Dal Feudalesimo ai Comuni

Conflitto tra Papato ed Impero

 

di  Franco Savelli  e Tonino Pau

 

 

La fine dell’impero carolingio: La successione nel Regno d’Italia - Origine del feudalesimo - “Ordinamento feudale” - Il tempo degli imperatori germanici e la germanizzazione dell’Impero; “Privilegium Othonis” - Formazioni comunali.

Conflitto fra Chiesa e Stato: Lotta per le investiture; Politica di Federico I Barbarossa per l’affermazione dell’Impero; “Arnaldo da Brescia”; Conflitto del Barbarossa con i Comuni; “La battaglia di Legnano”; Conflitto di Federico II con il Papato ed i Comuni; Epilogo.

 

 

La fine dell’Impero carolingio

 

L’europa dopo il trattato di Verdun (843)

 

Il sorgere e lo sviluppo delle autonomie locali fu favorito dall’insuccesso dei progetti imperiali seguiti al disfacimento dell’Impero carolingio, fondato sull'indiscussa autorità di un uomo e strutturalmente inadeguato ad amministrare un dominio di tale ampiezza.

 

 Dopo la morte di Carlo Magno (814), l’unità dell’Impero carolingio e la sua organizzazione amministrativa, basata sulla divisione in marche e contee, fu compromessa da tre tendenze:

a) Il recupero di autonomia della Chiesa su cui Carlo Magno aveva stabilito un diretto controllo. Questa si era realizzata sulla spinta di religiosi, come Benedetto d’Aniane, interpreti di un movimento di pensiero che, pur volendo mantenere i valori sacri e cristiani del potere imperiale, distoglieva i Monasteri dai sentieri estranei alla vera vocazione.  

b) La crescita del potere delle aristocrazie militari che acquisirono il controllo di ampie aree agricole.

c) La formazione di regni minori nati dal conflitto di assegnazione fra i figli di Ludovico I il Pio (778-840). Questi, bigotto, bonario e suggestionabile, unico figlio sopravvissuto ed erede di Carlo Magno, aveva riunificato i territori dell’impero acquisendo quelli che inizialmente erano appartenuti ai fratelli Carlo il giovane (772-811; re dei Franchi) e Pipino (773-810; destinato a re d’Italia).

Ludovico con una Ordinatio Imperi (817) divise l’Impero fra i figli nati da Ermengarda (figlia del conte Ingram), associando all’impero il primogenito Lotario cui assegnò la parte più cospicua dei territori (tra cui il Regno d’Italia) mentre destinò al figlio Pipino (797-838) le regioni sudoccidentali comprendenti l’Acquitania e la marca di Tolosa ed all’altro figlio Ludovico II “il Germanico” le regioni orientali prospicienti la Baviera. Divisione che suscitò la ribellione di Bernardo, figlio del defunto secondogenito di Carlo Magno, Pipino, destinatario del Regno d’Italia ma morto prima di ereditarlo. La ribellione di Bernardo finì con sconfitta e la morte del giovane (818) che lasciò disponibile per Lotario il Regno d'Italia che gli sarebbe toccato in eredità dal padre.  

 

In Occasione della dieta di Worms (829), Ludovico il Pio, su pressione della seconda moglie Giuditta di Baviera, stabilì di includere tra i suoi eredi il figlio avuto da questa Carlo II “il Calvo” (823-877) che ottenne l'Alsazia, la Rezia e parte della Borgogna, sottratti a Lotario.

Nell'839, a seguito della morte (838) di Pipino (figlio di Ludovico), si tenne una nuova dieta a Worms, dove, ignorando il figlio di questi (Pipino il Giovane), furono confermate a Ludovico il Germanico le regioni orientali, mentre la restante parte dell'impero fu divisa, destinando la parte più orientale a Lotario, cui era destinato il titolo imperiale (843-855), ed a Carlo il Calvo quella occidentale in cui era compresa anche l'Aquitania. Assegnazione quest’ultima non accettata dai nobili locali che la destinarono invece a Pipino il Giovane.

 

Gli eventi verificatesi alla morte di Ludovico il Pio (840) sono significativi in quanto delinearono distinte aree geografiche che determinarono i successivi assetti di potere. Ludovico il Germanico, insoddisfatto della parte riconosciutagli, si unì a Carlo il Calvo per contrastare Lotario che si era proclamato erede dell’Impero. Con il trattato di Verdun (843) si arrivò ad una ristrutturazione del Regno che venne diviso in tre Stati:

a)    la parte occidentale francese fu confermata a Carlo il Calvo;

b)    quella orientale germanica ed austriaca a Ludovico il Germanico.

c)    la fascia centrale dell’impero che, tra l’Olanda ed il settentrione d’Italia, comprendeva Borgogna, Lorena, Renania e Provenza fu assegnata a Lotario, cui veniva riconosciuto il titolo imperiale (Lotario I; 843-855). Il Regno d’Italia (costituito dal settentrione d’Italia) da allora rimase collegato al titolo imperiale.

 

Alla morte di Lotario I (855), la regione politico territoriale cuscinetto fra Francia e Germania di cui era titolare si frantumò: il titolo imperiale ed il Regno d’Italia andarono a Ludovico il Germanico (Ludovico II; 855-875), a Carlo il Calvo toccò il regno di Provenza e parte della Borgogna ed a Lotario II (865-869; figlio di Lotario I) andarono le regioni comprese tra il Reno e la Savoia (Lotaringia) che, alla morte di questi, vennero divise tra i primi due. Alla morte di Ludovico II, Carlo il Calvo, assunse la corona imperiale (875-877) e la corona di Regno d’Italia, mettendo fine alla conflittualità interna.

 

Alla morte di Carlo il Calvo l’impero venne diviso tra i figli Ludovico il Balbo (balbuziente) e Carlomanno prima che, nell’879, l’impero carolingio, costituito dalla parte occidentale della Francia, da quella orientale e dal Regno d’Italia, venisse riunificato nelle mani del figlio di Ludovico II il Germanico, Carlo III “il Grosso” (839-887) che, inetto ed impedito, venne rimosso dalla Dieta di Francoforte (887) per non aver saputo fronteggiare l’invasione di Vichinghi che erano giunti ad assediare Parigi.

In questo passaggio in cui si realizzò la disgregazione dell’impero di Carlo Magno tutte le diverse fazioni cercarono di assumere il controllo dei territori in cui erano insediate e così Oddone conte di Parigi (860-898) divenne re delle regioni occidentali (Franchi occidentali) che occupavano pressappoco l’attuale Francia, mentre il figlio naturale di Carlomanno, Arnolfo di Carinzia (850-899) venne nominato re delle regioni orientali che, comprendenti Sassonia, Franconia, Svevia, Baviera e successivamente anche la Lotaringia, individuarono la Germania (Franchi orientali).

Ad Arnolfo successe il giovane figlio Ludovico IV il Fanciullo (893-911), quindi Corrado I di Franconia (911-918), alla cui morte fu scelto il principe sassone Enrico I l’Uccellatore (919-936) coll’intento delle regioni orientali (Regno tedesco) di liberarsi definitivamente dalla sua origine francese e costituirsi in monarchia autonoma, scegliendo il principio di eredità dinastica della corona.

Ad Enrico successe il figlio Ottone I il Grande che avviò il periodo della dinastia sassone degli Ottoni (936-1002).

 

La successione nel Regno d’Italia

Al momento della deposizione di Carlo il Grosso l’Italia era frantumata in tante unità di cui la più consistente era il Regno d’Italia costituto da Liguria, Lombardia, Veneto, Emilia e Toscana e la cui titolarietà spettava di diritto all’imperatore.

Nel resto d’Italia c’erano i territori del Papato, il Ducato di Benevento governato dai Longobardi, i territori bizantini e la Sicilia conquistata dai musulmani. 

 

Con lo smembramento dell’impero carolingio si avviò un settantennio di instabilità che sfociò nella costituzione di un Regno d’Italia indipendente (888-960) conteso da molti pretendenti tra cui i maggiori feudatari dotati di una potenza militare atta ad ambire al controllo dei territori fin allora soggetti all'influenza carolingia. Tra questi il marchese del Friuli, quello di Toscana, il duca di Spoleto, ai quali successivamente si aggiunse il marchese d'Ivrea. Di essi, i più accreditati pretendenti al titolo di re d’Italia, per diritti dinastici, erano il nipote di Ludovico il Pio, Berengario I del Friuli (850-924) ed il discendente di Lotario I, Guido II di Spoleto (-894).

La corona di re d’Italia venne assunta (888) da Berengario I del Friuli che, sorretto da una potente milizia creata per difendere i confini orientali dell’impero, riuscì a convincere una dieta di Conti e Vescovi appositamente riunita nella capitale del Regno, Pavia, a farsi eleggere successore di Carlo il Grosso sul trono italiano. Guido da Spoleto che, in concorrenza con Oddone di Parigi, aveva concorso invano alla corona di re della Francia occidentale, rientrò con il suo esercito in Italia e, rifiutando di riconoscere il titolo assunto da Berengario, si mosse contro di lui e, nei pressi del fiume Trebbia (Piacenza), gli inflisse una disastrosa sconfitta (889). Quindi convocò a Pavia (891) una nuova assemblea per farsi proclamare re in cambio del riconoscimento ai vescovi elettori dei loro domini e della concessione di immunità ecclesiastiche. Guido da Spoleto, essendo anche riuscito a farsi incoronare imperatore (891-894) da papa Stefano V (885-891), associò al trono il giovanissimo figlio Lamberto da Spoleto (880-898) che fece incoronare re d’Italia da papa Formoso (891-896) con cui entrò successivamente in contrasto. Infatti Formoso, d’accordo con Berengario, sollecitò il re dei Franchi orientali, Arnolfo di Carinzia a venire in Italia per spodestare Lamberto da Spoleto. Cosa che Arnolfo attuò nell'894 allorché, dopo aver conquistato Bergamo, Milano e Pavia, si fece riconoscere re di Italia in contrapposizione ai da Spoleto. Quindi, ricevuto l'omaggio feudale da Berengario, fece ritorno in Germania, malgrado il marchese d’Ivrea, sostenuto da contingenti inviati dal re Rodolfo I di Borgogna, avesse tentato di sbarrargli la strada.

Nello stesso anno (894) Guido II di Spoleto morì, lasciando il conteso titolo di re d’Italia al giovane figlio Lamberto che si trovò in chiara contrapposizione con Arnolfo di Carinzia. Questi nel 896, ritornato in Italia per riprendersi il titolo, mosse verso Roma accolto benevolmente da papa Formoso che lo incoronò imperatore, realizzando così il trasferimento del titolo imperiale in mano a principi germanici.

Rientrato Arnolfo in Baviera, Berengario del Friuli e Lamberto da Spoleto concordarono la spartizione del Regno d’Italia: a Berengario venne assegnato il Friuli e il territorio fino all’Adda ed a Lamberto il resto. Lamberto morì accidentalmente a Marengo nel 898 per una caduta da cavallo.

Nell’899, dopo la morte di Lamberto, mentre Arnolfo era impegnato militarmente, Berengario si fece rieleggere re d'Italia dalla dieta dei feudatari, prima di dover correre a contenere, nella pianura padana, una scorreria di Ungari che lo sconfissero sul Brenta costringendolo a pagare un forte riscatto. Evento che causò a Berengario perdita di prestigio e fece sorgere dubbi sulla sue capacità di difendere il Regno d’Italia. Ragion per cui, alla morte di Arnolfo (899), i potenti del Regno sollecitano papa Benedetto IV (900-903) a proporre, per la copertura del titolo imperiale rimasto vacante, il nipote di Ludovico II il Germanico, Ludovico III di Provenza (880-928), che venne in Italia e, dopo aver sconfitto Berengario, si fece eleggere re d’Italia dalla dieta di Pavia (900) e quindi incoronare imperatore (901).

Berengario, preparò la rivalsa rafforzando l’esercito bavarese con mercenari magiari e sconfiggendo per ben due volte (902 e 905) Ludovico III che, imprigionato ed accecato, fu costretto a rinunciare al titolo regale assunto da Berengario. Questi cercò di riprendere il controllo del regno distribuendo benefici ma non poteva ambire al titolo imperiale senza l’aiuto del papa. L’occasione si verificò nel 915 allorché, avendo fornito a papa Giovanni X (914-928) l’aiuto richiesto per espellere una forte comunità musulmana insediata presso il Garigliano con l’intento di minacciare Roma, venne eletto imperatore (915-924) e ricevette l’omaggio dei feudatari. Sembra che durante l’incoronazione il popolo abbia acclamato il sovrano “nativa voce” che sarebbe una delle prime testimonianze della lingua italiana.

