Dai Comuni alle Signorie* |
Introduzione -
Milano, da Comune a Ducato dei Visconti e degli Sforza - Firenze, dal Comune
alla Signoria Medici - La Repubblica di Venezia - Ducato degli Estensi a
Ferrara, Modena e Reggio - Signoria dei Gonzaga a Mantova - Signoria dei
Montefeltro e dei della Rovere ad Urbino - Signoria dei da Romano a Vicenza e
dei della Scala a Verona - Signoria dei da Polenta a Ravenna - Signoria dei
Malatesta a Rimini - Signoria dei da Carrara a Padova - Signoria degli Scotti a
Piacenza - La Repubblica di Genova - La Repubblica di Pisa
*(leggi: Dal Feudalesimo ai Comuni; stesso sito)
L’affermazione delle Corporazioni, che in ambito comunale
avevano assunto il predominio del potere economico e politico, aveva
consentito, attraverso una legislazione antimagnatizia, di emarginare i membri
delle più potenti famiglie (magnati). Alcuni di questi, rimasti in ambito
comunale, attesero il momento propizio in cui il conflitto sociale divenne
insostenibile per emergere e proporsi come l’elemento di riferimento idoneo a
ristabilire la pace rotta dalle proteste dei salariati e dalla contrapposizione
nobiliare. Essi assunsero allora cariche gestionali che riuscirono quindi a
mantenere per lungo tempo se non a vita.
Le prime forme di
potere signorile si affermarono nella seconda metà del XIII sec. allorché il
comune podestarile fu messo in crisi da Federico II che, al fine di
puntualizzare i diritti imperiali, convocò le Diete di Cremona (1226) e di
Ravenna (1231). Evento che destò la preoccupazione dei Comuni indotti a coalizzarsi in Lega (II Lega lombarda) per contrastare gli intenti di Federico II che,
per ritorsione, revocò i privilegi che il nonno Federico Barbarossa aveva
concesso con la pace di Costanza (1183). Il conflitto, in cui si inserì il
Papato in funzione antimperiale, determinò un
riacutizzarsi dei contrasti che all’interno delle città opponevano le varie
fazioni dell’aristocrazia militare e che avevano portato alla trasformazione
del comune consolare in comune podestarile. Tali contrasti finirono
con il determinare, soprattutto dopo la vittoria di Federico II a Cortenuova (1237) sulle milizie leghiste, l’affermarsi sul
piano politico cittadino delle nuove famiglie dello schieramento imperiale, da
cui Federico scelse ed impose i nuovi podestà e capitani del popolo. Questi si
misero in contrapposizione con le città di fede guelfa in cui il podestà era di
istituzione pontificia con il risultato che, in ogni singola città, il podestà
si accanì contro la parte avversa che sovente fu costretta all’esilio.
Alla metà del XIII
sec., dopo la scomparsa di un forte accentratore del potere imperiale quale era
Federico II, si era creata, nel Settentrione d’Italia, la possibilità di
pervenire alla costituzione di uno Stato unitario. Progetto che fu ostacolato
dalla particolarità del potere comunale che, malgrado gli emergenti conflitti
interni non sedati dalla gestione podestarile, si rivelò incapace di evolvere verso forme più avanzate di
organizzazione. Infatti la esclusione dai diritti politici della popolazione
del contado, le rivalità fra le organizzazioni artigianali e le proteste dei
salariati crearono all’interno dei comuni una situazione caotica che si
trasformò in anarchica allorché i magnati estromessi dal potere, anziché
coalizzarsi, entrarono in conflitto fra loro per contendersi la possibilità di
assunzione del potere.
