti urbani si riunivano
nell’organo fondamentale della vita comunale, il Parlamento che, per
facilitarne la gestione, venne ridotto ad una rappresentanza in cui potevano
accedere solo coloro che vantavano alcune caratteristiche (maschi maggiorenni
che possedevano una casa, pagavano una tassa, ecc.: in sostanza i membri delle
famiglie più potenti, cives; rimanevano
esclusi, oltre alle donne, i lavoratori manuali, gli immigrati, i servi, ecc.).
Nel momento in cui i consoli si rivelarono incapaci di sanare i contrasti cittadini,
vennero sostituiti o affiancati dai Podestà (Comune podestarile), espressione della classe aristocratica a cui
venivano demandate le funzioni amministrative e che, per maggior garanzia di
imparzialità, vennero scelti, dal Consiglio
Generale, al di fuori del Comune. Il Podestà doveva giurare fedeltà agli
Statuti comunali ed alla fine del suo mandato veniva giudicato da un collegio
di sindaci. Al Podestà, verso la metà del XIII sec., si affiancò un Capitano del popolo, figura eletta per
bilanciare il potere e l'autorità delle famiglie aristocratiche.
Il Comune
fu una forma di regime politico che si assunse l’onere di amministrare con
competenza ed equità la cosa pubblica nel senso di curare i problemi dei
cittadini assicurando il benessere e la pace. Il Comune, nato in Italia, si sviluppò, fino al XIV sec. in vaste aree
europee. Esso, in particolare quello delle grandi città, per la necessità di
favorire lo scambio delle merci e mantenere sgombre le vie commerciali, fu
obbligato ad una politica aggressiva ed espansionistica che allargò la sua
influenza in ambito regionale con il controllo dei piccoli comuni che dovettero
accettarne la supremazia.
In
Italia il movimento comunale fu un fenomeno che riguardò le regioni
centro-settentrionali in quanto nel Meridione la situazione rimase legata ad
una forte e centralizzata organizzazione statale (quella dei re normanni e di
Federico II di Svevia) che, opponendosi ad ogni concessione limitante
l’autorità del sovrano sorretto da poche famiglie che governavano un territorio
poco popoloso e poco dinamico per la carenza di vie di comunicazione, provvedeva
a garantire i diritti dei cittadini ed a promuovere il commercio e
l’artigianato. Città come Napoli, Amalfi, Bari e Gaeta che si erano organizzate
autonomamente sotto la sovranità bizantina non acquisirono la piena autonomia a
causa dell’avvento dei Normanni.
Fra i
grandi comuni che si costituirono nel Settentrione, vanno ricordati quelli piemontesi:
Asti, Alessandria, Tortona, Vercelli; i lombardi: Milano, Pavia, Lodi, Como,
Crema, Cremona, Brescia, Bergamo, Mantova; i veneti: Verona, Vicenza, Padova;
quelli emiliani: Bologna, Parma, Reggio, Modena; i toscani: Firenze, Lucca, Siena.
A Genova
e Pisa il comune fu installato più
precocemente e Venezia godette da sempre di autonomia.
Il
fenomeno Comune andò esaurendosi tra
la fine del XIII e gli inizi del XIV sec. con l’affermazione dei rappresentati
dalla borghesia delle Arti ormai detentrice di gran parte del potere economico
ed orientata a scalare il potere politico escludendo i magnati (membri delle più potenti famiglie) di cui si cercò di
limitarne i diritti civili (legislazione
antimagnatizia) fino a costringerli all’esilio. In tal modo il Comune,
gestito dalle Corporazioni piuttosto che una organizzazione democratica,
divenne un centro di potere oligarchico esercitato dalle famiglie in cui si
concentrava la maggior ricchezza di recente acquisizione. Esse si posero in
lotta contro le famiglie di antica nobiltà a cui cercarono di assimilarsi.
Intanto
all’interno di molte formazioni comunali, nel corso del XIII sec., andava
montando la protesta delle classi di salariati insoddisfatti della loro
condizione mentre molti magnati, pur esclusi dal potere politico ma forti del
loro potere economico e del prestigio che le loro aderenze esterne garantivano,
rimasero all’interno della città e, nel momento in cui esplose la crisi,
divennero l’elemento di riferimento per ristabilire la pace sociale. Dalla
fragilità delle oligarchie cittadine emersero allora, forme di potere politico discrezionale
ed assoluto assunto da un personaggio appartenente all’aristocrazia o
proveniente dalla magistratura comunale (podestà, capitano del popolo, ecc.).
Potere che, prorogato con attribuzioni ampliate per più anni, si protrasse per
un tempo indefinito o a vita (dominus):
nacque la Signoria, una forma di governo monocratico assimilabile
alla monarchia che si venne a fronteggiare e ad alternarsi con l’esperienza
comunale.
Enrico IV dinnanzi a Gregorio VII a Canossa
La secolare disputa per la supremazia
tra potere temporale e potere secolare trovò la sua suprema espressione nella “lotta per le investiture” sorta nell’XI
tra papato, ispiratore del movimento riformatore ecclesiastico, e l’imperatore,
gestore del potere assoluto. Essa non si riferì alla sola elezione di cariche
ecclesiastiche in quanto anche imperatori e re, incoronati con cerimonia sacra,
venivano ad assumere un carattere sacrale ereditato dalla tradizione
ellenistico-romana.
Nel 1056 ll’imperatore Enrico III
successe il giovane figlio Enrico IV
di appena 6 anni, la cui reggenza, assunta dalla madre Agnese di Poitou,
indebolì il potere imperiale. In quella occasione un gruppo di ecclesiastici
riformatori (v. prima: Leone IX)
riuscì a smarcarsi dal potere imperiale e ad assumere la guida del Concilio
lateranense del 1059 che stabilì di vietare l’investitura di ecclesiasti da
parte dei laici, di riservare ai soli cardinali la scelta del pontefice e, fra
l’altro, condannare il concubinato. Scelte che destarono un grande entusiasmo
popolare e trovarono attuazione con l’elezione di papa Gregorio VII. Questi, personaggio
di grande levatura morale ed intellettuale e, fin dai tempi di papa Leone IX,
ispiratore di tutte le innovazioni, glaciale ed intransigente sostenitore della
Chiesa quale incarnazione di Cristo, unica, sovrana ed assoluta, temuto ed
inflessibile assertore della dignità regale quale riflesso di quella papale
sottratta ad ogni condizionamento laico ed ecclesiastico, nel 1074-75, diede
audacemente avvio a quella rivendicazione di indipendenza della Chiesa dal
potere secolare che viene ricordata con il suo nome, riforma gregoriana. Riforma che ebbe interpreti anche i suoi
successori prossimi e meno prossimi che con le loro disposizioni diedero vita
al Corpus juris canonici, un codice
promotore dell’accrescimento degli interessi politici della Chiesa a svantaggio
di quelli spirituali. Gregorio, oltre all’autonomia, volle rivendicare la supremazia
della Chiesa che espresse con ventisette proposizioni raccolte nel Dictatus
Papae (1075) dove venivano enunciati i poteri del papa a cui attribuiva assoluta
giurisdizione su tutta la cristianità, senza che alcuna entità ecclesiastica
potesse intervenire sulle sue decisioni o autorità politica potesse
condizionarlo, attribuendogli il diritto di poter deporre l’imperatore e
sciogliere i sudditi dal vincolo di sudditanza. Gregorio VII con la bolla Libertas
Ecclesiae (1079) mirava inoltre a liberare la Chiesa dai compromessi e
condizionamenti che le venivano imposti dai sovrani, istituendo il divieto
all’acquisto di dignità ecclesiastiche (simonia), al concubinato dei religiosi
ed all’investitura di vescovi ed abati da parte di cariche laiche (scelte e
modalità su cui invano erano intervenuti in precedenza i sinodi di Pavia e di
Sutri, rispettivamente nel 1022 e 1046).