Il periodo di tregua che aveva accompagnato i primi anni di investitura fu rotto nel 922 quando una congiura di nobili, avversa a Berengario incolpato di aver dato spazio a truppe ungare, voleva portare sul trono d’Italia Rodolfo II di Borgogna (888-937). Questi  scese in Italia e, sconfitto Berengario a Fiorenzuola d’Adda in una delle più cruente battaglie dell’epoca, gli sottrasse la corona d’Italia. Berengario, mentre Rodolfo era in Borgogna a curare gli affari di quella regione, cercò una ennesima rivalsa assediando Pavia con un esercito mercenario e sconfiggendo Ugo di Provenza (880-948; successore di Ludovico III e nipote di Lotario II di Lotaringia) che cercava di inserirsi nelle vicende italiane e sostituirsi a Rodolfo. Le milizie di Berengario sconfissero Ugo di Provenza e distrussero Pavia facendo strage di civili. La guerra si concluse con l’assassinio di Berengario (824) a Verona a seguito di una congiura. Mentre l’Italia settentrionale era attaccata dagli Ungari che devastavano la Lombardia e incendiavano Pavia, i nobili e gli ecclesiastici che avevano sostenuto Berengario si ribellarono a Rodolfo, offrendo il regno d’Italia ad Ugo di Provenza che fu incoronato a Pavia dopo che Rodolfo aveva abbandonato definitivamente l’Italia.

Ugo cercò l’appoggio del papato nel vano tentativo di essere eletto imperatore ed a tal fine sembra abbia sposato (932) la nobildonna romana Marozia (892-955), madre di papa Giovanni XI (931-935). Nel 945, i feudatari italiani guidati dal nipote di Berengario I, Berengario II d’Ivrea (900-966) si opposero ad Ugo che fu costretto a trasmettere il regno al proprio figlio Lotario II di Provenza (945-950). Berengario II prima prese sotto la sua tutela Lotario II, quindi ne ordinò la soppressione per assumere direttamente il titolo di re (950-961) ed associarsi il figlio Adalberto. Berengario II per rafforzare la sua posizione resa debole dal sospetto che avesse fatto avvelenare il predecessore cercò di far sposare il figlio Adalberto con la vedova di Lotario II di Provenza, Adelaide di Borgogna che rifiutò. L’azione politica di Berengario non convinse né i feudatari né gli ecclesiastici e papa Giovanni XII (955-964) e la vedova di Lotario, Adelaide, chiesero un intervento del re di Germania (dal 1936) Ottone I il Grande (912-973) che scese in Italia, depose Berengario II e dopo aver sposato Adelaide di Borgogna si fece incoronare (951) a Pavia re d’Italia. Ottone, ricevuta quindi la sottomissione a vassallo da parte di Berengario II, pose la corona del Regno d’Italia sul capo di quest’ultimo, il quale, successivamente adottò una politica aggressiva sia verso i feudatari che verso il papato. Circostanza che spinse Giovanni XII (955-964) a richiedere l’intervento di Ottone che scese in Italia (961) depose Berengario e nel 962, ricevette dal Papa la corona imperiale vacante dal tempo di Berengario I del Friuli.

 

 

Origine del feudalesimo [•]

Dalle vicende tracciate si può dedurre quanto la storia di quel sessantennio che intercorre tra la morte di Carlo Magno (814) e la deposizione di Carlo III il Grosso (877) sia dominato da una conflittualità che generò una condizione di insicurezza sociale e di debolezza strutturale da far precipitare tutti i territori dell’Impero nell’anarchia. Una condizione che lasciò spazio alle pressioni, da Oriente, di diverse orde barbariche di Ungari e di Slavi ed alle incursioni di Saraceni e Vichinghi. Questi percorrevano le strade di Francia tra l’indifferenza delle popolazioni e degli aspiranti locali al potere, le prime assorbite da problemi di sopravvivenza, i secondi impegnati in conflitti periferici. Infatti le esigenze di difesa del territorio, venuta meno l’autorità centrale e non trovando più risposta nello Stato, furono demandate a quelle forze territoriali, principati e signorie locali, anello di collegamento tra apparato regio e società che rappresentavano un potente strumento di coesione politica.

I principati erano aggregazioni formatesi localmente con il consenso regio e per iniziativa autonoma di famiglie dotate di una base patrimoniale e spinte da esigenze di difesa territoriale che, nella gestione pubblica, avevano assunto una posizione dominante esercitando, talvolta da secoli e tramandata da padre in figlio, un'autorità quasi assoluta sui servi della gleba, assorbendo la piccola proprietà e costringendo i coloni, abbandonati da uno Stato in disfacimento, a porsi sotto la loro protezione.

Queste entità si impegnarono in contrapposizioni al fine di rinsaldare i propri possessi o per realizzare ulteriori espansioni i cui confini, pur mutevoli, mantenevano una certa stabilità. Lotte che provocarono il frazionamento dell’autorità politica con l’evoluzione nei rapporti fra principi e signori locali i cui membri, una volta assorbita la piccola proprietà, poterono insediarsi su ampi distretti (latifondi). Qui, oltre a garantire un rapporto di alleanza e sostegno al principe, asservirono i coloni ed amministrarono il governo, esercitando la giustizia con una autonomia tanto maggiore quanto più marcata si mostrava la debolezza dell’apparato centrale. In definitiva essi aspirarono a divenire, nell’ambito dei loro distretti, quasi altrettanti piccoli sovrani. Ugualmente si comportavano i rappresentanti delle aristocrazie militari e delle gerarchie ecclesiastiche. I primi, in misura della loro rango e dei servigi prestati, ricevevano gratuitamente dall’Imperatore o dal signore beni immobili (terre e dimore: beneficium) dove si insediavano in qualità di vassalli  per procurarsi il legittimo mantenimento (attraverso le entrate dell’erario) coll’impegno di fornire al principe, quale contropartita, un compenso rappresentato dal servizio militare richiesto (servitium). Analogamente le gerarchie ecclesiastiche ed abbaziali diedero origine a formazioni territoriali che, tendenti a controllare e sottomettere i fedeli al loro ministero, svilupparono, nel groviglio delle nuove forze locali, connotati signorili.

Tali entità, pur non direttamente gestiti, furono riconosciuti dal potere regio ed imperiale perché costituivano un efficace strumento per assemblare l’esercito e controllare il territorio. Esse vennero a costituire quel tipo di frazionamento politico denominato feudalesimo (feh-od: possesso di bestiame assimilabile a beneficio ricevuto in cambio dei servizi resi) che, pur se nella sua struttura economica essenziale esisteva fin dal tardo Impero e dai regni romano-barbarici, si sostituì allo stato unitario e fortemente centralizzato di Carlo Magno. Il quale dirigeva l’apparato statale, riunendo una assemblea annuale di laici ed ecclesiastici (Placitum generale) le cui delibera venivano assunte nei Capitularia, e ne controllava la funzione servendosi dei vescovi (missi dominici), quali ispettori itineranti in tutte le regioni. Organizzazione diffusa anche nel regno d’Italia che, allora, comprendeva tutto il territorio centro settentrionale dislocato a nord dei Ducati di Benevento e di Spoleto.

Quando Carlo Magno conquistò il regno d’Italia ai preesistenti ducati, istituì la marca e la contea, la prima costituita da varie contee era una circoscrizione militare di frontiera retta da un marchese scelto fra i conti, amministratori di una unità territoriale detta contea. Con la caduta dell’impero, queste entità (ducati, marche e contee) che arano state concesse in appalto dal re o imperatore si trasformarono in unità indipendenti i cui titolari (margravi) divennero proprietari e liberi di disporre a loro arbitrio di esse e dei loro abitanti a cui imponevano corvées, tasse ed utilizzavano anche per costituire la milizia (banno). Questa concentrazione di terra in mano a pochi originò la crescita di un istituto sociale, la nobiltà, destinato a condizionare la vita delle nazioni per molti secoli. Il privilegio dei margravi, col tempo venne esteso ai vassalli a cui, in cambio del servizio militare, fu dal signore assegnato il godimento di una fetta di proprietà non trasmissibile per eredità. Il vassallo dava a sua volta la terra da gestire ad un sottoposto (valvassore)  che a sua volta la faceva lavorare da un colono. Una prassi che col tempo si venne a modificare ed i feudatari minori, che non potevano lasciare la terra ai propri eredi ma trasmettere solo le funzioni, finirono con il diventare proprietari (Constitutio de feudis, 1037) e lasciare in eredità ai figli maschi feudo e l’associato titolo nobiliare col privilegio di non dover pagare tributi ma solo assicurare il servizio di milizia.

I caratteri più generali dell’ordinamento feudale sono sintetizzati nel riquadro [•], perché in effetti i rapporti fra i vari soggetti potevano essere più articolati e prevedere diverse forme di organizzazione sociale importate dai popoli invasori dai lontani paesi di origine. Così fu per il feudalesimo introdotto nel XII sec. (secondo feudalesimo) dai Normanni nel Meridione d’Italia dove feudo e vassallaggio furono organizzati in un ordinamento fortemente centralizzato e basato su ordinamenti e leggi dettate direttamente dal sovrano, presente sul territorio e che rappresentava il vertice del potere pubblico in cui si concentravano funzioni e diritti trasmissibili ereditariamente. Vertice che, invece,  nell’organizzazione carolingia era rappresentato dal signore feudale.

Successivamente la crescente capacità delle monarchie nazionali di impedire il costituirsi di nuovi nuclei autonomi di potere politico-militare e di imporsi ai potentati locali già esistenti permise di convogliare i poteri autonomi dentro un assetto statale centralizzato. Questo, attraverso una catena di controllo affidata ai funzionari, svuotò il potere dei referenti periferici di ruolo politico e lo subordinò all’autorità regia che venne a riacquisire potenza ed efficacia.

Nell’Italia centrosettentrionale l’esistenza di Comuni (v. seguito: Formazioni comunali) di tradizione romana impedì il pieno sviluppo degli ordinamenti feudali che restarono circoscritti ai centri rurali.

 

 

 

 [•]  Ordinamento feudale

Successivamente al disfacimento dell’impero carolingio si svilupparono i fondamenti preesistenti e relativi a beneficio, vassallaggio ed immunità.

-           Il beneficio, o frazione territoriale (feudo) rappresentava una concessione del principe che andava a formare o ad integrare piccole e grandi signorie (marche e contee). Esso veniva dato in dono in un contesto privato, come benevola concessione del signore ai vassalli in cambio del servizio reso a quest'ultimo. Inizialmente il feudo veniva concesso in “comodato” che attribuiva il possesso ma non la piena proprietà, per cui non poteva essere venduto né alienato ed, alla morte del vassallo, il feudo non si tramandava agli eredi ma ritornava al signore. Tuttavia i feudatari riuscirono a modificare lo stato di cose e, nell’877, Carlo il Calvo, con il capitolare di Quierzy, concesse ai grandi feudatari la possibilità di trasmettere i feudi in eredità, mentre i piccoli feudatari dovettero aspettare la Costitutio de feudis  del 1037 per ottenere la trasferibilità ereditaria.

-           Il vassallaggio era una sorta di contratto che si istaurava tra signore e vassallo in una cerimonia di investitura in cui il vassallo (homo), ricevendo l’omaggio e la protezione del signore, assicurava fedeltà e servizio. Il mondo feudale che trovò formale espressione nell’ordinamento in marche e contee facenti capo all’imperatore cui spettavano determinati diritti (regalia) era dominato da una rigida scala gerarchica. In essa ciascun membro godeva della assoluta sudditanza dei sottoposti secondo un sistema che poneva al vertice una carica di alto rango (imperatore, re, papa, vescovo, conte), quindi i vassalli con i loro sottoposti, valvassori e valvassini (ultimo scalino dei feudatari) sotto il cui controllo si trovavano solo i servi della gleba. Una società piramidale a base molto ampia che, con la progressiva alienazione delle proprietà fondiarie, diede origine ad una feudalità minore composta da valvassori, da mercanti e da funzionari agiati che, possessori di terreni, ambirono a liberarsi degli anacronistici vincoli feudali.

-           I’immunità consisteva nel privilegio di non subire, entro i confini della signoria feudale, alcun controllo da parte dell'autorità pubblica. Nel caso dei feudi più grandi si aggiungeva la concessione del diritto di giurisdizione che consisteva nella delega ad amministrare la giustizia pubblica ed a goderne i proventi nel caso di pene pecuniarie.

 

 

Il tempo degli imperatori germanici e la germanizzazione dell’Impero

 

Il Sacro Romano Impero di Ottone I

 

L’impero medievale, sotto la dinastia degli Ottoni, consacrò l’unità delle stirpi germaniche assumendo la difesa dell’Occidente dalle incursioni degli Ungari e Slavi.