E’ in questo contesto
che incominciarono a sorgere le prime esperienze signorili determinate dalla
tendenza di prolungare a vita le cariche comunali ed a rendere ereditario
l’esercizio del potere. Infatti nella situazione di disordine venutasi a creare
in diverse realtà comunali verso la fine del XIII sec. ed ancor più aggravatasi
alla metà del XIV sec. a seguito del calo demografico causato dalla epidemia di
peste (1348) e della conseguente crisi economica, i Podestà o i Capitani del
popolo, rispondendo alla generale richiesta di ordine, con svariate
strategie riuscirono ad assumere i pieni poteri trasformando, talvolta, da
temporanea a permanente la loro carica di dominus
civitatis. L’azione avviata dai Podestà, pur se
consentì l’attenuarsi della conflittualità, non sempre riuscì a riportare
quell’ordine necessario a consentire lo sviluppo delle attività. E quando si
manifestò l’incapacità dei Podestà a sanare i contrasti cittadini ed i
conflitti tra le famiglie magnatizie più rappresentative, si verificarono le
condizioni per la ricerca di un nuovo equilibrio. E’ in questo contesto che
maturò l’esito di affidare, da parte dei consigli municipali, il potere
politico ad un signore appartenente
alle forze propulsive della città, colto, avveduto, carismatico e dotato di
tale credito da indirizzare le scelte politico-sociali pur mantenendosi
all’esterno delle istituzioni. Egli assunse quindi un potere incondizionato (arbitrium)
attraverso un atto di imperio personale o per designazione dell’’imperatore o
del pontefice, ponendosi come riferimento all’interno ed all’esterno della
comunità cittadina: all’interno come garante di pace e buona amministrazione
legittimato quindi dal consenso popolare ed, all’esterno, come antagonista
delle forze agenti sul territorio.
Con l’istituzione del
regime signorile che si fondò sulla
discrezionalità delle scelte di un solo individuo, sovente designato a vita, si realizzò una trasformazione delle
istituzioni cittadine che vennero ad assumere i caratteri di una dittatura
personale il cui fine di riportare ordine fu sovente ispirato all’assolutismo e
sorretto da un arbitrio che travolse gli ideali caratterizzanti l’esperienza
del comune. Il quale era invece fondato
sulla partecipazione dei cittadini alla discussione pubblica e sul principio
dell’alternanza la cui fonte d’autorità era legittimata dalla volontà del
popolo, concepita dai contemporanei come atto di libertà.
Nel periodo XIII-XIV
sec. le due forme di governo, quello comunale
e quello signorile, anche nella
stessa realtà, si alternarono in funzione della necessità e delle circostanze
locali, per cui non è generalizzabile il concetto che la signoria abbia
rappresentato l’esito agevolato dalla crisi dell’esperienza comunale in quanto
vi furono situazioni in cui l’istituzione comunale seguì quella signorile (es.
istituzione del comune a Verona dopo
la signoria dei da Romano).
Il passaggio tra
queste diverse esperienze politiche, da comune
a signoria, si attuò attraverso una
serie di diverse situazioni governate da eventi complicati ed avventurosi,
corredati da rimescolamenti fra fazioni e da colpi di scena. Le modalità
attraverso cui esso si realizzò possono essere riassunte nei casi in cui la
città:
-
trovò al suo interno il signore capace di svolgere un ruolo di garante del
programma politico popolare come si verificò a Verona, Piacenza, Ravenna e
Padova rispettivamente con i della Scala, gli Scotti, i da Polenta ed i da
Carrara;
-
affidò la gestione ad un signore forte in armi e sorretto da sostegni politici
esterni come si verificò per gli Estensi a Ferrara, Modena e Reggio;
-
affidò la gestione ad un potente che godeva del consenso di gruppi sociali o di
fazioni come avvenne a Milano con il vescovo Giovanni Visconti;
-
affidò la gestione ad un potente esterno senza rinunciare alla propria
autonomia come il caso di varie città ghibelline della Toscana (tra cui la
stessa Firenze), del Piemonte e dell’Emilia che si sottomisero spontaneamente
all’egemonia del sovrano guelfo Carlo D’Angiò il quale si adattò a modellare la
sua azione a favore degli interessi politici e sociali delle varie città;
-
veniva egemonizzata da un potente investito dall’imperatore,senza ricevere
alcun riconoscimento istituzionale, come i da Romano nella Marca trevigiana;
-
mantenne caratteristiche repubblicane, come a Venezia, Pisa, Genova, pur se il
potere oligarchico dei gruppi dirigenti si intrecciò con governi personali.