L’imperatore Enrico IV, cercando di
conservare l’autorità imperiale senza alienarsi il consenso dei nobili
ecclesiastici, reagì al Dictatus Papae
con l’investitura, secondo la procedura usuale, del vescovo della Diocesi di
Milano divenuta vacante. Scelta che diede avvio al contrasto con la Chiesa. Richiamato
dal Papa, Enrico IV convocò prelati a lui fedeli nel Sinodo di Worms (1076) che
dichiarò deposto il Papa la cui risposta non si fece attendere. Gregorio VII, a
sua volta, nel sinodo quaresimale del 1076 scomunicò l’imperatore, sciogliendo
i sudditi dall’obbligo di fedeltà al sovrano (decadenza dal trono). Enrico IV
si vide incapace di far fronte alla conseguente ribellione dei principi
cattolici tedeschi che, oppositori della sua politica accentratrice, lo
avvertirono che non lo avrebbero più riconosciuto se non fosse stato assolto
dalla scomunica. L’avvertimento può servire a comprendere la complessità della
sovranità imperiale in Germania, soggetta alla norma dell’elezione e non della
successione ed al condizionamento di una miriade di stati laici ed
ecclesiastici difficilmente controllabili, pur se sugli stessi gravava il
timore di vedersi frammentare il feudo da un intervento imperiale. Enrico
pertanto si vide costretto ad accettare la mediazione della marchesa Matilde di
Canossa (1046-1115; i suoi vasti possedimenti, non essendovi eredi, furono successivamente
contesi fra Papato ed Impero) ed a recarsi ad incontrare il Papa ospite di
quest’ultima ed in presenza dell’abate cluniacense Ugo di Semour, padrino di
Enrico IV e maestro del Papa. Gregorio VII dopo averlo fatto attendere per tre
giorni ammise alla sua presenza un Enrico IV, dimesso ed implorante, a fare
atto di sottomissione (1077) prima di revocargli la scomunica ma non la
decadenza dal trono. Una conciliazione solo parziale che non servì ad Enrico IV
a riappacificare il fronte di contestazione germanico che tentò di affidare la
corona di Germania a Rodolfo di Svevia. Sconfitto Rodolfo, Enrico IV riprese a
nominare vescovi e ad insediare papa Clemente III al posto di Gregorio VII che si
vide di nuovo costretto a ricorrere alla scomunica ed alla deposizione (1080).
La reazione di Enrico IV fu di porre sotto assedio Roma che si arrese nel 1084,
costringendo Gregorio VII a rifugiarsi in Castel S.Angelo e ad invocare alla
protezione del duca normanno, Roberto il Guiscardo (1015-1085) che, a tal fine, interruppe una
azione di guerra sulle coste greche. I Normanni che, da allora divennero
il braccio armato dello Stato pontificio, costrinsero Enrico IV ad abbandonare
Roma che fu sottoposta dai mercenari saraceni ad ogni genere si violenza (1084)
di cui il popolo ritenne responsabile Gregorio VII che, sotto protezione
normanna, fu costretto a riparare a Salerno dove morì in una umiliante
solitudine.
Intanto si diffondeva l’idea del
recupero dell’autonomia delle autorità ecclesiastiche e del ritorno al rigore
morale anche se il processo, attraverso cui Impero e Papato sarebbero giunti
attraverso una reciproca rinuncia ad esercitare un ruolo universalistico, fu
segnato da incomprensioni, conflitti e forti contrasti. Il cui dipanarsi fece
nascere la convinzione che fosse necessaria la ricerca di un equilibrio che
consentisse ai prelati di mantenere benefici e prerogative di origine laica
senza l’ingerenza laica nelle attività della Chiesa. Ciò che indusse sia papa Callisto
II (1119-1124) che l’imperatore Enrico V di giungere a concordare un
compromesso, Pactum Calixtinum, meglio noto come Concordato di Worms
(1122, poi approvato dal Concilio Lateranense del 1123). In esso si stabilì
precise regole in fatto di investitura dei vescovi (concessione dell’anello e
del bastone pastorale, simboli del potere spirituale) riservata solo al papa
mentre l’imperatore aveva facoltà di concedere poteri temporali agli eletti.
Limitatamente al regno di Germania, in cui la corona era attribuita per
elezione da parte di rappresentati laici ed ecclesiastici, il papa accordava
all’imperatore il diritto di presenziare alle elezioni, il che subordinava
l’elezione stessa al gradimento della corona e riconosceva all’imperatore
facoltà di intervenire a dirimere eventuali contrasti.
L’esclusione della presenza regia
nelle elezioni episcopali italiane fu un fatto rilevante in quanto lasciò
spazio agli interventi papali che ne fecero terreno di sperimentazione in cui
maturò il tentativo di estendere il potere papale a tutta la cristianità.
Il lungo scontro fra Papato ed Impero,
pur se ridimensionò i due poteri a vantaggio di alcune realtà politiche
emergenti che in Italia erano le città centrosettentrionali ed il Meridione
normanno, diede forma al significato della separazione dei compiti tra Chiesa e
Stato. Significato che si fece sentire all’atto della nomina del nuovo
imperatore allorché si scontrarono i fautori di una politica intransigente nei
riguardi della Chiesa (i Waiblingen, nome del castello dei duchi di
Svevia, italianizzato in ghibellino, termine che incava il sostenitore della politica
imperiale) con i sostenitori di una intesa con i pontefici (i Welfen,
nome attribuito al duca di Baviera, italianizzato in guelfo, sostenitore
della politica papale). Questi ultimi, alla morte di Enrico V, riuscirono a
fare eleggere re dei Romani ed imperatore, Lotario III della casata
Supplimburgo (1125-1137). Una elezione che, con la colleganza al Papato della
casa di Baviera, conferiva a quest’ultima un potenza ritenuta eccessiva da
buona parte dei feudatari germanici che, alla morte di Lotario III, fecero
confluire il loro consenso alla carica imperiale su Corrado III di
Hohenstaufen (1137-1152). Ed al momento della successione scelsero il
nipote di questi appartenente alla stessa casata, Federico I “Barbarossa”
(1122-1190). Questo, per qualità personali e legami familiari (figlio di
Giuditta di Baviera e cugino del duca di Baviera) era ritenuto idoneo a sanare
il conflitto fra le due casate tedesche rivali. Infatti l’altro pretendente
alla carica, il duca di Sassonia Enrico
il Leone (1129-1165) appartenente ai Welfen, rinunciò in cambio
dell’assunzione di sovranità anche sulla Baviera che gli assicurava la
supremazia in Germania, dove veniva a crearsi una situazione di stabilità che
permise a Federico di rivolgere la sua attenzione sull’Italia. Di fatto, con
l’elezione di Federico, prevalse una politica antiecclesiastica e si avviò lo
scontro con i sostenitori della Chiesa. Egli mostrò fin dal suo esordio
l’intento di voler rafforzare l’autorità sua personale in un Impero che aveva
perso compattezza, impegnandosi in una lotta mirante ad ostacolare il corso
della storia che, accanto alla volontà di autonomia dei feudi imperiali, registrava
l’aumentato prestigio del Papato e l’intraprendenza dei Comuni volta alla loro
emancipazione. Federico aveva scelto di adottare in Italia una politica di
collegamento con gli esponenti maggiori della nobiltà rivolta contro i vassalli
minori. In ciò facilitato dai contrasti che cominciavano a sorgere tra città
vicine, di cui le maggiori cercavano di acquisire una supremazia
imprenditoriale volta ad assicurarsi collegamenti con gli altri mercati per realizzare
un regolare trasferimento di prodotti e manufatti. In tale contesto ogni
potentato, piccolo o grande che fosse, si associava alla Chiesa o all’Impero
secondo l’opportunità del momento in difesa dei propri particolari interessi.