Ottone I, re di Germania dal 936 e, nominalmente, re d’Italia settentrionale dal 951, unificò il governo delle due nazioni (più tardi si sarebbero associati i regni di Borgogna, dal 1032, e di Boemia, dal 1041) e dopo la vittoria di Lechfeld sugli Ungari (955) che pose fine alle loro incursioni in Europa acquisì un prestigio che gli valse la nomina ad imperatore (962) da parte di papa Giovanni XII. Nomina che stabilì il collegamento fra nazione germanica ed Impero dando vita al Sacro Romano Impero della Nazione Germanica (noto anche come Primo Reich, un agglomerato politico medioevale che si dissolse in epoca napoleonica, 1806) che fece della Germania il paese più ricco ed ordinato d’Europa. La nomina fu propiziata anche dall’interesse dei vertici ecclesiastici di poter contare, dopo la contrapposizione con la Chiesa d’Oriente (emersa nell’863 tra papa Nicolò I ed il patriarca  di Costantinopoli Fozio sul Simbolo niceno-costantinopoliano), su un protettore della religione cattolica e della Chiesa di Roma. E pur se l’imperatore veniva ad assumerne il controllo come alle origini carolingie dell’Impero, il vantaggio per Roma e la sua Chiesa, considerata la manifesta attrazione dei re germanici per l’antico universalismo da essa rappresentato, consisteva nel conseguente spostamento del centro ideale dell’Impero dal mondo germanico al Mediterraneo. Orientamento che, emerso con Ottone I, ebbe la sua celebrazione con le scelte di Ottone III (880-1002) che trasferì a Roma la capitale del regno.

La concentrazione di potere nelle mani di Ottone implicarono interventi nei problemi di sicurezza dell’intera penisola italiana e proposero la prospettiva di unificazione dell’intera penisola italiana sotto la corona tedesca. Ragion per cui Ottone pensò di stabilire un legame con l’imperatore bizantino Giovanni I Zimisce, facendo sposare (972) la nipote di questi, principessa Teofane con il figlio Ottone II (955-983). Ciò che gli avrebbe consentito di estendere la sua influenza non solo sui territori e ducati bizantini ma anche di operare un controllo sui ducati di origine longobarda (Benevento, Capua e Salerno). Ottone II tentò addirittura di annettere ai territori dell’Impero le regioni bizantine del Meridione continentale e quelle musulmane del Meridione insulare ma venne sconfitto nella battaglia di Capocolonna (982), presso Stilo, e fortunosamente riuscì a salvarsi con pochi supersiti e riparare a Capua.

 

Dopo l’incoronazione ad imperatore, Ottone I, informato della corruzione e del malcostume diffuso nella Roma di Giovanni XII, rispondendo alla sua visione austera del potere, decise un intervento (963) volto a definire i rapporti fra Stato e Chiesa, Privilegium Othonis (962) [••] attraverso il quale confermò alla Chiesa le donazioni di Pipino il Breve e di Carlo Magno (756 e 774), riconobbe ai papi la legittimità del potere temporale e, coll’intento di sottrarre la scelta del papa all’arbitrio della aristocrazia romana, stabilì che l’elezione del pontefice dovesse avvenire con il consenso dell’imperatore ed, al fine di dotarsi di funzionari di livello culturale elevato e di impedire loro la trasmissione ereditaria dei feudi, dispose che gli imperatori potessero scegliere i propri vassalli fra le autorità ecclesiastiche, stabilendo così per essi una doppia dipendenza dai re da cui ricevevano sia i simboli del potere spirituale che quello temporale. Per realizzare il suo progetto Ottone I intese superare il sistema feudale con l’istituzione del feudo cittadino che affidò con carattere vitalizio ai vescovi (vescovi-conti) che vennero inseriti nella gerarchia feudale. Il feudo, non potendo essere dagli ecclesiastici trasmesso per successione, alla morte del vescovo ritornava di fatto nella disponibilità dell’imperatore. Il feudo cittadino, nel tentativo di espandersi verso la campagna, avviò un conflitto fra feudatari cittadini-eclesiastici e feudatari rurali-laici che alterando le coordinate della gerarchia ecclesiastica feudale che venne a trovarsi in uno schieramento più vicino all’imperatore che al papa.

I vescovi-conti erano scelti tra i membri della nobiltà, la qualcosa determinava stretti vincoli di interesse tra aristocrazia ed alto clero. Il quale, pur se sovente si manifestò rozzo e corrotto, allorché venne insignito, oltre a quelli religiosi, dei compiti amministrativi e militari che si traducevano nel conferimento del diritto di giurisdizione, di tassazione e di responsabilità militari di sostegno, si rivelò abile nella gestione dei patrimoni ed animoso sostenitore militare dell’Impero. Inoltre nel momento in cui acquisirono il feudo cittadino, i vescovi non solo fondarono chiese e monasteri ma, con lo stesso zelo, cercheranno di fortificare le città con solide mura per farne un luogo protetto. Ciò che indusse l’urbanizzazione del popolo contadino e il conseguente sviluppo dell’artigianato e del commercio, velocemente sviluppatosi con il potenziamento delle vie di collegamento con altri centri. D’altro canto il trasferimento della forza lavoro dalla campagna alla città produsse un frazionamento del latifondo che, dato in affitto, favorì, con l’intensificazione delle coltivazioni, il miglioramento dell’agricoltura.

Si venivano così ad attuare i presupposti per lo sviluppo delle formazioni comunali (v. seguito) in cui il vescovo-conte, capo politico e militare, modificò la sua collocazione di sostenitore dell’imperatore assumendo il ruolo di oppositore del potere laico dell’Impero.

 

 

 

[••] Privilegium Othonis

L’accordo stabilito, nel 962, fra il re di Germania Ottone I e papa Giovanni XII, prevedeva il “beneplacito” alla nomina dei papi da parte dell’imperatore che si attribuiva il dovere di sorveglianza della città di Roma e l’impegno di mantenere sotto tutela imperiale tutte le donazioni ricevute dal Papato.

L'anno successivo (963) alla promulgazione del Privilegium, a seguito della fuga di Giovanni XII colpevole di aver tradito il patto di alleanza con l'Imperatore, fu indetto un sinodo in S.Pietro, nel corso del quale Ottone modificò la clausola del Privilegium relativa al ”beneplacito” del sovrano ad elezione del papa avvenuta con il “beneplacito” preliminare.

Ottone depose Giovanni XII e fece eleggere un uomo integro, Leone VIII (963-965, ritenuto un antipapa) ponendosi in contrasto con i cittadini romani che elessero a loro volta Benedetto V (964-966). Il contrasto non si placò con la morte di Leone VIII e l’elezione di Giovanni XIII (965-972) su indicazione dell’imperatore dovette superare altri contrasti prima di affermarsi.

Il Privilegium fu riconfermato attraverso il Diploma Heinricianum, stipulato il giorno di Pasqua del 1020 tra il papa Benedetto VIII (1012-1024) e l'Imperatore Enrico II di Baviera.

Tutti i papi dal 963 al 1058 furono eletti sulla base di quanto prevedeva il Privilegium.

Nei decenni successivi alcuni pontefici, a partire da Leone IX (1049-1054), iniziarono una riforma della Chiesa opponendosi al Privilegium, che ne limitava l'autonomia. Esso fu abolito da Niccolò II (1059-1061) nel Concilio Lateranense del 1059, a seguito del quale il papa emanò un decreto con cui veniva stabilito che, da allora in poi, l'elezione del pontefice sarebbe stata una prerogativa esclusiva di un collegio di cardinali, riuniti in Conclave.

L'abolizione del Privilegium fu alla base del duro scontro che contrappose la Chiesa e l'impero dal 1076 al 1122: Lotta per le investiture.

 

 

Ottone III, dopo l’investitura ad imperatore (996) si trovò in difficoltà a seguito dell’imposizione sul soglio pontificio di suo cugino, Bruno di Carinzia, cappellano di corte e primo papa di origine tedesca Gregorio V (996-999). Infatti appena Ottone III si allontanò da Roma, il papa da lui indicato venne deposto dalla nobiltà romana, guidata da Giovanni Crescenzio, e nominato al suo posto l’antipapa Giovanni XIV che venne scomunicato da un sinodo di vescovi  tenutosi (997) a Pavia. La controversia si risolse con il rientro a Roma di Ottone che segnò l’emarginazione e condanna di Crescenzio. Alla morte di Gregorio V, Ottone indico al soglio pontificio il suo precettore, Gerberto di Aurillac, che assunse il nome di Silvestro II (999-1003). Sotto l’influenza di questi Ottone impose il greco ed il latino come lingue ufficiali dell’Impero e cullò il progetto di una Renovatio Imperii che non riuscì ad avviare per l’opposizione che si manifestò e che la sua prematura morte (forse per malaria o probabilmente per veleno) fece accantonare.

Ad Ottone III successe come re di Germania ed imperatore il cugino Enrico II di Baviera (1002-1024) che, abbandonando i progetti di rinnovamento cristiano di Ottone III, ritornò ad una visione più prettamente germanica della centralità dell’Impero che esigeva il collegamento della dignità imperiale e del Regno d’Italia alla potenza tedesca a cui veniva subordinato il vincolo con Roma.

Nel momento in cui l’Impero allentò la sua attenzione sui fatti italiani si verificarono tentativi di riappropriarsi di forme di autonomia. Così la nomina dei papi ritornò ad essere condizionata dal patriziato romano le cui preoccupazioni erano del tutto estranee agli aspetti spirituali di quella carica. Con lo stesso intento un gruppo di vassalli laici ostili al potere imperiale, nell’estremo tentativo di creare un regno politicamente e giuridicamente distinto dall’impero tedesco, elessero a Pavia un nuovo re, Arduino d’Ivrea (1002-1014). Ma la fazione ecclesiastica filo-imperiale, nel timore di venire esclusa e preferendo  mantenere il potere in mano ad una dinastia tedesca che non presente sul territorio lasciava integra la possibilità di salvaguardare i propri particolarismi, si rivolse all’imperatore Enrico II per sollecitarlo ad emarginare Arduino e a riaffermare il principio che il regno tedesco dovesse mantenere il diritto esclusivo delle scelte politiche inerenti il regno d’Italia che, gravando politicamente su Roma, implicavano anche la protezione della Chiesa e l’intervento nell’area di dominazione temporale dei papi.

 

L’ideologia del potere imperiale sull’Italia e su Roma si rafforzò con gli imperatori della dinastia salica di Franconia (gli imperatori ed i re erano scelti da una assemblea di Grandi elettori, sulla base della influenza personale e tribale).   

L’imperatore Corrado II il Salico (1027-1039) cominciò ad applicare alle tre entità politico-territoriali (impero, nazione tedesca e nazione italiana) il titolo di Romanum imperium ed a adoperare nel sigillo imperiale la formula che celebrava Roma caput mundi. Egli fu l’artefice della Costitutio de feudis, una legge rivoluzionaria (v. sopra) che scompaginò, in Italia, l’impalcatura feudale.

Il successore Enrico III (1039-1056) si fece conferire dai romani il titolo di Patricius Romanorum e ribadì il diritto dell’imperatore di proporre il nome del futuro papa (principatus in electione papae). In un concilio da lui convocato a Sutri (1046) depose tre papi, ciascuno espressione di una diversa fazione, accusati di simonia (Gregorio VI, Benedetto IX e Silvestro III), designando al soglio pontificio un prelato tedesco di sua fiducia, Clemente II (1046-1047) a cui fece succedere altri tre pontefici scelti tra i prelati tedeschi attivi in azioni di potenziamento dell’autorità imperiale: Damaso II, Leone IX e Vittore II. Di questi, Leone IX (1049-1054), ispirato dall’intransigente Ildebrando di Soana, eminenza grigia della Curia (poi papa Gregorio VII; v. seguito) svolse una azione determinata a ripristinare la dignità del clero e le norme del diritto canonico (tra cui l’obbligo del celibato), introducendo innovazioni liturgiche (Eucarestia con pane non lievitato; innovazioni prese a pretesto dal patriarca di Costantinopoli Michele Cerulario per operare il Grande Scisma del 1054) e riaffermando il diritto della Chiesa romana di nominare e rimuovere i  titolari di cariche ecclesiastiche. La risposta non si fece attendere ed Enrico IV (1056-1106; v. seguito), oltre a rivendicare la dignità imperiale romana riuscì a collegarsi il patriziato romano che, legato alla amministrazione politico-sociale della città, deteneva il controllo dell’elezione del pontefice, in contrasto con l’emergenti istanze riformatrici della Chiesa. Il processo di romanizzazione formale avviato dall’imperatore andò quindi a scontrarsi con il movimento riformatore della Chiesa, avverso alle degenerazioni del costume ecclesiastico provocato dalle ingerenze dei laici a tutti i livelli della gerarchia ecclesiastica e che culminò nell’azione di papa Gregorio VII (1073-1085).