Nel XIV sec. si
verificò la legittimazione imperiale di molte signorie attraverso la
concessione del titolo vicariale (vicario dell’impero nell’ambito territoriale)
che contribuì a mutare non solo la qualità del potere ma anche quella del
rapporto territorio-impero. Infatti per un verso il signore veniva dotato di
prerogative che, pur se di fatto preesistevano alla concessione, gli
consentivano di svincolare l’esercizio del suo potere dai condizionamenti della
politica cittadina e, per l’altro verso, all’imperatore veniva riconosciuta la
sua autorità sul territorio. Il processo di legittimazione imperiale fu il
presupposto del rafforzamento di molte dinastie che, così, non sentirono più la
necessità di interpretare gli interessi delle cittadinanze per consolidare il
loro potere. La qualcosa causò uno sfilacciamento dei rapporti tra signore e
comunità cittadina che fu all’origine dei cambiamenti strutturali quali lo
svuotamento dell’istituzione consiliare e la creazione di organi ristretti
indirizzati dalla sola volontà del signore che poté così isolarsi in cittadelle
e castelli interni alle mura, simbolica espressione del distacco dalla comunità
cittadina. Alcuni signori, come gli Ezzelino, si
macchiarono di comportamenti crudeli, altri, come Galeazzo Visconti, vennero
accusati di abuso di potere per aver applicato un regime dispotico, al punto da
venire definiti tiranni.
Il distacco venutosi
a creare tra signore e tessuto sociale può spiegare la ragione per cui, dalla
metà del XIV sec., i signori, alla ricerca di nuove fonti di legittimazione di
un potere non sempre solido e condiviso, investirono in cultura ed arte, al
fine di recuperare consenso ed organizzare un ritorno di immagine. Si
moltiplicarono così le iniziative signorili nell’ambito dell’architettura,
della pittura, della creazione di infrastrutture urbane e della
rappresentatività per proiettare anche verso l’esterno una immagine munifica
che potesse competere con le alte cariche politiche e religiose.
Da sottolineare che
le signorie di cui si è descritta
l’evoluzione della loro istituzione a partire dai comuni vanno identificate come cittadine,
per distinguerle da quelle territoriali di
origine feudale dell’Italia nordoccidentale.
Nell’Italia
nordoccidentale emersero, come signoria o Stato feudale, il marchesato del
Monferrato e la contea di Savoia. Il marchesato, costituitosi dal dissolvimento
della marca aleramica, fu governato da un ramo
dell’ultima dinastia imperiale bizantina, la famiglia dei Paleologi prima che l’imperatore Carlo V lo assegnasse
ai Gonzaga di Mantova (1559). La contea della dinastia Savoia, nata con Umberto
I Biancamano (XI sec.) vassallo di re Rodolfo III di
Borgogna, estese i suoi domini su un insieme di territori transalpini,
scontrandosi nella sua politica di espansione con il blocco dei domini
svizzero-germanici e con la monarchia francese che li spinse verso i territori
padani dove trovarono la resistenza della signoria lombarda.
Nell’Italia
nordorientale le prime signorie cittadine si affermarono in Veneto con quella
dei da Romano a Vicenza, degli Estensi a Ferrara, dei dalla Scala a Verona e
dei da Carrara a Padova. Quindi, tra le altre più importanti, quella dei
Visconti a Milano, dei Gonzaga a Mantova, dei Malatesta a Rimini, dei
Montefeltro ad Urbino, dei da Polenta a Ravenna. In Emilia e Toscana i regimi
popolari mostrarono invece una tenuta maggiore.
Lo Stato della Chiesa
si era già consolidato nel XIII sec. ed, estendendosi verso la Marca
anconetana, il Ducato di Spoleto e la Romagna, aveva assunto una configurazione
che manterrà fino al 1860.
Espansione
territoriale delle signorie all’inizio del XV sec.
Verranno di seguito
illustrate le più significative esperienze che, per i caratteri distintivi di
ciascuna, sono quella di Milano in cui si creò una signoria dai caratteri
emblematici, quella di Firenze dove si installò una signoria in cui
sopravvissero le istituzioni repubblicane (signoria camuffata) e quella di
Venezia dove, malgrado si fosse verificato un mutamento di tendenza
oligarchica, non venne abbandonata l’esperienza repubblicana poiché i mercanti
che gestirono il governo si fecero carico dei problemi del popolo. Queste tre
grandi città, Milano, Firenze e Venezia, furono quelle che, nel momento in cui
si diedero una solida struttura sociale capace di sostenere la loro
intraprendenza in politica estera e di organizzare una consistente copertura
militare, riuscirono a costituire una formazione territoriale ragguardevole (e
Venezia anche un ampio corredo coloniale) ma non tale da potersi confrontare
con le grandi monarchie europee del tempo.
Delle altre signorie
sopra citate e delle Repubbliche di Genova e di Pisa verrà tracciato un
sintetico profilo.