Per perseguire il suo progetto,
Federico indisse una dieta a Costanza (1153) dove, in presenza degli inviati di
papa Eugenio III (1145-1153), rivendicò il suo diritto di intervenire
sulla elezione dei vescovi tedeschi (Concordato di Worms, 1122) ed espresse
l’intenzione di rispettare le prerogative della Chiesa in cambio della
incoronazione ad imperatore (ricevuta nel 1155 da papa Adriano IV, 1154-1159; succeduto ad Anastasio IV, 1153-1154). Alla
dieta di Costanza parteciparono anche gli ambasciatori dei comuni di Pavia,
Lodi e Como che chiesero all’imperatore sostegno contro lo strapotere di Milano
attivo nell’assicurarsi il controllo delle vie di comunicazione alpine e
fluviali (navigazione sul Po). Egli, per rispondere a tale richiesta ed alla
sollecitazione di papa Adriano IV
desideroso di essere liberato da Arnaldo da Brescia [♦] che a Roma, sostenuto da un largo seguito
popolare, aveva cercato di costituire un libero comune sganciato dalla
Chiesa, colse l’occasione per intervenire negli affari italiani mirando al
controllo dei Comuni del Settentrione ed in prospettiva anche del Meridione
normanno.
[♦] Arnaldo da Brescia (1090-1155)
Avviato al sacerdozio,
ebbe un ruolo nella lotta contro il potere temporale di un clero che, ritenuto
simoniaco e concubinario, auspicava ritornasse alla povertà evangelica.
Condannato dal II Concilio ecumenico Lateranense (1139) si recò in Francia
polemizzando con Bernardo di Chiaravalle. Ottenuto il perdono (1145) da papa
Eugenio III si recò a Roma dove, sotto la guida della nobiltà minore si era
costituito un Comune ordinato in
rioni. Arnaldo partecipò alla vita pubblica con una predicazione dai contenuti
ascetici e rivolta contro le mondanità del clero, rafforzando nell’animo dei
romani la convinzione di essere il popolo cui Dio aveva dato autorità per
creare gli imperatori. Il movimento aveva costretto alla fuga papa Adriano IV
che lanciò la scomunica che colpiva i Romani fino a quando non avrebbero
cacciato Arnaldo dalla città. I Romani pregarono Arnaldo di allontanarsi
temporaneamente. Uscito da Roma egli fu imprigionato dal signori della val
d’Orcia, fautori di Federico Barbarossa, che lo consegnarono al prefetto
pontificio Pietro di Vico. Condannato a morte, fu impiccato nel 1155, il
cadavere bruciato e le ceneri sparse per evitare che divenisse oggetto di
venerazione.
Divenuto simbolo
dell’anticlericalismo e ritenuto un riformatore religioso, la sua dottrina
sulla evangelica povertà della Chiesa fu ispiratrice di quel movimento mistico
del XIII sec., i Patarini, accusati di eresia.
La battaglia di Legnano
Nel 1154, all’atto del suo arrivo in
Italia, Federico Barbarossa convocò la dieta di Roncaglia in cui revocò tutto
ciò che in termini di diritti regi (iura regalia: diritto di imporre tasse, stipulare
trattati, ecc.) era stato usurpato dai Comuni fin dal tempo di Enrico
IV. Poiché il Comune di Milano rifiutò di riconoscere le decisioni di Federico
e di concedergli facoltà di transito sui suoi territori, questi passò
all’azione contro le città che avevano manifestato il proprio dissenso,
consegnando Asti e Chieri al suo fedele vassallo, il marchese di Monferrato, e
devastando l’alleata di Milano e Tortona che si arrese dopo un assedio di due
mesi. Si mosse quindi verso Roma per favorire la cattura di Arnaldo da Brescia [♦], quindi, dopo aver stabilito
rapporti con le repubbliche marinare di Genova, Pisa e Venezia, in vista di un
attacco al regno normanno del Meridione, rientrò in Germania per sposare
Beatrice di Borgogna. L’eventualità di una acquisizione del Meridione da parte
dell’Impero che avrebbe stretto in una morsa i territori papali, allarmò papa
Adriano IV che, preferendo uno Stato Pontificio cuscinetto fra due forze
avverse piuttosto che circondato da territori collegati ad un unico potere, si
affrettò a risolvere i contrasti con re normanno di Sicilia, Guglielmo I il
Malo, a cui, in cambio della sovranità feudale sul regno (accordo di Benevento,
1156), lo investì ufficialmente della corona del Regno di Sicilia che
comprendeva anche la parte continentale del Meridione, compresi i territori
autonomi di Napoli e Capua, e gli concesse la legatia apostolica (rappresentante del Papa).
Il legame del pontefice con il
Barbarossa si incrinò palesemente in occasione della Dieta di Besancon del 1157
dove la concezione autoritaria (mantenuta “con le armi e con le leggi”)
che l’imperatore si attribuiva in ogni settore e sopra ogni autorità compresa
quella papale si scontrò con quella sostenuta dal papa che, in osservanza alle
norme contenute nel Dictatus Papae (1075), riteneva il suo potere
spirituale prevalente su quello dell’imperatore anche in materia di concessione
di autorità politiche. In quella Dieta il papa inviò all’imperatore una ambigua
missiva in cui per esprimergli la propria benevolenza utilizzava, non
occasionalmente, il termine beneficium proprio della terminologia
feudale, che voleva significare la superiorità gerarchica del pontefice
rispetto all’imperatore. Ciò che fu motivo di scontro diplomatico tra i
rappresentanti dei due poteri.