 Con Enrico V (1106-1125) che costrinse (1105) il padre ad abdicare in suo favore, entrò in uso la designazione del re tedesco come rex romanorum in quanto destinato ad assumere la corona imperiale (dopo l’incoronazione ricevuta da papa Pasquale II egli cedette il titolo di re d’Italia alla contessa Matilde di Canossa, 1111).  

 

 

Formazioni comunali

 

Effetti del buono governo in città

 

 

 

In Italia molti centri che avevano sviluppato un forte impianto urbano fin dal tempo dell’Impero romano mantennero la loro tradizione cittadina per diverse opportunità:

-       alcuni centri, favoriti dalla posizione geografica che le situava strategicamente allo sbocco di valli o su nodi di comunicazioni, divennero sedi di stazioni doganali;

-       altri, avvantaggiati da una particolare situazione storica, divennero sedi di amministrazioni laiche o ecclesiastiche in cui si concentrarono milizie, servizi e scambi commerciali;

-       altri, situati sulle coste, poterono dar vita a rilevanti attività commerciali che indussero anche la crescita del territorio retrostante.

 

Alla nascita dei centri urbani contribuirono anche le incursioni predatorie dei sec. IX-X di Saraceni ed Ungari che, rispettivamente sulle coste e nell’interno, costrinsero le comunità ad unirsi per organizzare una vita associativa fondando sulle alture borghi idonei alla difesa, fortificando vecchie mura o costruendone nuove. A questo fenomeno associativo si sovrappose quello della crescita demografica del XIII sec. che riempi le città (gente nova) non solo di miseri villani in cerca di fortuna e di sottrarsi al giogo cui erano obbligati dal diritto feudale ma anche della media borghesia campagnola e benestante che, attratta dalla prospettiva degli affari, contribuì a far realizzare rapidi arricchimenti.

Nell’XI sec. la crescita dei centri urbani fu favorita dai cambiamenti che le gerarchie ecclesiastiche subirono nel corso della lotta per le investiture e dalla mancanza di una costante presenza regia che favorì il sorgere di poteri locali tendenti ad intraprendere una lotta per la emancipazione e per l’affermazione delle proprie istanze. Modalità e tempi di formazione delle autonomie del centri urbani furono differenti, essendosi esse costituite a seguito del naturale sviluppo della gestione pubblica risalente alla romanità o per rottura con le strutture del passato che, di fatto, rappresentarono un cambiamento rivoluzionario. I centri urbani, per costituirsi, dovettero lottare per contrastare il potere feudale che, pur ritenuto arbitrario, imponeva vincoli e tributi ostacolando lo sviluppo ma subiva a sua volta un condizionamento da parte dei propri stessi vassalli che ambivano a rompere i vincoli di dipendenza. Per evitare limiti alla crescita, i centri urbani si posero, al fine della emancipazione delle classi cittadine, l’obiettivo di acquisire una autonomia di gestione, ottenuta con le armi o mediante trattativa con il feudatario che comportava il riconoscimento di un compenso. L’autonomia diede luogo ad una profonda trasformazione sociale caratterizzata dal rifiorire delle attività artigianali e dall’emergere di una nuova classe, la borghesia che andò a rafforzare quei ceti subalterni (piccoli mercanti ed operatori economici) che, organizzatesi in Associazioni professionali delle Arti o Corporazioni di mestiere costituirono società armate con compiti di fanteria e di difesa delle fortificazioni.

Le Associazioni delle Arti o Corporazioni (Arti in Italia, Guildes in Francia, Guilds in Inghilterra, Gremios in Spagna, Zünften in Germania, Gremi in Sardegna) erano delle associazioni nate per regolamentare e tutelare le attività degli appartenenti ad una stessa categoria professionale. Le corporazioni si costituirono o trasformando le confraternite di carattere devozionale o fondando un sodalizio che impegnava i membri all’assistenza reciproca e alla difesa degli interessi comuni. Le prime associazioni costituitesi nel corso del XIII sec., riuscirono ad assumere un ruolo guida nelle istituzioni cittadine, estendendo il loro controllo su funzioni pubbliche e la sorveglianza delle strade. Le associazioni artigianali si suddivisero in Maggiori che formavano il popolo grasso (mercanti, banchieri, medici, speziali, giudici, notai), Medie e Minori (o dei Mestieri: conciatori, sellai, macellai, falegnami, bottai, fornai, albergatori, vinattieri, pizzicagnoli, ecc.) che raggruppavano le categorie produttive (popolo minuto) ed erano relegate a un ruolo subalterno rispetto alle corporazioni mercantili.

Il compito primario di ogni corporazione era la difesa del monopolio nella pratica del mestiere, vincolato ad un ordine gerarchico che distingueva i maestri dagli apprendisti e dai lavoratori tra cui la disparità economica era sensibile e su cui le corporazioni erano competenti nel determinare salari e prezzi, fissare orari di lavoro, dirimere controversie e praticare sanzioni. I membri delle corporazioni rispondevano ad un rigoroso codice morale, avevano il dovere si soccorrersi vicendevolmente in caso di bisogno (rapimenti, fallimenti, imprigionamenti), di finanziare la costruzione di Chiese ed edifici pubblici e di organizzare feste e spettacoli

 

Il regime corporativo non si diffuse ovunque secondo le medesime modalità e nello stesso arco di tempo: nelle città europee, più strettamente vincolate alle autorità imperiali, le corporazioni si costituirono solo per iniziativa del potere laico o ecclesiastico mentre in Italia la nascita e lo sviluppo di esso fu prevalentemente spontaneo e legato alla fioritura dei Comuni. Differentemente da quanto avveniva nel Meridione normanno dove i capi delle associazioni erano designati dal sovrano.

 

Nel corso del XII-XIII sec. le città acquisirono il controllo della campagna circostante, contado, prima che questo, manifestando aspirazione all’autogestione, si ponesse in conflitto con le città al fine di autodeterminarsi attraverso la costituzione dei comuni rurali. Le due entità ebbero uno sviluppo differenziato, richiedendo le città manodopera artigianale ed i centri rurali lavoro contadino per la messa a coltura di nuove terre.

Il primo avvio organizzativo fu, attraverso articolati passaggi, la costituzione di associazioni comunali che agirono in rappresentanza del pubblico interesse ed assunsero, con il governo della città, il potere di legislazione e di nomina dei magistrati. Il trasferimento di poteri dal feudatario, che sovente era il vescovo rappresentante della città di fronte al sovrano e del sovrano presso i cittadini, alle associazioni comunali si realizzò mediante il passaggio intermedio di una parte di diritti ai vassalli. Questi, convenendo con l’autorità ecclesiastica del luogo nell’interesse comune di svincolarsi dal dominio imperiale, sostennero, nella gestione degli affari amministrativi e giudiziari, il vescovo e coloro (potentiores) che per autorevolezza (professionisti in ambito giudiziario ed amministrativo) o per prestigio (mercanti) ne condizionavano l’autorità. Gradualmente si formò un nuovo ceto di piccoli proprietari, professionisti, mercanti, artigiani e salariati che, volendo acquisire una maggiore autonomia dai grossi proprietari e dal vescovo diedero avvio alla prima forma di associazionismo, le coniurationes fra gruppi di cittadini, prima che si costituisse il Comune (da commune usato per indicare quanto atteneva al diritto privato di una classe, mentre a publicum si attribuiva una più alta valenza statale; municipium equivalente a comunità cittadina). Il Comune divenne una entità politica opposta all’ordine feudale, si garantì una autonomia gestionale usurpando i diritti dell’imperatore (regalia: v. [•]) ed assunse un carattere intermedio tra associazione privata, esponente degli interessi di una classe, ed ente pubblico rappresentante della cittadinanza.

I primi rappresentanti della collettività furono i cittadini ragguardevoli scelti in base al censo, i consoli (Comune consolare). Questi presero il posto dei rettori, rappresentanti della “vicinanza” (adunanza popolare dei “vicini”) presso il feudatario. I consoli, incaricati della “reggenza” del Comune, prestavano giuramento davanti alla cittadinanza elencando i propri obblighi che possono ritenersi le prime forme di Statuto. Inizialmente tutti i cittadini che godevano dei diritti urbani si riunivano nell’organo fondamentale della vita comunale, il Parlamento che, per facilitarne la gestione, venne ridotto ad una rappresentanza in cui potevano accedere solo coloro che vantavano alcune caratteristiche (maschi maggiorenni che possedevano una casa, pagavano una tassa, ecc.: in sostanza i membri delle famiglie più potenti, cives; rimanevano esclusi, oltre alle donne, i lavoratori manuali, gli immigrati, i servi, ecc.).

 Nel momento in cui i consoli si rivelarono incapaci di sanare i contrasti cittadini, vennero sostituiti o affiancati dai Podestà (Comune podestarile), espressione della classe aristocratica a cui venivano demandate le funzioni amministrative e che, per maggior garanzia di imparzialità, vennero scelti, dal Consiglio Generale, al di fuori del Comune. Il Podestà doveva giurare fedeltà agli Statuti comunali ed alla fine del suo mandato veniva giudicato da un collegio di sindaci. Al Podestà, verso la metà del XIII sec., si affiancò un Capitano del popolo, figura eletta per bilanciare il potere e l'autorità delle famiglie aristocratiche.

 

Il Comune fu una forma di regime politico che si assunse l’onere di amministrare con competenza ed equità la cosa pubblica nel senso di curare i problemi dei cittadini assicurando il benessere e la pace. Il Comune, nato in Italia, si sviluppò, fino al XIV sec. in vaste aree europee. Esso, in particolare quello delle grandi città, per la necessità di favorire lo scambio delle merci e mantenere sgombre le vie commerciali, fu obbligato ad una politica aggressiva ed espansionistica che allargò la sua influenza in ambito regionale con il controllo dei piccoli comuni che dovettero accettarne la supremazia.

In Italia il movimento comunale fu un fenomeno che riguardò le regioni centro-settentrionali in quanto nel Meridione la situazione rimase legata ad una forte e centralizzata organizzazione statale (quella dei re normanni e di Federico II di Svevia) che, opponendosi ad ogni concessione limitante l’autorità del sovrano sorretto da poche famiglie che governavano un territorio poco popoloso e poco dinamico per la carenza di vie di comunicazione, provvedeva a garantire i diritti dei cittadini ed a promuovere il commercio e l’artigianato. Città come Napoli, Amalfi, Bari e Gaeta che si erano organizzate autonomamente sotto la sovranità bizantina non acquisirono la piena autonomia a causa dell’avvento dei Normanni.

Fra i grandi comuni che si costituirono nel Settentrione, vanno ricordati quelli piemontesi: Asti, Alessandria, Tortona, Vercelli; i lombardi: Milano, Pavia, Lodi, Como, Crema, Cremona, Brescia, Bergamo, Mantova; i veneti: Verona, Vicenza, Padova; quelli emiliani: Bologna, Parma, Reggio, Modena; i toscani: Firenze,  Lucca, Siena.

A Genova e Pisa  il comune fu installato più precocemente e Venezia godette da sempre di autonomia.

 

Il fenomeno Comune andò esaurendosi tra la fine del XIII e gli inizi del XIV sec. con l’affermazione dei rappresentati dalla borghesia delle Arti ormai detentrice di gran parte del potere economico ed orientata a scalare il potere politico escludendo i magnati (membri delle più potenti famiglie) di cui si cercò di limitarne i diritti civili (legislazione antimagnatizia) fino a costringerli all’esilio. In tal modo il Comune, gestito dalle Corporazioni piuttosto che una organizzazione democratica, divenne un centro di potere oligarchico esercitato dalle famiglie in cui si concentrava la maggior ricchezza di recente acquisizione. Esse si posero in lotta contro le famiglie di antica nobiltà a cui cercarono di assimilarsi.

Intanto all’interno di molte formazioni comunali, nel corso del XIII sec., andava montando la protesta delle classi di salariati insoddisfatti della loro condizione mentre molti magnati, pur esclusi dal potere politico ma forti del loro potere economico e del prestigio che le loro aderenze esterne garantivano, rimasero all’interno della città e, nel momento in cui esplose la crisi, divennero l’elemento di riferimento per ristabilire la pace sociale. Dalla fragilità delle oligarchie cittadine emersero allora, forme di potere politico discrezionale ed assoluto assunto da un personaggio appartenente all’aristocrazia o proveniente dalla magistratura comunale (podestà, capitano del popolo, ecc.). Potere che, prorogato con attribuzioni ampliate per più anni, si protrasse per un tempo indefinito o a vita (dominus): nacque la Signoria, una forma di governo monocratico assimilabile alla monarchia che si venne a fronteggiare e ad alternarsi con l’esperienza comunale.