Milano, da Comune a Ducato dei Visconti e degli Sforza |
“Testone”
di Milano; anno ca. 1470
Dal periodo di
dominio dei Franchi (774) che vi posero la sede imperiale, Milano si avviò a
divenire il centro più importante della regione lombarda dove si diffuse il
feudalesimo e gli ecclesiastici, con i privilegi riconosciuti, assunsero il
potere di giurisdizione. Con la disgregazione dell’impero carolingio e la
deposizione di Carlo il Grosso (887), i poteri politici furono ereditati dai
feudatari ed, in città, dai vescovi che,
assumendosi il privilegio-onere di subentrare all’amministrazione
carolingia, si assicurarono, di fatto, un potere riconosciuto, talvolta, dai
feudatari ed, a partire dal X sec., dagli stessi imperatori. Fase in cui,
accanto allo sviluppo dei commerci con le nazioni limitrofe, si costituì il
libero Comune di Milano.
Nel XII sec., in
seguito all’incremento della popolazione ed allo sviluppo della sua economia,
Milano era divenuto il più potente comune della valle padana, tale da porsi in
diretto conflitto con l’imperatore Federico I Barbarossa (1122-1190) allorché
questi, nella dieta di Roncaglia del 1154, aveva
inteso recuperare i diritti imperiali (iura regalia) che
il Comune si era arrogato. Dopo aver ribadito i suoi diritti nella successiva
dieta di Roncaglia del 1158, il Barbarossa si
apprestò (1161) a sottomettere Milano, assediata per un anno prima che venisse
distrutta, i suoi abitanti dispersi e raggruppati in quattro borghi sotto il
comando di vicari imperiali. I milanesi dispersi si unirono agli abitanti degli
altri centri lombardi e veneti nella costituzione della I Lega lombarda
(Pontida, 1167) prima di dare inizio alla ricostruzione di Milano ed a
predisporsi ad infliggere all’imperatore una pesante sconfitta a Legnano
(maggio 1176). Con la pace di Costanza (1183) ai comuni venne riconosciuta autonomia amministrativa, politica e
giudiziaria sotto forma di privilegio imperiale ed a fronte del versamento di
una tantum e di un tributo annuo. Da
allora in poi il contrasto si spostò all’interno delle mura e contrappose i
ceti borghesi ai nobili che si costituirono rispettivamente in Commune populi e Commune militum. Nel
tentativo di superare i contrasti si stabilì (1186 ) di affidare le funzioni
amministrative ad un podestà, scelto al di fuori della città, che non sempre
riuscì a dominare il circolo vizioso delle rivalità e delle vendette.
Con l’elezione a capitano del popolo di Pagano della
Torre (1241), iniziò l’egemonia della famiglia della Torre (i Torriani) che si
protrarrà fino al 1311 (Guido della Torre) alternandosi con quella con cui era
entrata in conflitto, la famiglia Visconti (originaria di Massino
sul lago Maggiore dove i suoi membri, vice
comites: vice
conti, erano vassalli arcivescovili).
Nel 1256
l’arcivescovo Leone da Perego, capo dei nobili, tentò di formare un governo
aristocratico, escludendo dalla politica cittadina il popolo che reagì dando
avvio a contrasti che culminarono con l’assassinio di un popolano. Sotto la
guida di Martino della Torre, il Commune populi (di estrazione guelfa) insorse, costringendo
l’arcivescovo ed i capi della nobiltà a lasciare la città (1257) ed a riparare
a Castelseprio. Le milizie nobiliari del Commune militum (di
estrazione ghibellina) si organizzarono e respinsero i popolani che, approntato
il carroccio (simbolo del potere
comunale) si prepararono allo scontro. Scontro evitato dalla Chiesa con
l’attivazione di una strategia diplomatica che consentì ai rappresentanti dei
nobili e del popolo di convenire una tregua (Parabiago)
e quindi di siglare la pace di S. Ambrogio (agosto 1258). L’anno successivo
Martino della Torre tentò di instaurare un regime popolare in cui, qualche anno
dopo (1265) con Napoleone della Torre, si manifestarono tendenze assolutistiche
alla cui contrapposizione si pose la fazione nobiliare. Questa, sconfitta,
venne bandita dalla città (1274) e, sotto la guida del vescovo Ottone Visconti
e con il sostegno del popolo divenuto insofferente verso i della Torre
responsabili dell’aumento delle tasse, riuscì a sconfiggere a Desio (1277) i
seguaci di Napoleone della Torre e ad assumere, di fatto, il controllo della
città. Qui il potere, pur concentrato nelle mani di Ottone Visconti, non
assunse la veste giuridica di signoria ma, fondandosi sulla dignità della carica
e sulla sua capacità di coordinare la vita politica della città, diede ad
Ottone la possibilità di porre le basi per l’affermazione dinastica della sua
famiglia. A Milano, tuttavia, anziché un periodo di maggiore tranquillità se ne
avviò uno di contrapposizioni che si concluse con l’affermazione di Matteo
Visconti. Questi, designato alla successione da Ottone e nominato capitano del popolo (1289), governò in
qualità di vicario generale per la
Lombardia dell’imperatore Enrico VII di Lussemburgo (1308-1313) e si
assicurò il controllo di Como, Novara e Pavia.