Nel 1158, in occasione della seconda
discesa in Italia, il Barbarossa convocò una nuova e più importante dieta a
Roncaglia. In essa vennero dettagliate i diritti (Costitutio de regibus),
non decaduti per il solo fatto che erano venuti meno, che l’imperatore voleva
rivendicare e che comprendevano le prerogative legate all’elezione del nobili,
alla nomina dei consoli, al conio della moneta ed alla riscossione dei diritti
fiscali, oltre all’impegno, da parte dei feudatari, a provvedere al
vettovagliamento delle milizie e dei messi imperiali allorché attraversavano i
loro territori (fodro) ed alla pretesa di insediare nei singoli comuni
un funzionario di nomina imperiale. I diritti rivendicati scontentarono anche i
Comuni filo imperiali ed indussero alla ribellione Crema, che un Federico
desideroso di dimostrare la fermezza nell’attuazione del suo programma, assediò
per sette mesi, quindi preparò un forte esercito per conquistare Milano che aveva
acquisito il comune di Trezzo. Nella primavera del 1161, Federico, ricevuti
rinforzi dalla Germania, pose sotto assedio Milano che resistette per un anno
prima di essere costretta alla resa, distrutta ed i suoi abitanti dispersi,
mentre Brescia e Piacenza furono piegate, a seguito della distruzione delle
loro mura, ad accettare l’insediamento dei funzionari imperiali.
Nel frattempo le disposizioni emerse
da Roncaglia che Federico estendeva anche al settore ecclesiastico
indispettirono papa Adriano IV che si avvicinò politicamente ai Comuni lombardi
e meditava una scomunica contro l’imperatore, intento che non riuscì ad attuare
prima della sua scomparsa. Le disposizioni di Federico ancor più irritarono il
successore e continuatore della linea politica, Alessandro III
(1159-1181). Questi, eletto in contrapposizione al sostenitore dell’imperatore,
il cardinale Ottaviani che assunse il ruolo di antipapa col nome di Vittore
IV (1159-1164; a questi seguirono nella stessa funzione Pasquale III e
Callisto III), aprì una nuova stagione di contrapposizioni. Federico, volendo
assumere un ruolo di arbitro nelle contese ecclesiastiche, cercò una
ricomposizione convocando il Concilio di Pavia (1160) a cui papa Alessandro III
non partecipò. Il concilio confermò l’elezione di Vittore IV che scomunicò papa
Alessandro III ed i suoi sostenitori. Alessandro III reagì scomunicando a sua
volta sia Vittore IV che Federico Barbarossa e stabilendo contatti con tutti
gli avversari di questi: Venezia, i Comuni, i re normanni e l’imperatore di
Bisanzio.
Nel 1163 Federico fece una nuova incursione
in Italia perché già emergeva la rivolta dei Comuni veneti, Verona, Padova e
Vicenza che rifiutarono le offerte di pace dell’imperatore. Questi, non
disponendo di forze sufficienti e venendogli a mancare l’appoggio di Genova e
Pisa, impegnate a disputarsi la Sardegna, rinunciò all’obiettivo della
spedizione che era rivolta prevalentemente contro i Normanni e rientrò in
patria.
I comuni italiani, in fermento (a
Bologna era stato ucciso il rappresentante imperiale) ritennero necessario
pervenire ad un accordo per organizzare una resistenza comune. Essi strinsero
due coalizioni a cui si aggiunsero anche città solitamente legate
all’imperatore (es. Cremona e Pavia):
la lega veronese (Verona, Vicenza e Padova) e la lega cremonese
(Crema, Brescia, Bergamo, Mantova, i profughi milanesi, ecc.) poi confluite
nella lega lombarda (Societas Lombardiae), concordata,
secondo testimonianze non verificabili, il 7 aprile 1167 a Pontida. Ad essa si
unirono Parma, Piacenza e Lodi, quindi giunsero anche gli appoggi di papa Alessandro
III, del regno normanno, dell’imperatore bizantino ed, occasionalmente, di
Pavia e del Marchese di Monferrato da sempre sostenitori imperiali. Nell’aprile
1167 le forze alleate diedero inizio alla ricostruzione di Milano e, nel 1168,
alla fondazione di una nuova città, Alessandria (in onore di Papa Alessandro)
sulla confluenza tra i fiumi Bormida e Tanaro, un nodo strategico per il
controllo dei flussi di transito fra Lombardia e Liguria. Un atto chiaramente
provocatorio sia perché la fondazione di una città era una prerogativa del
sovrano che per il nome scelto.
Nel frattempo Federico si era organizzato
per un nuovo intervento in Italia (1166) e, ottenuta la resa di Ancona
presidiata dai Bizantini, si diresse ad occupare Roma (luglio 1167),
costringendo papa Alessandro III a rifugiarsi a Benevento sotto la protezione
dei Normanni. Quindi dovette rientrare in Germania dove la situazione stava
sfuggendo al suo controllo e da dove tentò un infruttuoso tentativo di
riconciliazione con papa Alessandro III.
Nel 1174, risolti i problemi in
Germania, Federico stabilì di risolvere definitivamente anche quelli italiani.
Predisposto un forte esercito ridiscese in Italia e, dopo aver costretto alla
resa le città di Alba, Acqui, Pavia e Como, cinse per sette mesi d’assedio
Alessandria la quale, dopo essere riuscita a distruggere con repentine sortite
le più efficienti macchine da guerra di Federico, accettò un armistizio
(Montebello, 1175) senza però che si trovasse un compromesso tra le ambizioni
autonomistiche dei Comuni ed le pretese imperiali di assolutismo. Pertanto,
tolto l’assedio ad Alessandria, Federico, malgrado gli scarsi rinforzi ricevuti
dai feudatari tedeschi e dal cugino, il guelfo Enrico il Leone, dovette prepararsi
a lasciare le valli alpine per affrontare le truppe della Lega. Lo scontro,
avvenuto a Legnano
[♦♦],
segnò per l’imperatore una sconfitta amara non tanto dal punto di vista
militare quanto da quello del prestigio personale. Egli pertanto si affrettò a
cercare di rompere il fronte alleato concludendo una pace separata con il
pontefice (Anagni, 1176) di cui ne riconobbe la legittimità, impegnandosi a non
più interferire negli affari della Chiesa e a restituire a Roma i suoi
territori. L’accordo irritò i Comuni che non gradirono il cambiamento di
atteggiamento del papa di cui rifiutarono la proposta di mediazione ed in
definitiva segnò una rivalsa per il Barbarossa che riuscì a rompere la
solidarietà fra gli alleati. Anche Cremona stipulò una pace separata con
l’imperatore e, nel 1177, a Venezia Federico arrivò a concordare una tregua non
solo con il re di Sicilia ma anche con i Comuni, tra cui la solidarietà si
andava sfaldando a causa di contrasti interni. Intanto il III Concilio
ecumenico Lateranense (1179) aveva fissato le norme di elezione del pontefice
(due terzi degli aventi diritto) ed eliminato completamente il diritto di
beneplacito imperiale.
La pace definitiva si firmò nel 1183 a
Costanza in cui l’imperatore riconosceva la Lega, accordando alle città
componenti, sotto forma di privilegio imperiale, concessioni sull’autonomia
amministrativa, politica e giudiziaria a fronte del versamento di una tantum, oltre ad un tributo annuo e
l’assicurazione del fodro (v.
sopra). Da allora nei Comuni medievali al conflitto con l’imperatore si
sostituì quello con i comuni circostanti,
Il rafforzamento di prestigio
derivante all’imperatore da questo accordo gli consentì di rientrare in Germania per sistemare le cose
con i suoi avversari, tra cui Enrico il Leone colpevole di non avergli inviato
adeguati rinforzi nel 1174. Egli fu privato dei suoi possessi feudali: la
Sassonia fu concessa all’arcivescovo di Colonia e la Baviera alla casata dei
Wittelsbach.