 

 

Conflitto tra Chiesa e Stato

 

La lotta per le investiture

 

Enrico IV dinnanzi a Gregorio VII a Canossa

 

La secolare disputa per la supremazia tra potere temporale e potere secolare trovò la sua suprema espressione nella “lotta per le investiture” sorta nell’XI tra papato, ispiratore del movimento riformatore ecclesiastico, e l’imperatore, gestore del potere assoluto. Essa non si riferì alla sola elezione di cariche ecclesiastiche in quanto anche imperatori e re, incoronati con cerimonia sacra, venivano ad assumere un carattere sacrale ereditato dalla tradizione ellenistico-romana.

Nel 1056 ll’imperatore Enrico III successe il giovane figlio Enrico IV di appena 6 anni, la cui reggenza, assunta dalla madre Agnese di Poitou, indebolì il potere imperiale. In quella occasione un gruppo di ecclesiastici riformatori (v. prima: Leone IX) riuscì a smarcarsi dal potere imperiale e ad assumere la guida del Concilio lateranense del 1059 che stabilì di vietare l’investitura di ecclesiasti da parte dei laici, di riservare ai soli cardinali la scelta del pontefice e, fra l’altro, condannare il concubinato. Scelte che destarono un grande entusiasmo popolare e trovarono attuazione con l’elezione di papa Gregorio VII. Questi, personaggio di grande levatura morale ed intellettuale e, fin dai tempi di papa Leone IX, ispiratore di tutte le innovazioni, glaciale ed intransigente sostenitore della Chiesa quale incarnazione di Cristo, unica, sovrana ed assoluta, temuto ed inflessibile assertore della dignità regale quale riflesso di quella papale sottratta ad ogni condizionamento laico ed ecclesiastico, nel 1074-75, diede audacemente avvio a quella rivendicazione di indipendenza della Chiesa dal potere secolare che viene ricordata con il suo nome, riforma gregoriana. Riforma che ebbe interpreti anche i suoi successori prossimi e meno prossimi che con le loro disposizioni diedero vita al Corpus juris canonici, un codice promotore dell’accrescimento degli interessi politici della Chiesa a svantaggio di quelli spirituali. Gregorio, oltre all’autonomia, volle rivendicare la supremazia della Chiesa che espresse con ventisette proposizioni raccolte nel Dictatus Papae (1075) dove venivano enunciati i poteri del papa a cui attribuiva assoluta giurisdizione su tutta la cristianità, senza che alcuna entità ecclesiastica potesse intervenire sulle sue decisioni o autorità politica potesse condizionarlo, attribuendogli il diritto di poter deporre l’imperatore e sciogliere i sudditi dal vincolo di sudditanza. Gregorio VII con la bolla Libertas Ecclesiae (1079) mirava inoltre a liberare la Chiesa dai compromessi e condizionamenti che le venivano imposti dai sovrani, istituendo il divieto all’acquisto di dignità ecclesiastiche (simonia), al concubinato dei religiosi ed all’investitura di vescovi ed abati da parte di cariche laiche (scelte e modalità su cui invano erano intervenuti in precedenza i sinodi di Pavia e di Sutri, rispettivamente nel 1022 e 1046). 

L’imperatore Enrico IV, cercando di conservare l’autorità imperiale senza alienarsi il consenso dei nobili ecclesiastici, reagì al Dictatus Papae con l’investitura, secondo la procedura usuale, del vescovo della Diocesi di Milano divenuta vacante. Scelta che diede avvio al contrasto con la Chiesa. Richiamato dal Papa, Enrico IV convocò prelati a lui fedeli nel Sinodo di Worms (1076) che dichiarò deposto il Papa la cui risposta non si fece attendere. Gregorio VII, a sua volta, nel sinodo quaresimale del 1076 scomunicò l’imperatore, sciogliendo i sudditi dall’obbligo di fedeltà al sovrano (decadenza dal trono). Enrico IV si vide incapace di far fronte alla conseguente ribellione dei principi cattolici tedeschi che, oppositori della sua politica accentratrice, lo avvertirono che non lo avrebbero più riconosciuto se non fosse stato assolto dalla scomunica. L’avvertimento può servire a comprendere la complessità della sovranità imperiale in Germania, soggetta alla norma dell’elezione e non della successione ed al condizionamento di una miriade di stati laici ed ecclesiastici difficilmente controllabili, pur se sugli stessi gravava il timore di vedersi frammentare il feudo da un intervento imperiale. Enrico pertanto si vide costretto ad accettare la mediazione della marchesa Matilde di Canossa (1046-1115; i suoi vasti possedimenti, non essendovi eredi, furono successivamente contesi fra Papato ed Impero) ed a recarsi ad incontrare il Papa ospite di quest’ultima ed in presenza dell’abate cluniacense Ugo di Semour, padrino di Enrico IV e maestro del Papa. Gregorio VII dopo averlo fatto attendere per tre giorni ammise alla sua presenza un Enrico IV, dimesso ed implorante, a fare atto di sottomissione (1077) prima di revocargli la scomunica ma non la decadenza dal trono. Una conciliazione solo parziale che non servì ad Enrico IV a riappacificare il fronte di contestazione germanico che tentò di affidare la corona di Germania a Rodolfo di Svevia. Sconfitto Rodolfo, Enrico IV riprese a nominare vescovi e ad insediare papa Clemente III al posto di Gregorio VII che si vide di nuovo costretto a ricorrere alla scomunica ed alla deposizione (1080). La reazione di Enrico IV fu di porre sotto assedio Roma che si arrese nel 1084, costringendo Gregorio VII a rifugiarsi in Castel S.Angelo e ad invocare alla protezione del duca normanno, Roberto il Guiscardo (1015-1085) che, a tal fine, interruppe una azione di guerra sulle coste greche. I Normanni che, da allora divennero il braccio armato dello Stato pontificio, costrinsero Enrico IV ad abbandonare Roma che fu sottoposta dai mercenari saraceni ad ogni genere si violenza (1084) di cui il popolo ritenne responsabile Gregorio VII che, sotto protezione normanna, fu costretto a riparare a Salerno dove morì in una umiliante solitudine.

 

Intanto si diffondeva l’idea del recupero dell’autonomia delle autorità ecclesiastiche e del ritorno al rigore morale anche se il processo, attraverso cui Impero e Papato sarebbero giunti attraverso una reciproca rinuncia ad esercitare un ruolo universalistico, fu segnato da incomprensioni, conflitti e forti contrasti. Il cui dipanarsi fece nascere la convinzione che fosse necessaria la ricerca di un equilibrio che consentisse ai prelati di mantenere benefici e prerogative di origine laica senza l’ingerenza laica nelle attività della Chiesa. Ciò che indusse sia papa Callisto II (1119-1124) che l’imperatore Enrico V di giungere a concordare un compromesso, Pactum Calixtinum, meglio noto come Concordato di Worms (1122, poi approvato dal Concilio Lateranense del 1123). In esso si stabilì precise regole in fatto di investitura dei vescovi (concessione dell’anello e del bastone pastorale, simboli del potere spirituale) riservata solo al papa mentre l’imperatore aveva facoltà di concedere poteri temporali agli eletti. Limitatamente al regno di Germania, in cui la corona era attribuita per elezione da parte di rappresentati laici ed ecclesiastici, il papa accordava all’imperatore il diritto di presenziare alle elezioni, il che subordinava l’elezione stessa al gradimento della corona e riconosceva all’imperatore facoltà di intervenire a dirimere eventuali contrasti.

L’esclusione della presenza regia nelle elezioni episcopali italiane fu un fatto rilevante in quanto lasciò spazio agli interventi papali che ne fecero terreno di sperimentazione in cui maturò il tentativo di estendere il potere papale a tutta la cristianità. 

 

Politica di Federico Barbarossa per l’affermazione dell’Impero

Il lungo scontro fra Papato ed Impero, pur se ridimensionò i due poteri a vantaggio di alcune realtà politiche emergenti che in Italia erano le città centrosettentrionali ed il Meridione normanno, diede forma al significato della separazione dei compiti tra Chiesa e Stato. Significato che si fece sentire all’atto della nomina del nuovo imperatore allorché si scontrarono i fautori di una politica intransigente nei riguardi della Chiesa (i Waiblingen, nome del castello dei duchi di Svevia, italianizzato in ghibellino, termine che incava il sostenitore della politica imperiale) con i sostenitori di una intesa con i pontefici (i Welfen, nome attribuito al duca di Baviera, italianizzato in guelfo, sostenitore della politica papale). Questi ultimi, alla morte di Enrico V, riuscirono a fare eleggere re dei Romani ed imperatore, Lotario III della casata Supplimburgo (1125-1137). Una elezione che, con la colleganza al Papato della casa di Baviera, conferiva a quest’ultima un potenza ritenuta eccessiva da buona parte dei feudatari germanici che, alla morte di Lotario III, fecero confluire il loro consenso alla carica imperiale su Corrado III di Hohenstaufen (1137-1152). Ed al momento della successione scelsero il nipote di questi appartenente alla stessa casata, Federico I “Barbarossa” (1122-1190). Questo, per qualità personali e legami familiari (figlio di Giuditta di Baviera e cugino del duca di Baviera) era ritenuto idoneo a sanare il conflitto fra le due casate tedesche rivali. Infatti l’altro pretendente alla carica, il duca di Sassonia Enrico il Leone (1129-1165) appartenente ai Welfen, rinunciò in cambio dell’assunzione di sovranità anche sulla Baviera che gli assicurava la supremazia in Germania, dove veniva a crearsi una situazione di stabilità che permise a Federico di rivolgere la sua attenzione sull’Italia. Di fatto, con l’elezione di Federico, prevalse una politica antiecclesiastica e si avviò lo scontro con i sostenitori della Chiesa. Egli mostrò fin dal suo esordio l’intento di voler rafforzare l’autorità sua personale in un Impero che aveva perso compattezza, impegnandosi in una lotta mirante ad ostacolare il corso della storia che, accanto alla volontà di autonomia dei feudi imperiali, registrava l’aumentato prestigio del Papato e l’intraprendenza dei Comuni volta alla loro emancipazione. Federico aveva scelto di adottare in Italia una politica di collegamento con gli esponenti maggiori della nobiltà rivolta contro i vassalli minori. In ciò facilitato dai contrasti che cominciavano a sorgere tra città vicine, di cui le maggiori cercavano di acquisire una supremazia imprenditoriale volta ad assicurarsi collegamenti con gli altri mercati per realizzare un regolare trasferimento di prodotti e manufatti. In tale contesto ogni potentato, piccolo o grande che fosse, si associava alla Chiesa o all’Impero secondo l’opportunità del momento in difesa dei propri particolari interessi.

Per perseguire il suo progetto, Federico indisse una dieta a Costanza (1153) dove, in presenza degli inviati di papa Eugenio III (1145-1153), rivendicò il suo diritto di intervenire sulla elezione dei vescovi tedeschi (Concordato di Worms, 1122) ed espresse l’intenzione di rispettare le prerogative della Chiesa in cambio della incoronazione ad imperatore (ricevuta nel 1155 da papa Adriano IV, 1154-1159; succeduto ad Anastasio IV, 1153-1154). Alla dieta di Costanza parteciparono anche gli ambasciatori dei comuni di Pavia, Lodi e Como che chiesero all’imperatore sostegno contro lo strapotere di Milano attivo nell’assicurarsi il controllo delle vie di comunicazione alpine e fluviali (navigazione sul Po). Egli, per rispondere a tale richiesta ed alla sollecitazione di papa Adriano IV desideroso di essere liberato da Arnaldo da Brescia [♦]  che a Roma, sostenuto da un largo seguito popolare, aveva cercato di costituire un libero comune sganciato dalla Chiesa, colse l’occasione per intervenire negli affari italiani mirando al controllo dei Comuni del Settentrione ed in prospettiva anche del Meridione normanno.  

 

 

 [♦]  Arnaldo da Brescia (1090-1155)

Avviato al sacerdozio, ebbe un ruolo nella lotta contro il potere temporale di un clero che, ritenuto simoniaco e concubinario, auspicava ritornasse alla povertà evangelica. Condannato dal II Concilio ecumenico Lateranense (1139) si recò in Francia polemizzando con Bernardo di Chiaravalle. Ottenuto il perdono (1145) da papa Eugenio III si recò a Roma dove, sotto la guida della nobiltà minore si era costituito un Comune ordinato in rioni. Arnaldo partecipò alla vita pubblica con una predicazione dai contenuti ascetici e rivolta contro le mondanità del clero, rafforzando nell’animo dei romani la convinzione di essere il popolo cui Dio aveva dato autorità per creare gli imperatori. Il movimento aveva costretto alla fuga papa Adriano IV che lanciò la scomunica che colpiva i Romani fino a quando non avrebbero cacciato Arnaldo dalla città. I Romani pregarono Arnaldo di allontanarsi temporaneamente. Uscito da Roma egli fu imprigionato dal signori della val d’Orcia, fautori di Federico Barbarossa, che lo consegnarono al prefetto pontificio Pietro di Vico. Condannato a morte, fu impiccato nel 1155, il cadavere bruciato e le ceneri sparse per evitare che divenisse oggetto di venerazione.