A Matteo successe il figlio Galeazzo I e
quindi il nipote Azzone Visconti (1302-1339) che, nel
1330, divenne signore della città (dominus generalis)
e, fronteggiando abilmente sia le vicende amministrative interne che quelle di
successione dell’ambito famigliare (1339, battaglia di Parabiago
contro lo zio Lodrisio), superò definitivamente
l’esperienza comunale per dare avvio alla formazione, espansione e
consolidamento di uno Stato regionale che dalla Lombardia si estendeva fino a
comprendere parti del Piemonte, Emilia, Svizzera e Liguria. Periodo in cui
Milano, favorita dalla costruzione di una efficiente rete di canali navigabili
e da floride reti commerciali, sviluppò le sue attività imprenditoriali nell’ambito
della metallurgia e dell’industria tessile, dell’agricoltura e della zootecnia,
divenendo una delle più fiorenti città d’Europa (100.000 abitanti). La
trasformazione dello Stato regionale in uno Stato ”patrimonio privato di una
famiglia” avvenne alla morte di Luchino (1339-1349) allorché il Consiglio
generale ne proclamò l’ereditarietà a favore del fratello Giovanni (1349-1354).
Con Gian Galeazzo
Visconti (1347-1402), signore dal 1378, lo Stato si trasformò in Ducato (1395)
per concessione dell’imperatore SRI Venceslao di
Lussemburgo (1378-1400), a fronte del pagamento di 100.000 fiorini. Gian
Galeazzo governò con sagacia uno Stato che, ritenuto patrimonio privato, dotò
di strutture avanzate e condusse al culmine della espansione acquisendo territori
in Veneto, Toscana ed Umbria. Alla morte di Gian Galeazzo, Milano era diventata
una città di rango e dimensioni europee, trafficata di commerci e ricca di ogni
genere di merci e di eventi. Il Ducato venne ereditato dai figli Giovanni Maria
(morto nel 1412) e Filippo Maria (1392-1447) responsabile della perdita di
parte delle province e di un ridimensionamento che lo ridusse alla sola regione
lombarda.
Filippo Maria aveva
avuto (1425) un’unica figlia, Bianca Maria, che promise in sposa al capo delle
milizie entrate in quell’anno alle sue dipendenze, Francesco Sforza
(1401-1466), figlio illegittimo del soldato di ventura Muzio Attendolo Sforza da cui ereditò prestigio militare e
politico divenendo uno dei maggiori condottieri del tempo. Fin dall’inizio i rapporti
fra Filippo Maria e Francesco Sforza furono tempestosi e, benché il duca
apprezzasse i servigi e le vittorie ottenute da Francesco per suo conto, lo
relegò per qualche tempo a Mortara coll’intento di limitarne la forte
personalità. Francesco Sforza sposò in seconde nozze Bianca Maria Visconti
(1441) ed alla morte del Duca (1447), in mancanza di eredi maschi, si
scatenarono rivalse ed una guerra di successione. In quell’occasione il popolo
chiese la diminuzione delle tasse e le città suddite approfittarono della
vacanza di potere per acquisire la libertà. Venezia occupò Piacenza e Lodi ed
il patriziato di Milano colse l’occasione per istituire l’Aurea Repubblica Ambrosiana, prima che Francesco Sforza,
pretendendo diritti di successione, ponesse sotto assedio Milano che conquistò
nel 1450. Il suo governo si mostrò efficiente ed innovativo facendo della città
un centro artistico e culturale che si tradusse in vasto consenso popolare.
Creò anche un efficiente sistema fiscale che aumentò il gettito ma non fu
altrettanto abile nel gestirlo.