Nel periodo successivo alla pace di
Costanza si verificò un nuovo slancio nella vita dei Comuni che registrarono un
aumento della popolazione urbana ed alcuni di essi (Milano, Firenze, Genova e
Venezia) assunsero il dominio di intere regioni.
Quanto all’obiettivo di estendere
l’influenza imperiale anche sul Regno normanno del Meridione, il Barbarossa lo
centrò con l’abile mossa diplomatica di combinare il matrimonio del figlio,
Enrico VI, con la principessa normanna Costanza d’Altavilla.
Con altri sovrani occidentali Federico
Barbarossa aderì quindi all’appello del pontefice Clemente III
(1187-1191) di riconquistare Gerusalemme occupata dal Saladino, partecipando
alla III Crociata, nel corso della quale morì (1190) attraversando il
fiume Salef.
Clemente III finì col riconoscere il
Comune di Roma.
[♦♦] La battaglia di Legnano (29 maggio 1176)
Federico Barbarossa
con i rinforzi giunti dalla Germania procedeva, dalle valli alpine, verso Pavia
per riunirsi con il resto del suo esercito. Le truppe della Lega lombarda che,
provenienti da Legnano ne seguivano le mosse, tentarono, con un attacco all’avanguardia
imperiale nei pressi di Legnano (presumibilmente a San Martino di Legnano o a
San Giorgio a Legnano o, ancor più verosimilmente tra Borsano e Busto Arsizio) di
bloccare il congiungimento. Allorché sopraggiunse Federico Barbarossa con il
grosso del suo esercito costrinse i lombardi ad indietreggiare ed a
raggrupparsi attorno al carroccio (un grande carro a quattro ruote
recante le insegne cittadine e da cui i comandanti impartivano ordini). La
fanteria lombarda, pur in inferiorità numerica ma consapevole di combattere per
la propria libertà, resistette disperatamente all’assalto dei cavalieri
tedeschi schierandosi a schiltron (lancieri disposti a cerchio con le
lance rivolte all’esterno). Una resistenza che diede il tempo alla cavalleria
lombarda, guidata secondo la tradizione popolare da Alberto da Giussano,
di sopraggiungere ed operare l’assalto finale contro l’esercito imperiale che
venne disunito e messo in fuga.
Il Barbarossa, nel
tentativo di incoraggiare le truppe si buttò nella mischia ma venne
disarcionato e scomparve alla vista dei suoi che, rimasti senza riferimento
subirono numerose perdite. L’imperatore riuscì a sottrarsi alla cattura ed a
riparare a Pavia.
La disfatta presso Parma (1248)
La Chiesa nel corso del XIII sec. fu
impegnata sia sul fronte della riorganizzazione che su quello della ortodossia
e del conseguimento della supremazia politica. Sul piano della riorganizzazione
interna, essa fu artefice di una azione volta a controllare, dal punto di vista
finanziario, le stesse organizzazioni sorte nel proprio grembo: Ordini
mendicanti ed Università. Nell’ambito della difesa della sua ortodossia e nella
convinzione che i potenti del mondo cattolico dovessero sottoporsi al
riconoscimento ed alla supremazia del rappresentante di Dio in Terra, il Pontefice,
fu sempre più coinvolto nelle vicende della politica imperiale e nei contrasti
tra Comuni. Una concezione che, assorbita inizialmente dai territori che
avrebbero quindi costituito lo Stato della Chiesa (Roma, Lazio, Umbria, Marche,
Romagna), aiutò dapprima quei Comuni a liberarsi dalla tutela imperiale per essere
poi, possibilmente, sostituita da quella pontificia. Operazione che incontrò un
antagonista determinato e portatore di una altrettanto mistica concezione del
potere imperiale, Federico II di Svevia
(1194-1250), una delle figure medievali più suggestive, erede e sostenitore
della tradizione imperiale germanica.
Il successore di Federico I “Barbarossa”,
il figlio Enrico VI (1165-1197), divenuto imperatore nel 1191 ed, a
seguito del matrimonio con la principessa normanna Costanza d’Altavilla, re di
Sicilia nel 1194, era scomparso nel 1197, probabilmente per malaria. Egli era
sopravvissuto al padre pochi anni, spesi interamente per imporre il suo potere
in Germania e Sicilia. Federico II
venne affidato dalla madre Costanza, prima della sua morte (1198), alla tutela di
Innocenzo III (1198-1216), a cui, nella qualità di imperatrice, aveva
riconosciuto, quale contropartita, la signoria feudale sul Regno di Sicilia e
la limitazione dei diritti del sovrano nelle nomine ecclesiastiche. Il piccolo
Federico crebbe arricchendosi intellettualmente a contatto con culture diverse
(latina, araba, greca ed ebraica) e, grazie alla sua perspicacia, riuscì a
districarsi, negli intrighi di corte, fra le contrapposte fazioni, tedesca e
normanna che vicendevolmente diffidavano di lui per la sua discendenza normanna
e tedesca rispettivamente.
Intanto in Germania si era scatenata
la lotta per la successione tra il ghibellino fratello di Enrico IV, Filippo di
Svevia, che voleva proteggere le prerogative del nipote ed Ottone IV di
Brunswick, guelfo e figlio di Enrico il Leone. L’uccisione (1208) di Filippo di
Svevia da parte del duca di Baviera risolse la controversia a favore di Ottone
IV che ottenne la corona imperiale (1209-1218) e, pur avendo garantito
Innocenzo III circa il riconoscimento al Papato dei diritti feudali sul
Meridione d’Italia, si diresse per proprio conto alla conquista di quel
territorio incappando nella scomunica del Papa. Ottone interruppe la facile
conquista di quel territorio poco protetto per ritornare in Germania a
controllare una rivolta dei fautori della casa di Svevia sostenuta dal re di
Francia. Fu questa una occasione fortunata per Federico II che, ritenuto ormai
soccombente, sfruttò l’inattesa opportunità ed ebbe l’audacia di risalire la
penisola con truppe e fondi che recuperava strada facendo e sorretto dall’astuzia
di evitare scontri con gli oppositori di fede guelfa e soprattutto con Ottone
che, nel frattempo, dovette patire una bruciante sconfitta a Bouvines (1214) ad
opera del re di Francia, Filippo II Augusto. Federico II riuscì così col sostegno
dei feudatari tedeschi a farsi incoronare re di Germania (1212) ed imperatore
(1215), col favore del clero tedesco. Federico II, al fine di conquistarne i
favori, aveva promesso al Pontefice quel che a questi maggiormente premeva,
cioè di tenere separate le corone di Sicilia e di Germania e si era anche
impegnato a partecipare alla IV crociata. Ma ad egli maggiormente premeva
riprendere il controllo della Sicilia e della Germania che, rispettivamente
dopo la scomparsa del normanno Guglielmo II e dell’imperatore Federico “Barbarossa”,
avevano attraversato un lungo periodo di disordini. Nel 1220, dopo aver ripreso
il controllo dei territori tedeschi propiziato da un accordo di concessione di
maggiore autonomia ai principi, Federico II rivolse la sua attenzione
all’Italia e mosso dalla sua concezione assolutistica, quasi mistica, del
potere imperiale, ritornò per restaurare la sua autorità sia sui comuni
lombardi animati da spirito indipendentista sia sulla Sicilia scossa da
frequenti ribellioni.