Divenuto simbolo dell’anticlericalismo e ritenuto un riformatore religioso, la sua dottrina sulla evangelica povertà della Chiesa fu ispiratrice di quel movimento mistico del XIII sec., i Patarini, accusati di eresia.

 

 

Conflitto del “Barbarossa” con i Comuni

 

La battaglia di Legnano

 

Nel 1154, all’atto del suo arrivo in Italia, Federico Barbarossa convocò la dieta di Roncaglia in cui revocò tutto ciò che in termini di diritti regi (iura regalia: diritto di imporre tasse, stipulare trattati, ecc.) era stato usurpato dai Comuni fin dal tempo di Enrico IV. Poiché il Comune di Milano rifiutò di riconoscere le decisioni di Federico e di concedergli facoltà di transito sui suoi territori, questi passò all’azione contro le città che avevano manifestato il proprio dissenso, consegnando Asti e Chieri al suo fedele vassallo, il marchese di Monferrato, e devastando l’alleata di Milano e Tortona che si arrese dopo un assedio di due mesi. Si mosse quindi verso Roma per favorire la cattura di Arnaldo da Brescia  [♦], quindi, dopo aver stabilito rapporti con le repubbliche marinare di Genova, Pisa e Venezia, in vista di un attacco al regno normanno del Meridione, rientrò in Germania per sposare Beatrice di Borgogna. L’eventualità di una acquisizione del Meridione da parte dell’Impero che avrebbe stretto in una morsa i territori papali, allarmò papa Adriano IV che, preferendo uno Stato Pontificio cuscinetto fra due forze avverse piuttosto che circondato da territori collegati ad un unico potere, si affrettò a risolvere i contrasti con re normanno di Sicilia, Guglielmo I il Malo, a cui, in cambio della sovranità feudale sul regno (accordo di Benevento, 1156), lo investì ufficialmente della corona del Regno di Sicilia che comprendeva anche la parte continentale del Meridione, compresi i territori autonomi di Napoli e Capua, e gli concesse la legatia apostolica (rappresentante del Papa).

Il legame del pontefice con il Barbarossa si incrinò palesemente in occasione della Dieta di Besancon del 1157 dove la concezione autoritaria (mantenuta “con le armi e con le leggi”) che l’imperatore si attribuiva in ogni settore e sopra ogni autorità compresa quella papale si scontrò con quella sostenuta dal papa che, in osservanza alle norme contenute nel Dictatus Papae (1075), riteneva il suo potere spirituale prevalente su quello dell’imperatore anche in materia di concessione di autorità politiche. In quella Dieta il papa inviò all’imperatore una ambigua missiva in cui per esprimergli la propria benevolenza utilizzava, non occasionalmente, il termine beneficium proprio della terminologia feudale, che voleva significare la superiorità gerarchica del pontefice rispetto all’imperatore. Ciò che fu motivo di scontro diplomatico tra i rappresentanti dei due poteri.

Nel 1158, in occasione della seconda discesa in Italia, il Barbarossa convocò una nuova e più importante dieta a Roncaglia. In essa vennero dettagliate i diritti (Costitutio de regibus), non decaduti per il solo fatto che erano venuti meno, che l’imperatore voleva rivendicare e che comprendevano le prerogative legate all’elezione del nobili, alla nomina dei consoli, al conio della moneta ed alla riscossione dei diritti fiscali, oltre all’impegno, da parte dei feudatari, a provvedere al vettovagliamento delle milizie e dei messi imperiali allorché attraversavano i loro territori (fodro) ed alla pretesa di insediare nei singoli comuni un funzionario di nomina imperiale. I diritti rivendicati scontentarono anche i Comuni filo imperiali ed indussero alla ribellione Crema, che un Federico desideroso di dimostrare la fermezza nell’attuazione del suo programma, assediò per sette mesi, quindi preparò un forte esercito per conquistare Milano che aveva acquisito il comune di Trezzo. Nella primavera del 1161, Federico, ricevuti rinforzi dalla Germania, pose sotto assedio Milano che resistette per un anno prima di essere costretta alla resa, distrutta ed i suoi abitanti dispersi, mentre Brescia e Piacenza furono piegate, a seguito della distruzione delle loro mura, ad accettare l’insediamento dei funzionari imperiali.

Nel frattempo le disposizioni emerse da Roncaglia che Federico estendeva anche al settore ecclesiastico indispettirono papa Adriano IV che si avvicinò politicamente ai Comuni lombardi e meditava una scomunica contro l’imperatore, intento che non riuscì ad attuare prima della sua scomparsa. Le disposizioni di Federico ancor più irritarono il successore e continuatore della linea politica, Alessandro III (1159-1181). Questi, eletto in contrapposizione al sostenitore dell’imperatore, il cardinale Ottaviani che assunse il ruolo di antipapa col nome di Vittore IV (1159-1164; a questi seguirono nella stessa funzione Pasquale III e Callisto III), aprì una nuova stagione di contrapposizioni. Federico, volendo assumere un ruolo di arbitro nelle contese ecclesiastiche, cercò una ricomposizione convocando il Concilio di Pavia (1160) a cui papa Alessandro III non partecipò. Il concilio confermò l’elezione di Vittore IV che scomunicò papa Alessandro III ed i suoi sostenitori. Alessandro III reagì scomunicando a sua volta sia Vittore IV che Federico Barbarossa e stabilendo contatti con tutti gli avversari di questi: Venezia, i Comuni, i re normanni e l’imperatore di Bisanzio.

Nel 1163 Federico fece una nuova incursione in Italia perché già emergeva la rivolta dei Comuni veneti, Verona, Padova e Vicenza che rifiutarono le offerte di pace dell’imperatore. Questi, non disponendo di forze sufficienti e venendogli a mancare l’appoggio di Genova e Pisa, impegnate a disputarsi la Sardegna, rinunciò all’obiettivo della spedizione che era rivolta prevalentemente contro i Normanni e rientrò in patria.

I comuni italiani, in fermento (a Bologna era stato ucciso il rappresentante imperiale) ritennero necessario pervenire ad un accordo per organizzare una resistenza comune. Essi strinsero due coalizioni a cui si aggiunsero anche città solitamente legate all’imperatore (es. Cremona e Pavia): la lega veronese (Verona, Vicenza e Padova) e la lega cremonese (Crema, Brescia, Bergamo, Mantova, i profughi milanesi, ecc.) poi confluite nella lega lombarda (Societas Lombardiae), concordata, secondo testimonianze non verificabili, il 7 aprile 1167 a Pontida. Ad essa si unirono Parma, Piacenza e Lodi, quindi giunsero anche gli appoggi di papa Alessandro III, del regno normanno, dell’imperatore bizantino ed, occasionalmente, di Pavia e del Marchese di Monferrato da sempre sostenitori imperiali. Nell’aprile 1167 le forze alleate diedero inizio alla ricostruzione di Milano e, nel 1168, alla fondazione di una nuova città, Alessandria (in onore di Papa Alessandro) sulla confluenza tra i fiumi Bormida e Tanaro, un nodo strategico per il controllo dei flussi di transito fra Lombardia e Liguria. Un atto chiaramente provocatorio sia perché la fondazione di una città era una prerogativa del sovrano che per il nome scelto.

Nel frattempo Federico si era organizzato per un nuovo intervento in Italia (1166) e, ottenuta la resa di Ancona presidiata dai Bizantini, si diresse ad occupare Roma (luglio 1167), costringendo papa Alessandro III a rifugiarsi a Benevento sotto la protezione dei Normanni. Quindi dovette rientrare in Germania dove la situazione stava sfuggendo al suo controllo e da dove tentò un infruttuoso tentativo di riconciliazione con papa Alessandro III.

Nel 1174, risolti i problemi in Germania, Federico stabilì di risolvere definitivamente anche quelli italiani. Predisposto un forte esercito ridiscese in Italia e, dopo aver costretto alla resa le città di Alba, Acqui, Pavia e Como, cinse per sette mesi d’assedio Alessandria la quale, dopo essere riuscita a distruggere con repentine sortite le più efficienti macchine da guerra di Federico, accettò un armistizio (Montebello, 1175) senza però che si trovasse un compromesso tra le ambizioni autonomistiche dei Comuni ed le pretese imperiali di assolutismo. Pertanto, tolto l’assedio ad Alessandria, Federico, malgrado gli scarsi rinforzi ricevuti dai feudatari tedeschi e dal cugino, il guelfo Enrico il Leone, dovette prepararsi a lasciare le valli alpine per affrontare le truppe della Lega. Lo scontro, avvenuto a Legnano [♦♦], segnò per l’imperatore una sconfitta amara non tanto dal punto di vista militare quanto da quello del prestigio personale. Egli pertanto si affrettò a cercare di rompere il fronte alleato concludendo una pace separata con il pontefice (Anagni, 1176) di cui ne riconobbe la legittimità, impegnandosi a non più interferire negli affari della Chiesa e a restituire a Roma i suoi territori. L’accordo irritò i Comuni che non gradirono il cambiamento di atteggiamento del papa di cui rifiutarono la proposta di mediazione ed in definitiva segnò una rivalsa per il Barbarossa che riuscì a rompere la solidarietà fra gli alleati. Anche Cremona stipulò una pace separata con l’imperatore e, nel 1177, a Venezia Federico arrivò a concordare una tregua non solo con il re di Sicilia ma anche con i Comuni, tra cui la solidarietà si andava sfaldando a causa di contrasti interni. Intanto il III Concilio ecumenico Lateranense (1179) aveva fissato le norme di elezione del pontefice (due terzi degli aventi diritto) ed eliminato completamente il diritto di beneplacito imperiale.

La pace definitiva si firmò nel 1183 a Costanza in cui l’imperatore riconosceva la Lega, accordando alle città componenti, sotto forma di privilegio imperiale, concessioni sull’autonomia amministrativa, politica e giudiziaria a fronte del versamento di una tantum, oltre ad un tributo annuo e l’assicurazione del fodro (v. sopra). Da allora nei Comuni medievali al conflitto con l’imperatore si sostituì quello con i comuni circostanti,

Il rafforzamento di prestigio derivante all’imperatore da questo accordo gli consentì di  rientrare in Germania per sistemare le cose con i suoi avversari, tra cui Enrico il Leone colpevole di non avergli inviato adeguati rinforzi nel 1174. Egli fu privato dei suoi possessi feudali: la Sassonia fu concessa all’arcivescovo di Colonia e la Baviera alla casata dei Wittelsbach.

Nel periodo successivo alla pace di Costanza si verificò un nuovo slancio nella vita dei Comuni che registrarono un aumento della popolazione urbana ed alcuni di essi (Milano, Firenze, Genova e Venezia) assunsero il dominio di intere regioni.

Quanto all’obiettivo di estendere l’influenza imperiale anche sul Regno normanno del Meridione, il Barbarossa lo centrò con l’abile mossa diplomatica di combinare il matrimonio del figlio, Enrico VI, con la principessa normanna Costanza d’Altavilla.

Con altri sovrani occidentali Federico Barbarossa aderì quindi all’appello del pontefice Clemente III (1187-1191) di riconquistare Gerusalemme occupata dal Saladino, partecipando alla III Crociata, nel corso della quale morì (1190) attraversando il fiume Salef.

Clemente III finì col riconoscere il Comune di Roma.

 

 

 [♦]  La battaglia di Legnano (29 maggio 1176)

Federico Barbarossa con i rinforzi giunti dalla Germania procedeva, dalle valli alpine, verso Pavia per riunirsi con il resto del suo esercito. Le truppe della Lega lombarda che, provenienti da Legnano ne seguivano le mosse, tentarono, con un attacco all’avanguardia imperiale nei pressi di Legnano (presumibilmente a San Martino di Legnano o a San Giorgio a Legnano o, ancor più verosimilmente tra Borsano e Busto Arsizio) di bloccare il congiungimento. Allorché sopraggiunse Federico Barbarossa con il grosso del suo esercito costrinse i lombardi ad indietreggiare ed a raggrupparsi attorno al carroccio (un grande carro a quattro ruote recante le insegne cittadine e da cui i comandanti impartivano ordini). La fanteria lombarda, pur in inferiorità numerica ma consapevole di combattere per la propria libertà, resistette disperatamente all’assalto dei cavalieri tedeschi schierandosi a schiltron (lancieri disposti a cerchio con le lance rivolte all’esterno). Una resistenza che diede il tempo alla cavalleria lombarda, guidata secondo la tradizione popolare da Alberto da Giussano, di sopraggiungere ed operare l’assalto finale contro l’esercito imperiale che venne disunito e messo in fuga.

Il Barbarossa, nel tentativo di incoraggiare le truppe si buttò nella mischia ma venne disarcionato e scomparve alla vista dei suoi che, rimasti senza riferimento subirono numerose perdite. L’imperatore riuscì a sottrarsi alla cattura ed a riparare a Pavia.   