In Sicilia dove collocò il centro
dell’impero riuscì a sedare i contrasti e riconquistare la sua autorità imponendo
a baroni la restituzione dei beni e dei privilegi illegalmente ottenuti negli
ultimi trenta anni e riuscendo a creare una monarchia modello in cui erano
stati ridotti i privilegi di principi ed ecclesiastici e dove il rapporto fra
corona e feudatari fu assicurato dalla istituzione di un efficiente apparato
burocratico.
In Lombardia convocò una Dieta a
Cremona (1126). Evento che destò la preoccupazione dei comuni di Milano,
Bologna, Brescia e Mantova che, memori di quanto avevano subito dal nonno
Federico “Barbarossa”, impedirono l’accesso ai delegati senza che Federico
fosse in grado di intervenire, quindi rifondarono (1226) la II Lega lombarda,
a cui in fasi successive si unirono Asti, Alessandria, Faenza, Lodi, Novara,
Verona ed altre. Rimasero legate all’imperatore Pavia e Cremona. Altre città si
schierarono non tanto sulla base del sostegno o meno all’imperatore quanto
sulla base della scelta effettuata dalle città rivali.
Tutto l’impegno nelle cose italiane
avveniva trascurando le sollecitazioni papali ad assolvere la promessa di
partire per la Palestina alla riconquista di Gerusalemme. E se con papa Onorio
III (1216-1227) che lo aveva insediato nel 1220 riuscì a rimandare
l’impegno assunto, non altrettanto potette fare con l’atteggiamento fermo e
risoluto di papa Gregorio IX (1227-1241) che intendeva ristabilire
l’assoluta superiorità del papato nei confronti dell’imperatore. Gregorio IX,
irritato dalla constatazione che, nel governo della Sicilia, Federico non
teneva in alcun conto la sovranità della Chiesa, utilizzò il ritardo nell’avvio
della VI Crociata (1227) anche se giustificato dal sorgere di una epidemia,
quale pretesto per scomunicarlo. Alla qualcosa Federico rispose revocando le
concessioni fatte alla Chiesa romana. La VI crociata partì l’anno successivo e
Gregorio IX, deluso dal fatto che Federico piuttosto che imporre con le armi la
conquista di Gerusalemme si affidò ad una insoddisfacente trattativa con il
sultano d’Egitto, utilizzò l’assenza di Federico per promuovere contro di lui
sia in Germania che in Sicilia ribellioni, che Federico, al suo rientro (1229),
riuscì a controllare, inducendo clero e feudatari tedeschi a premere per una
riconciliazione fra i due poteri, imperiale ed ecclesiastico. Il primo,
bisognoso della neutralità papale per ristabilire la sua autorità, ed il
secondo, sentendosi isolato, ritennero opportuna la sottoscrizione del trattato
di San Germano (1230) secondo cui, a fronte del ritiro della scomunica,
l’imperatore si impegnava a restituire alla Chiesa i territori occupati e ad
esentare il clero dalla giurisdizione secolare.
All’atto del suo rientro in Italia
dalla Germania, nel 1220, Federico aveva fatto nominare il figlio primogenito Enrico
VII, di nove anni, re dei Romani e lo aveva affidato ad un consiglio di
reggenza. Enrico, raggiunta la maggiore età ed insofferente dell’autorità
paterna in ciò ispirato da oppositori del padre, intese intraprendere una
politica personale in conflitto con gli interessi dell’impero. Nel 1232
Federico convocò ad Aquileia il figlio che si impegnò ad adeguarsi alle
disposizioni imperiali ma, rientrato in Germania, mantenne il suo precedente
comportamento alleandosi con in Comuni avversari del padre. La qualcosa
indispettì perfino papa Gregorio IX che, benché alleato dei Comuni, intravide i
suoi interessi collimare con quelli dell’Impero. Lanciò pertanto un anatema
contro Enrico VII motivato da presunti atteggiamenti, nei riguardi degli eretici,
difformi dalle leggi. Federico rientrò in Germania (1235), depose il figlio da
ogni titolo e lo fece imprigionare, condizione che indusse Enrico al suicidio
(1242). Federico sentiva localizzato in Italia il cuore dell’impero mentre, per
quanto riguardava la Germania, gli bastava che essa restasse vincolata alla sua
autorità. Considerazione che, quale segno di deferenza verso i principi
tedeschi, lo indusse alla tolleranza nei riguardi di coloro che tra essi
avevano assecondato le iniziative del figlio.
Non altrettanto fu nei riguardi dei
Comuni italiani che avevano assunto lo stesso atteggiamento e che, dopo i
trattati di pace di Venezia (1177) e Costanza (1183) (v. paragrafo prec.) erano numericamente accresciuti ed
economicamente sviluppati ma furono fortemente allarmati dopo il bando ad essi
rivolto nella Dieta di Cremona (1231) e dopo la promulgazione delle Costituzioni
di Melfi (1231). Queste, ispirate dall’assolutismo imperiale, miravano alla
costituzione di uno Stato accentratore e dominatore dell’intero apparato
sociale imponendo nel regno meridionale un indirizzo che, oltre a
differenziarsi da quello che stavano percorrendo le regioni settentrionali, si
sottraeva di fatto alla tutela pontificia. Ritornato dalla Germania (1236) con
forze consistenti, riuscì a conquistare la sede strategica di Vicenza
affiancato dalle milizie del signore di Verona, Ezzelino da Romano, che si
abbandonò ad eccidi ed a devastazioni di beni ecclesiastici. Quindi espugnò
Mantova ed avrebbe voluto attaccare Brescia ma l’inverno incombente lo indusse
a concludere le operazioni cercando una strategia che affrettasse lo scontro
risolutivo. A tal fine dopo aver dato l’impressione di smontare gli
accampamenti posti attorno a Brescia ed aver congedato i pochi reparti venuti
dalle città ghibelline alleate, riuscì ad anticipare e cogliere di sorpresa,
nei pressi di Cortenuova (1237), la cavalleria della Lega (quella costituitasi nel 1226) che, certa della sospensione
delle attività belliche, rientrava verso Milano. I Lombardi si difesero
raccogliendosi intorno al carroccio e, salvato lo stentando, riuscirono
in gran parte a sottrarsi mentre veniva catturato il podestà di Milano, Pietro
Tiepolo. Federico II celebrò la vittoria a Cremona, facendo sfilare il Tiepolo
in catene ed il carroccio disadorno, quale monito per i nemici
dell’impero. Federico (1238) rinunciò all’assedio di Brescia ed alle città
vinte impose condizioni durissime che non mancarono di suscitare un sentimento
di rivalsa.
Gregorio IX, allarmato dagli eventi
favorevoli che sorridevano all’imperatore e preoccupato dalla notizia che
Federico aveva nominato il figlio Enzo re di Sardegna regione considerata dal
Papato (in base alla Donazione di Costantino) un proprio feudo, si
schierò con la Lega lombarda, rafforzandola
con un trattato di alleanza con Genova e Venezia (1239) e lanciò una scomunica
contro Federico. Lo scontro si inasprì e quando Gregorio (1241) convocò un
sinodo a Roma per ufficializzare l’anatema contro Federico, questi fece
attaccare dalla flotta siciliana, sostenuta dall’alleata Pisa, le navi genovesi
che trasportavano a Roma i partecipanti al sinodo che furono imprigionati. La
scelta non fu diplomaticamente felice in quanto, oltre a compattare il clero
attorno a Gregorio, alienò il favore delle corti europee vicine a Federico. La
scomparsa di Gregorio IX introdusse un periodo di incertezze nelle rispettive
strategie e Federico cercò di recuperare consenso liberando i cardinali
imprigionati, tra cui il futuro papa Innocenzo IV (1243-1254) la cui politica
si collegò a quella di Gregorio ed a cui Federico inviò una delegazione in
segno di cordialità.
Innocenzo, sorretto dalla componente
guelfa, spese il suo mandato nel perseguire, non disdegnando il ricorso a mezzi
sleali, il dominio universale della Chiesa. Progetto che trovava in Federico
l’avversario più tenace e l’effettivo ostacolo alla restaurazione della
teocrazia papale. Il Papa, poco incline ad una ricomposizione, ignorò l’invito
di Federico per un incontro e, per sottrarsi ad ogni condizionamento ed
assicurarsi libertà di azione, si recò, passando per Genova, a Lione (1244) sua
città di origine da dove annunciò un Concilio (1245). Qui giunse una
delegazione inviata da Federico con l’offerta di restituire, con risarcimento,
i beni ecclesiastici rivendicati dalla Chiesa. L’offerta colse di sorpresa il
Papa che, seguendo il suo puntiglioso obiettivo e malgrado le perplessità di
Francia, Inghilterra e del clero tedesco e siciliano, destituì Federico dalla
carica di imperatore sciogliendo i sudditi dal giuramento di fedeltà.
Federico, constatata la impossibilità
di un accordo, riprese le ostilità che rivolse contro l’alleata del Papa,
Parma, la quale venne fatta oggetto di un lungo assedio. Gli assediati
parmensi, presi dalla disperazione fecero una incursione che sorprese gli
assedianti facendo massacro e numerosi
prigionieri (1248). Il tesoro dell’imperatore cadde in mano agli incursori e lo
stesso Federico riuscì a mettersi in salvo rifugiandosi a Cremona. Federico, su
cui si addensavano le critiche per le enormi risorse impiegate per le guerre e
per la intollerabile pressione fiscale, tentò comunque la rivalsa l’anno
successivo inviando il figlio Enzo in soccorso dei ghibellini modenesi e
cremonesi in contrapposizione con la guelfa Bologna. A Fossalta del Tanaro
(1249) i bolognesi con un deciso attacco misero in fuga gli avversari
imprigionando Enzo e respingendo tutti i minacciosi proclami di Federico volti
ad ottenere la scarcerazione del figlio che rimase imprigionato (prigione
dorata, date le risorse cui poteva attingere) fino alla morte (1272). Ma non
per questo Federico rinunciò alla lotta affidata ai figli Federico d’Antiochia,
Manfredi ed al genero Ezzelino (aveva sposato Selvaggia, figlia di Federico)
che riconquistarono diverse città ribelli.
La controversia tra Papato e la
dinastia degli Hohenstaufen di Svevia non si placò con la morte di Federico
(1250). Fallito il tentativo di imporre l’autorità imperiale al Papato, si ebbe
un periodo di confuso interregno sia nel Meridione d’Italia che in Germania.
Nel Meridione d’Italia si scatenarono
ribellioni fomentate da emissari pontifici e sostenute da rivendicazioni che
rinfocolarono le controversie fra monarchia, classe nobiliare e poteri
ecclesiastici. In Germania numerosi centri si associarono in leghe e le
signorie ecclesiastiche riuscirono a consolidare ampi privilegi mentre, a causa
della scomunica promulgata dal Concilio di Lione (1245; v. sopra) e sorretti dal consenso papale, emersero altri
pretendenti alla corona imperiale destinata al figlio di Federico, Corrado
IV (1228-1254), colpito dalla stessa scomunica lanciata contro il padre nel
1245. Sconfitto dal pretendente alla corona imperiale Guglielmo I d’Olanda,
Corrado IV rientrò in Italia a contribuire a sedare, con il sostegno del fratellastro
Manfredi, le rivolte e mantenere il Regno di Sicilia, motivo per cui invano manifestò
la disponibilità a sottomettersi al Papa. Corrado morì improvvisamente, dopo
aver affidato l’erede Corrado V (Corradino di Svevia; 1252-1268) alla
tutela di papa Innocenzo IV, nel tentativo di placarne l’animosità contro gli
Hohenstaufen di Svevia. I nobili Siciliani, anziché accettare l’investitura del
designato Corradino, decisero di assegnare il regno di Sicilia a Manfredi (1232-1268),
ritenuto più affidabile ad affrontare la situazione contingente. Il papa non
tollerando il protrarsi dell’insediamento della casa di Svevia in Sicilia, tentò
l’occupazione militare delle regioni meridionali e Manfredi accettò un
accomodamento che prevedeva l’accoglimento della esigua occupazione
territoriale fino a quel momento completata, fatti salvi i diritti del nipote
Corradino e dei suoi eredi. In virtù di quest’accordo Manfredi venne assolto
dalla scomunica (ereditata dal padre), investito del principato di Taranto e
nominato vicario della Chiesa nei territori del Regno. Manfredi non potette
però tollerare una nuova pretestuosa occupazione di territori campani da parte
del Papa per cui si decise a reagire e mosse contro le milizie papali che
sconfisse a Foggia, evento che risultò fatale per la malferma salute di papa Innocenzo
IV che morì nel dicembre 1254. Gli successe Alessandro IV (1254-1261)
che, continuatore dell’azione politica del predecessore, confermò la scomunica
a Manfredi. Questi, tuttavia, riuscì ad avere il sopravvento sull’esercito pontificio,
a sedare le rivolte, a consolidare il suo Regno ed a divenire capo della
fazione ghibellina in Italia, dopo aver contribuito alla sconfitta della
fazione guelfa in Toscana.
Lo stesso successore di Alessandro IV,
papa Urbano IV (1261-1264), allarmato per l’affermarsi del partito
ghibellino, seguì la politica dei predecessori mostrandosi tenace avversario di
Manfredi che dichiarò decaduto dal trono di Sicilia, cercando perfino di
opporsi al matrimonio della figlia maggiore, Costanza, con Pietro III
d’Aragona. In quegli anni Manfredi riuscì ad assicurare stabilità e benessere
alle regioni del Meridione di cui ne avviò la prosperità ed il progresso
impostando diverse e significative attività culturali, economiche ed
imprenditoriali. Un territorio divenuto prospero ed organizzato che godeva di
una posizione strategica al centro del Mediterraneo non poteva non far gola
alle più ambiziose dinastie europee. Urbano IV, dopo che il predecessore
Innocenzo IV (1252) aveva invano proposto al cognato di Federico II, Riccardo
di Cornovaglia, la corona del regno di Sicilia, non dovette faticare a trovare
un pretendente ambizioso e valoroso in Carlo d’Angiò, fratello del re di
Francia Luigi IX e capace di insediarsi nel Regno di Sicilia e di Napoli accettando
le clausole di vassallaggio verso la Chiesa, del rispetto dei diritti del
Papato e dell’abrogazione delle leggi contrarie al mantenimento dei privilegi
ecclesiastici. Il papa morì prima della conclusione delle trattative mentre era
in fuga dal Lazio per sottrarsi a Manfredi che, a conoscenza delle trame papali,
si avviava ad assediare la corte pontificia. Gli successe il francese Clemente
IV (1265-1268) che, riprendendo le trattative con Carlo d’Angiò, rispetto a
quanto concordato con il predecessore, aggiunse il divieto, per se e per i suoi
eredi, di assumere la carica di imperatore, di re di Germania ed il governo delle
signorie toscane e lombarde. Era ciò che più premeva al Papato interessato a
vedere i suoi territori cuscinetto fra forze avverse piuttosto che circondati
da territori appartenenti ad uno stesso sovrano.