 

 

Il conflitto di Federico II di Svevia contro il Papato ed i Comuni

 

La disfatta presso Parma (1248)

 

La Chiesa nel corso del XIII sec. fu impegnata sia sul fronte della riorganizzazione che su quello della ortodossia e del conseguimento della supremazia politica. Sul piano della riorganizzazione interna, essa fu artefice di una azione volta a controllare, dal punto di vista finanziario, le stesse organizzazioni sorte nel proprio grembo: Ordini mendicanti ed Università. Nell’ambito della difesa della sua ortodossia e nella convinzione che i potenti del mondo cattolico dovessero sottoporsi al riconoscimento ed alla supremazia del rappresentante di Dio in Terra, il Pontefice, fu sempre più coinvolto nelle vicende della politica imperiale e nei contrasti tra Comuni. Una concezione che, assorbita inizialmente dai territori che avrebbero quindi costituito lo Stato della Chiesa (Roma, Lazio, Umbria, Marche, Romagna), aiutò dapprima quei Comuni a liberarsi dalla tutela imperiale per essere poi, possibilmente, sostituita da quella pontificia. Operazione che incontrò un antagonista determinato e portatore di una altrettanto mistica concezione del potere imperiale, Federico II di Svevia (1194-1250), una delle figure medievali più suggestive, erede e sostenitore della tradizione imperiale germanica.    

Il successore di Federico I “Barbarossa”, il figlio Enrico VI (1165-1197), divenuto imperatore nel 1191 ed, a seguito del matrimonio con la principessa normanna Costanza d’Altavilla, re di Sicilia nel 1194, era scomparso nel 1197, probabilmente per malaria. Egli era sopravvissuto al padre pochi anni, spesi interamente per imporre il suo potere in Germania e Sicilia. Federico II venne affidato dalla madre Costanza, prima della sua morte (1198), alla tutela di Innocenzo III (1198-1216), a cui, nella qualità di imperatrice, aveva riconosciuto, quale contropartita, la signoria feudale sul Regno di Sicilia e la limitazione dei diritti del sovrano nelle nomine ecclesiastiche. Il piccolo Federico crebbe arricchendosi intellettualmente a contatto con culture diverse (latina, araba, greca ed ebraica) e, grazie alla sua perspicacia, riuscì a districarsi, negli intrighi di corte, fra le contrapposte fazioni, tedesca e normanna che vicendevolmente diffidavano di lui per la sua discendenza normanna e tedesca rispettivamente.

Intanto in Germania si era scatenata la lotta per la successione tra il ghibellino fratello di Enrico IV, Filippo di Svevia, che voleva proteggere le prerogative del nipote ed Ottone IV di Brunswick, guelfo e figlio di Enrico il Leone. L’uccisione (1208) di Filippo di Svevia da parte del duca di Baviera risolse la controversia a favore di Ottone IV che ottenne la corona imperiale (1209-1218) e, pur avendo garantito Innocenzo III circa il riconoscimento al Papato dei diritti feudali sul Meridione d’Italia, si diresse per proprio conto alla conquista di quel territorio incappando nella scomunica del Papa. Ottone interruppe la facile conquista di quel territorio poco protetto per ritornare in Germania a controllare una rivolta dei fautori della casa di Svevia sostenuta dal re di Francia. Fu questa una occasione fortunata per Federico II che, ritenuto ormai soccombente, sfruttò l’inattesa opportunità ed ebbe l’audacia di risalire la penisola con truppe e fondi che recuperava strada facendo e sorretto dall’astuzia di evitare scontri con gli oppositori di fede guelfa e soprattutto con Ottone che, nel frattempo, dovette patire una bruciante sconfitta a Bouvines (1214) ad opera del re di Francia, Filippo II Augusto. Federico II riuscì così col sostegno dei feudatari tedeschi a farsi incoronare re di Germania (1212) ed imperatore (1215), col favore del clero tedesco. Federico II, al fine di conquistarne i favori, aveva promesso al Pontefice quel che a questi maggiormente premeva, cioè di tenere separate le corone di Sicilia e di Germania e si era anche impegnato a partecipare alla IV crociata. Ma ad egli maggiormente premeva riprendere il controllo della Sicilia e della Germania che, rispettivamente dopo la scomparsa del normanno Guglielmo II e dell’imperatore Federico “Barbarossa”, avevano attraversato un lungo periodo di disordini. Nel 1220, dopo aver ripreso il controllo dei territori tedeschi propiziato da un accordo di concessione di maggiore autonomia ai principi, Federico II rivolse la sua attenzione all’Italia e mosso dalla sua concezione assolutistica, quasi mistica, del potere imperiale, ritornò per restaurare la sua autorità sia sui comuni lombardi animati da spirito indipendentista sia sulla Sicilia scossa da frequenti ribellioni.

In Sicilia dove collocò il centro dell’impero riuscì a sedare i contrasti e riconquistare la sua autorità imponendo a baroni la restituzione dei beni e dei privilegi illegalmente ottenuti negli ultimi trenta anni e riuscendo a creare una monarchia modello in cui erano stati ridotti i privilegi di principi ed ecclesiastici e dove il rapporto fra corona e feudatari fu assicurato dalla istituzione di un efficiente apparato burocratico.

In Lombardia convocò una Dieta a Cremona (1126). Evento che destò la preoccupazione dei comuni di Milano, Bologna, Brescia e Mantova che, memori di quanto avevano subito dal nonno Federico “Barbarossa”, impedirono l’accesso ai delegati senza che Federico fosse in grado di intervenire, quindi rifondarono (1226) la II Lega lombarda, a cui in fasi successive si unirono Asti, Alessandria, Faenza, Lodi, Novara, Verona ed altre. Rimasero legate all’imperatore Pavia e Cremona. Altre città si schierarono non tanto sulla base del sostegno o meno all’imperatore quanto sulla base della scelta effettuata dalle città rivali.

Tutto l’impegno nelle cose italiane avveniva trascurando le sollecitazioni papali ad assolvere la promessa di partire per la Palestina alla riconquista di Gerusalemme. E se con papa Onorio III (1216-1227) che lo aveva insediato nel 1220 riuscì a rimandare l’impegno assunto, non altrettanto potette fare con l’atteggiamento fermo e risoluto di papa Gregorio IX (1227-1241) che intendeva ristabilire l’assoluta superiorità del papato nei confronti dell’imperatore. Gregorio IX, irritato dalla constatazione che, nel governo della Sicilia, Federico non teneva in alcun conto la sovranità della Chiesa, utilizzò il ritardo nell’avvio della VI Crociata (1227) anche se giustificato dal sorgere di una epidemia, quale pretesto per scomunicarlo. Alla qualcosa Federico rispose revocando le concessioni fatte alla Chiesa romana. La VI crociata partì l’anno successivo e Gregorio IX, deluso dal fatto che Federico piuttosto che imporre con le armi la conquista di Gerusalemme si affidò ad una insoddisfacente trattativa con il sultano d’Egitto, utilizzò l’assenza di Federico per promuovere contro di lui sia in Germania che in Sicilia ribellioni, che Federico, al suo rientro (1229), riuscì a controllare, inducendo clero e feudatari tedeschi a premere per una riconciliazione fra i due poteri, imperiale ed ecclesiastico. Il primo, bisognoso della neutralità papale per ristabilire la sua autorità, ed il secondo, sentendosi isolato, ritennero opportuna la sottoscrizione del trattato di San Germano (1230) secondo cui, a fronte del ritiro della scomunica, l’imperatore si impegnava a restituire alla Chiesa i territori occupati e ad esentare il clero dalla giurisdizione secolare.

All’atto del suo rientro in Italia dalla Germania, nel 1220, Federico aveva fatto nominare il figlio primogenito Enrico VII, di nove anni, re dei Romani e lo aveva affidato ad un consiglio di reggenza. Enrico, raggiunta la maggiore età ed insofferente dell’autorità paterna in ciò ispirato da oppositori del padre, intese intraprendere una politica personale in conflitto con gli interessi dell’impero. Nel 1232 Federico convocò ad Aquileia il figlio che si impegnò ad adeguarsi alle disposizioni imperiali ma, rientrato in Germania, mantenne il suo precedente comportamento alleandosi con in Comuni avversari del padre. La qualcosa indispettì perfino papa Gregorio IX che, benché alleato dei Comuni, intravide i suoi interessi collimare con quelli dell’Impero. Lanciò pertanto un anatema contro Enrico VII motivato da presunti atteggiamenti, nei riguardi degli eretici, difformi dalle leggi. Federico rientrò in Germania (1235), depose il figlio da ogni titolo e lo fece imprigionare, condizione che indusse Enrico al suicidio (1242). Federico sentiva localizzato in Italia il cuore dell’impero mentre, per quanto riguardava la Germania, gli bastava che essa restasse vincolata alla sua autorità. Considerazione che, quale segno di deferenza verso i principi tedeschi, lo indusse alla tolleranza nei riguardi di coloro che tra essi avevano assecondato le iniziative del figlio.

Non altrettanto fu nei riguardi dei Comuni italiani che avevano assunto lo stesso atteggiamento e che, dopo i trattati di pace di Venezia (1177) e Costanza (1183) (v. paragrafo prec.) erano numericamente accresciuti ed economicamente sviluppati ma furono fortemente allarmati dopo il bando ad essi rivolto nella Dieta di Cremona (1231) e dopo la promulgazione delle Costituzioni di Melfi (1231). Queste, ispirate dall’assolutismo imperiale, miravano alla costituzione di uno Stato accentratore e dominatore dell’intero apparato sociale imponendo nel regno meridionale un indirizzo che, oltre a differenziarsi da quello che stavano percorrendo le regioni settentrionali, si sottraeva di fatto alla tutela pontificia. Ritornato dalla Germania (1236) con forze consistenti, riuscì a conquistare la sede strategica di Vicenza affiancato dalle milizie del signore di Verona, Ezzelino da Romano, che si abbandonò ad eccidi ed a devastazioni di beni ecclesiastici. Quindi espugnò Mantova ed avrebbe voluto attaccare Brescia ma l’inverno incombente lo indusse a concludere le operazioni cercando una strategia che affrettasse lo scontro risolutivo. A tal fine dopo aver dato l’impressione di smontare gli accampamenti posti attorno a Brescia ed aver congedato i pochi reparti venuti dalle città ghibelline alleate, riuscì ad anticipare e cogliere di sorpresa, nei pressi di Cortenuova (1237), la cavalleria della Lega (quella costituitasi nel 1226) che, certa della sospensione delle attività belliche, rientrava verso Milano. I Lombardi si difesero raccogliendosi intorno al carroccio e, salvato lo stentando, riuscirono in gran parte a sottrarsi mentre veniva catturato il podestà di Milano, Pietro Tiepolo. Federico II celebrò la vittoria a Cremona, facendo sfilare il Tiepolo in catene ed il carroccio disadorno, quale monito per i nemici dell’impero. Federico (1238) rinunciò all’assedio di Brescia ed alle città vinte impose condizioni durissime che non mancarono di suscitare un sentimento di rivalsa.

Gregorio IX, allarmato dagli eventi favorevoli che sorridevano all’imperatore e preoccupato dalla notizia che Federico aveva nominato il figlio Enzo re di Sardegna regione considerata dal Papato (in base alla Donazione di Costantino) un proprio feudo, si schierò con la Lega lombarda, rafforzandola con un trattato di alleanza con Genova e Venezia (1239) e lanciò una scomunica contro Federico. Lo scontro si inasprì e quando Gregorio (1241) convocò un sinodo a Roma per ufficializzare l’anatema contro Federico, questi fece attaccare dalla flotta siciliana, sostenuta dall’alleata Pisa, le navi genovesi che trasportavano a Roma i partecipanti al sinodo che furono imprigionati. La scelta non fu diplomaticamente felice in quanto, oltre a compattare il clero attorno a Gregorio, alienò il favore delle corti europee vicine a Federico. La scomparsa di Gregorio IX introdusse un periodo di incertezze nelle rispettive strategie e Federico cercò di recuperare consenso liberando i cardinali imprigionati, tra cui il futuro papa Innocenzo IV (1243-1254) la cui politica si collegò a quella di Gregorio ed a cui Federico inviò una delegazione in segno di cordialità.

Innocenzo, sorretto dalla componente guelfa, spese il suo mandato nel perseguire, non disdegnando il ricorso a mezzi sleali, il dominio universale della Chiesa. Progetto che trovava in Federico l’avversario più tenace e l’effettivo ostacolo alla restaurazione della teocrazia papale. Il Papa, poco incline ad una ricomposizione, ignorò l’invito di Federico per un incontro e, per sottrarsi ad ogni condizionamento ed assicurarsi libertà di azione, si recò, passando per Genova, a Lione (1244) sua città di origine da dove annunciò un Concilio (1245). Qui giunse una delegazione inviata da Federico con l’offerta di restituire, con risarcimento, i beni ecclesiastici rivendicati dalla Chiesa. L’offerta colse di sorpresa il Papa che, seguendo il suo puntiglioso obiettivo e malgrado le perplessità di Francia, Inghilterra e del clero tedesco e siciliano, destituì Federico dalla carica di imperatore sciogliendo i sudditi dal giuramento di fedeltà.