Carlo d’Angiò, ricevuta l’investitura
papale (1265; l’incoronazione avvenne nel gennaio 1266), giunse in Italia con
un forte esercito per affrontare Manfredi in uno scontro che avvenne a Ceprano.
Manfredi, benché avesse preparato con puntiglio la disposizione delle sue
milizie per la battaglia, dovette subire la diserzione (verosimilmente
concordata con il Papa) di parte delle sue truppe affidate al comando del
cognato, conte di Caserta, e di altri baroni meridionali che aprirono un varco
sulle ali consentendo il sopravvento delle truppe francesi. Manfredi fu
costretto a ritirarsi e, nella battaglia decisiva di Benevento, costatando
l’abbandono anche di parte delle truppe di riserva, forse intempestivamente
perché le sorti della battaglia non erano ancora decisamente delineate, si
buttò nella mischia dove trovò la morte. Il corpo venne seppellito sul campo di
battaglia sotto un mucchio di pietre. Essendo Manfredi scomunicato, Il
pontefice diede disposizione di riesumare i resti e di deporli fuori dai
confini dello Stato della Chiesa.
Carlo d’Angiò concluse la conquista
del Regno senza trovare resistenze. Ma dovette scontrarsi ancora con Corradino
di Svevia, ultimo erede degli Hohenstaufen.
Questi appena quindicenne, spinto dall’orgoglio di voler recuperare il potere
dei suoi avi, dopo aver ricevuto adeguate milizie dai principi tedeschi, scese
in Italia (1267) dove trovò altre milizie in appoggio. Carlo interruppe le
operazioni di consolidamento del suo potere per intercettare Corradino. Lo
scontro avvenne a Tagliacozzo (agosto 1268) e dopo un iniziale successo le
composite milizie di Corradino, anziché insistere, si dispersero per darsi al
saccheggio, consentendo alla retroguardia angioina di intervenire, coglierle di
sorpresa e massacrarle. Corradino si sottrasse fuggendo. Catturato fu
consegnato a Carlo che lo fece decapitare a Napoli, destando pietà ed
impressione.
Così si estinse la dinastia degli Hohenstaufen e, con essa, si realizzava la
definitiva sconfitta del partito ghibellino in Italia.
Dopo il tramonto della dinastia
Hohenstaufen, la contrapposizione impero-papato non si risolse ma, pur
verificandosi saltuarie asprezze, non fu frontale come lo era stata con Enrico IV
e gli imperatori svevi. L’Impero attraversò un ventennio di instabilità, noto
come “interregno” e caratterizzato dall’accentuazione
di autonomia dei principi italiani e dalla contrapposizione fra diversi
pretendenti. Questi mai ricevettero l’investitura che i papi si riservavano (approbatione)
con l’obiettivo di rafforzare l’accentramento del governo ecclesiastico. Finché
papa Gregorio X (1271-1276), dopo la morte dell’imperatore Riccardo di
Cornovaglia (1257-1272), non volle riconoscere la nomina di Alfonso di
Castiglia, fornendo l’opportunità ai principi elettori di eleggere Rodofo I
d’Asburgo (1275-1291) re dei Romani. Elezione che venne ratificata dal Papa,
a fronte della di restituzione alla Chiesa dei beni sottratti nel periodo
Hohenstaufen. Rodolfo sottrasse alla Boemia l’Austria su cui quindi si sviluppò
la potenza della sua casata.
Gli imperatori, col progetto di
restaurare il potere imperiale, continuarono ad intervenire nei fatti italiani
facendosi coinvolgere nelle lette tra guelfi e ghibellini. Così Enrico VII
di Lussemburgo (1308-1313), venuto in Italia con l’intento di ristabilire
pace ed ordine fra le fazioni avverse, finì con l’inserirsi nel corso degli
avvenimenti e consolidare i grandi regimi ghibellini, trovandosi in
contrapposizione con Clemente V (1305-1314) e con il re di Napoli,
Roberto d’Angiò, che i guelfi toscani avevano scelto come loro guida. Il
successore di Clemente V, Giovanni XXII (1313-1334) cercò di imporre a
Milano la signoria di Roberto d’Angiò ma provocò la ribellione dei ghibellini
lombardi e diede al successore di Enrico VII, Ludovico IV di Baviera
(1313-1347), l’opportunità di tentare la restaurazione imperiale. Ludovico che
non aveva ottenuto il riconoscimento papale alla sua nomina, ignorò la pretesa
della curia di esaminare il suo diritto alla corona imperiale e l’interdizione
ricevuta da papa Giovanni diede origine ad una contrapposizione che impegnò
Ludovico per tutto il suo mandato. Ludovico ingatti marciò verso Roma e, per
negare il diritto del papa all’approvazione della nomina imperiale e rompere
con la tradizione medievale che voleva fosse il papa ad incoronare gli imperatori,
depose papa Giovanni XXII e fece nominare un antipapa Nicolò V. Nel 1346 con
l’appoggio di papa Benedetto XII (1334-1342) e del re di Francia venne
eletto un anti-imperatore, Carlo IV di Lussemburgo (1347-1378) che evitò
un problematico scontro con Ludovico IV per la sopraggiunta morte di questo.
Carlo venne due volte in Italia senza lasciare segni di rilevanti interventi se
non mercanteggiare la riscossione di ingenti versamenti con i Comuni che
ricambiò con privilegi. L’iniziativa più significativa del suo governo fu
l’emanazione della Bolla d’oro (1356) che regolava la procedura per
l’elezione del re di Germania, riconoscendo a soli sette principi tedeschi (gli
arcivescovi di Magonza, Colonia e Treviri, il re di Boemia, i duchi di
Brandeburgo e Sassonia, il conte del Palatinato) la podestà di partecipare
all’elezione senza che vi fosse la necessità dell’approvazione papale. Con
questo, il papa non ebbe più voce, se
non per l’incoronazione (ultima quella di Carlo V, 1530).
Benché, secondo la Bolla, rimanesse ancora elettivo il
titolo imperiale, questo divenne di fatto monopolio ereditario degli Asburgo
d’Austria che, a parte il breve periodo 1742-1745, lo mantennero fino alla fine
dell’impero (Francesco II d’Asburgo, nel 1806, proclamò la fine del
Sacro Romano Impero, su imposizione di Napoleone a cui dovette dare i sposa a
figlia Maria Luisa).
La Riforma protestante e la
Controriforma avrebbero spezzato definitivamente l’unità religiosa dell’impero.
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