Federico, constatata la impossibilità di un accordo, riprese le ostilità che rivolse contro l’alleata del Papa, Parma, la quale venne fatta oggetto di un lungo assedio. Gli assediati parmensi, presi dalla disperazione fecero una incursione che sorprese gli assedianti  facendo massacro e numerosi prigionieri (1248). Il tesoro dell’imperatore cadde in mano agli incursori e lo stesso Federico riuscì a mettersi in salvo rifugiandosi a Cremona. Federico, su cui si addensavano le critiche per le enormi risorse impiegate per le guerre e per la intollerabile pressione fiscale, tentò comunque la rivalsa l’anno successivo inviando il figlio Enzo in soccorso dei ghibellini modenesi e cremonesi in contrapposizione con la guelfa Bologna. A Fossalta del Tanaro (1249) i bolognesi con un deciso attacco misero in fuga gli avversari imprigionando Enzo e respingendo tutti i minacciosi proclami di Federico volti ad ottenere la scarcerazione del figlio che rimase imprigionato (prigione dorata, date le risorse cui poteva attingere) fino alla morte (1272). Ma non per questo Federico rinunciò alla lotta affidata ai figli Federico d’Antiochia, Manfredi ed al genero Ezzelino (aveva sposato Selvaggia, figlia di Federico) che riconquistarono diverse città ribelli.

La controversia tra Papato e la dinastia degli Hohenstaufen di Svevia non si placò con la morte di Federico (1250). Fallito il tentativo di imporre l’autorità imperiale al Papato, si ebbe un periodo di confuso interregno sia nel Meridione d’Italia che in Germania.

 

Nel Meridione d’Italia si scatenarono ribellioni fomentate da emissari pontifici e sostenute da rivendicazioni che rinfocolarono le controversie fra monarchia, classe nobiliare e poteri ecclesiastici. In Germania numerosi centri si associarono in leghe e le signorie ecclesiastiche riuscirono a consolidare ampi privilegi mentre, a causa della scomunica promulgata dal Concilio di Lione (1245; v. sopra) e sorretti dal consenso papale, emersero altri pretendenti alla corona imperiale destinata al figlio di Federico, Corrado IV (1228-1254), colpito dalla stessa scomunica lanciata contro il padre nel 1245. Sconfitto dal pretendente alla corona imperiale Guglielmo I d’Olanda, Corrado IV rientrò in Italia a contribuire a sedare, con il sostegno del fratellastro Manfredi, le rivolte e mantenere il Regno di Sicilia, motivo per cui invano manifestò la disponibilità a sottomettersi al Papa. Corrado morì improvvisamente, dopo aver affidato l’erede Corrado V (Corradino di Svevia; 1252-1268) alla tutela di papa Innocenzo IV, nel tentativo di placarne l’animosità contro gli Hohenstaufen di Svevia. I nobili Siciliani, anziché accettare l’investitura del designato Corradino, decisero di assegnare il regno di Sicilia a Manfredi (1232-1268), ritenuto più affidabile ad affrontare la situazione contingente. Il papa non tollerando il protrarsi dell’insediamento della casa di Svevia in Sicilia, tentò l’occupazione militare delle regioni meridionali e Manfredi accettò un accomodamento che prevedeva l’accoglimento della esigua occupazione territoriale fino a quel momento completata, fatti salvi i diritti del nipote Corradino e dei suoi eredi. In virtù di quest’accordo Manfredi venne assolto dalla scomunica (ereditata dal padre), investito del principato di Taranto e nominato vicario della Chiesa nei territori del Regno. Manfredi non potette però tollerare una nuova pretestuosa occupazione di territori campani da parte del Papa per cui si decise a reagire e mosse contro le milizie papali che sconfisse a Foggia, evento che risultò fatale per la malferma salute di papa Innocenzo IV che morì nel dicembre 1254. Gli successe Alessandro IV (1254-1261) che, continuatore dell’azione politica del predecessore, confermò la scomunica a Manfredi. Questi, tuttavia, riuscì ad avere il sopravvento sull’esercito pontificio, a sedare le rivolte, a consolidare il suo Regno ed a divenire capo della fazione ghibellina in Italia, dopo aver contribuito alla sconfitta della fazione guelfa in Toscana.

Lo stesso successore di Alessandro IV, papa Urbano IV (1261-1264), allarmato per l’affermarsi del partito ghibellino, seguì la politica dei predecessori mostrandosi tenace avversario di Manfredi che dichiarò decaduto dal trono di Sicilia, cercando perfino di opporsi al matrimonio della figlia maggiore, Costanza, con Pietro III d’Aragona. In quegli anni Manfredi riuscì ad assicurare stabilità e benessere alle regioni del Meridione di cui ne avviò la prosperità ed il progresso impostando diverse e significative attività culturali, economiche ed imprenditoriali. Un territorio divenuto prospero ed organizzato che godeva di una posizione strategica al centro del Mediterraneo non poteva non far gola alle più ambiziose dinastie europee. Urbano IV, dopo che il predecessore Innocenzo IV (1252) aveva invano proposto al cognato di Federico II, Riccardo di Cornovaglia, la corona del regno di Sicilia, non dovette faticare a trovare un pretendente ambizioso e valoroso in Carlo d’Angiò, fratello del re di Francia Luigi IX e capace di insediarsi nel Regno di Sicilia e di Napoli accettando le clausole di vassallaggio verso la Chiesa, del rispetto dei diritti del Papato e dell’abrogazione delle leggi contrarie al mantenimento dei privilegi ecclesiastici. Il papa morì prima della conclusione delle trattative mentre era in fuga dal Lazio per sottrarsi a Manfredi che, a conoscenza delle trame papali, si avviava ad assediare la corte pontificia. Gli successe il francese Clemente IV (1265-1268) che, riprendendo le trattative con Carlo d’Angiò, rispetto a quanto concordato con il predecessore, aggiunse il divieto, per se e per i suoi eredi, di assumere la carica di imperatore, di re di Germania ed il governo delle signorie toscane e lombarde. Era ciò che più premeva al Papato interessato a vedere i suoi territori cuscinetto fra forze avverse piuttosto che circondati da territori appartenenti ad uno stesso sovrano. 

Carlo d’Angiò, ricevuta l’investitura papale (1265; l’incoronazione avvenne nel gennaio 1266), giunse in Italia con un forte esercito per affrontare Manfredi in uno scontro che avvenne a Ceprano. Manfredi, benché avesse preparato con puntiglio la disposizione delle sue milizie per la battaglia, dovette subire la diserzione (verosimilmente concordata con il Papa) di parte delle sue truppe affidate al comando del cognato, conte di Caserta, e di altri baroni meridionali che aprirono un varco sulle ali consentendo il sopravvento delle truppe francesi. Manfredi fu costretto a ritirarsi e, nella battaglia decisiva di Benevento, costatando l’abbandono anche di parte delle truppe di riserva, forse intempestivamente perché le sorti della battaglia non erano ancora decisamente delineate, si buttò nella mischia dove trovò la morte. Il corpo venne seppellito sul campo di battaglia sotto un mucchio di pietre. Essendo Manfredi scomunicato, Il pontefice diede disposizione di riesumare i resti e di deporli fuori dai confini dello Stato della Chiesa.

Carlo d’Angiò concluse la conquista del Regno senza trovare resistenze. Ma dovette scontrarsi ancora con Corradino di Svevia, ultimo erede degli Hohenstaufen. Questi appena quindicenne, spinto dall’orgoglio di voler recuperare il potere dei suoi avi, dopo aver ricevuto adeguate milizie dai principi tedeschi, scese in Italia (1267) dove trovò altre milizie in appoggio. Carlo interruppe le operazioni di consolidamento del suo potere per intercettare Corradino. Lo scontro avvenne a Tagliacozzo (agosto 1268) e dopo un iniziale successo le composite milizie di Corradino, anziché insistere, si dispersero per darsi al saccheggio, consentendo alla retroguardia angioina di intervenire, coglierle di sorpresa e massacrarle. Corradino si sottrasse fuggendo. Catturato fu consegnato a Carlo che lo fece decapitare a Napoli, destando pietà ed impressione.

Così si estinse la dinastia degli  Hohenstaufen e, con essa, si realizzava la definitiva sconfitta del partito ghibellino in Italia.

  

 

Epilogo

 

L’Europa del 1328

 

 

Dopo il tramonto della dinastia Hohenstaufen, la contrapposizione impero-papato non si risolse ma, pur verificandosi saltuarie asprezze, non fu frontale come lo era stata con Enrico IV e gli imperatori svevi. L’Impero attraversò un ventennio di instabilità, noto come “interregno” e caratterizzato dall’accentuazione di autonomia dei principi italiani e dalla contrapposizione fra diversi pretendenti. Questi mai ricevettero l’investitura che i papi si riservavano (approbatione) con l’obiettivo di rafforzare l’accentramento del governo ecclesiastico. Finché papa Gregorio X (1271-1276), dopo la morte dell’imperatore Riccardo di Cornovaglia (1257-1272), non volle riconoscere la nomina di Alfonso di Castiglia, fornendo l’opportunità ai principi elettori di eleggere Rodofo I d’Asburgo (1275-1291) re dei Romani. Elezione che venne ratificata dal Papa, a fronte della di restituzione alla Chiesa dei beni sottratti nel periodo Hohenstaufen. Rodolfo sottrasse alla Boemia l’Austria su cui quindi si sviluppò la potenza della sua casata.  

Gli imperatori, col progetto di restaurare il potere imperiale, continuarono ad intervenire nei fatti italiani facendosi coinvolgere nelle lette tra guelfi e ghibellini. Così Enrico VII di Lussemburgo (1308-1313), venuto in Italia con l’intento di ristabilire pace ed ordine fra le fazioni avverse, finì con l’inserirsi nel corso degli avvenimenti e consolidare i grandi regimi ghibellini, trovandosi in contrapposizione con Clemente V (1305-1314) e con il re di Napoli, Roberto d’Angiò, che i guelfi toscani avevano scelto come loro guida. Il successore di Clemente V, Giovanni XXII (1313-1334) cercò di imporre a Milano la signoria di Roberto d’Angiò ma provocò la ribellione dei ghibellini lombardi e diede al successore di Enrico VII, Ludovico IV di Baviera (1313-1347), l’opportunità di tentare la restaurazione imperiale. Ludovico che non aveva ottenuto il riconoscimento papale alla sua nomina, ignorò la pretesa della curia di esaminare il suo diritto alla corona imperiale e l’interdizione ricevuta da papa Giovanni diede origine ad una contrapposizione che impegnò Ludovico per tutto il suo mandato. Ludovico ingatti marciò verso Roma e, per negare il diritto del papa all’approvazione della nomina imperiale e rompere con la tradizione medievale che voleva fosse il papa ad incoronare gli imperatori, depose papa Giovanni XXII e fece nominare un antipapa Nicolò V. Nel 1346 con l’appoggio di papa Benedetto XII (1334-1342) e del re di Francia venne eletto un anti-imperatore, Carlo IV di Lussemburgo (1347-1378) che evitò un problematico scontro con Ludovico IV per la sopraggiunta morte di questo. Carlo venne due volte in Italia senza lasciare segni di rilevanti interventi se non mercanteggiare la riscossione di ingenti versamenti con i Comuni che ricambiò con privilegi. L’iniziativa più significativa del suo governo fu l’emanazione della Bolla d’oro (1356) che regolava la procedura per l’elezione del re di Germania, riconoscendo a soli sette principi tedeschi (gli arcivescovi di Magonza, Colonia e Treviri, il re di Boemia, i duchi di Brandeburgo e Sassonia, il conte del Palatinato) la podestà di partecipare all’elezione senza che vi fosse la necessità dell’approvazione papale. Con questo, il papa  non ebbe più voce, se non per l’incoronazione (ultima quella di Carlo V, 1530).

Benché, secondo la Bolla, rimanesse ancora elettivo il titolo imperiale, questo divenne di fatto monopolio ereditario degli Asburgo d’Austria che, a parte il breve periodo 1742-1745, lo mantennero fino alla fine dell’impero (Francesco II d’Asburgo, nel 1806, proclamò la fine del Sacro Romano Impero, su imposizione di Napoleone a cui dovette dare i sposa a figlia Maria Luisa).

La Riforma protestante e la Controriforma avrebbero spezzato definitivamente l’unità religiosa dell’impero.

 

 

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