A Francesco successe
il figlio Galeazzo Maria (1444-1476) a cui si deve l’introduzione di una nuova
moneta (il testone d’argento, per la
presenza della sua immagine) che segnò il passaggio dalla monetazione medievale
a quella rinascimentale. Dissoluto e dilapidatore di immensi tesori, inviso sia
alla nobiltà che al popolo per le sue maniere scostanti, si creò molte
inimicizie e risentimenti che causarono il suo assassinio ad opera di nobili
milanesi. Gli sarebbe dovuto succedere il figlio di sette anni Gian Galeazzo
(1439-1494) la cui reggenza fu assunta dalla madre Bona di Savoia. Soluzione a
cui si oppose il fratello minore di Galeazzo Maria, Ludovico il Moro
(1452-1508) il quale, dopo qualche tentativo infruttuoso, riuscì ad
estromettere Bona e ad assumere la reggenza per conto del nipote Gian Galeazzo
che, formalmente titolare del Ducato, sposò Isabella figlia di Alfonso II di
Napoli. Ludovico tentò di intrattenere rapporti di solidarietà con la corte di
Napoli ma allorché si vide rimproverare l’emarginazione a cui aveva costretto
Gian Galeazzo, ritenne più conveniente legarsi al re di Francia, Carlo VIII
(1483-1498), desideroso di conquistare il regno di Napoli su cui riteneva di
vantare diritti per via della sua discendenza dai d’Angiò. Alla morte di Gian
Galeazzo, Ludovico ottenne l’investitura sul Ducato da parte dell’imperatore
Massimiliano I d’Asburgo (1493-1519). Carlo VIII per perseguire il suo
obiettivo rivolto al regno di Napoli, scese in Italia, accolto ad Asti da
Ludovico il Moro, e l’attraversò installandosi a Napoli (1495), senza
incontrare resistenza da parte dei principi italiani che, timorosi di
scontrarsi con la potenza francese ma consapevoli del pericolo che essa
rappresentava, si coalizzarono sorretti dall’imperatore Massimiliano I e da
Ferdinando II d’Aragona “il Cattolico”. Carlo VIII incalzato dallo sbarco di un
contingente spagnolo nel Meridione d’Italia, risalì la penisola e, dopo uno
scontro dall’esito incerto con la coalizione italiana, si fortificò a Novara.
Qui lo raggiunse Ludovico il Moro che, pur avendo fatto parte della coalizione
antifrancese, scelse di stipulare una pace separata in cambio del recupero di
Novara. Con Luigi XII, cugino successore di Carlo VIII sul trono di Francia
(1498-1515), non si sopirono i diritti sul regno di Napoli (riconquistato nel
1501). Anzi, egli, rifacendosi ai diritti ereditari derivanti dalla nonna Valentina Visconti, intese
conquistare anche il Ducato di Milano. E dopo aver patteggiato il consenso
della Repubblica di Venezia e del Papa, intraprese un’azione che condusse alla
capitolazione del Ducato ed alla cattura di Ludovico il Moro (1500). Ludovico
aveva svolto una azione di governo di ampia portata nella promozione e nello
sviluppo delle attività di uno Stato regionale quale era il Ducato il cui peso
politico, militare ed economico restava tuttavia inconsistente se rapportato a
quello delle grandi monarchie.
Il Ducato di Milano
perse così l’indipendenza e resterà sotto dominazione straniera per 360 anni. Luigi
XII resse il Ducato di Milano fino al 1512 allorché gli Svizzeri (partecipanti
alla Lega Santa costituita da papa Giulio II con gli Asburgo, Venezia e Spagna)
gli sottrassero il controllo affidandolo al figlio di Ludovico, Massimiliano.
Nel 1515 i Francesi, con Carlo di Valois ripresero il
controllo del Ducato fino alla conquista da parte delle truppe mercenarie dei
Lanzichenecchi dell’imperatore Carlo V (1521) che, sotto il controllo di un
governatore spagnolo, affidò la reggenza del ducato al fratello di
Massimiliano, Francesco II (ultimo degli Sforza). Con la pace di Utrecht (1713)
il Ducato di Milano passò dagli Spagnoli agli Asburgo d’Austria che lo
mantennero fino al 1860.
Nel periodo della
Signoria Sforza si registrò, anche ad opera di Galeazzo Maria figlio di
Francesco, lo sviluppo dell’industria tessile (coltivazione e lavorazione della
seta), la funzionalità dei navigli (Leonardo da Vinci), la ristrutturazione del
Castello sforzesco (già esistente in epoca viscontea), la costruzione dell’ospedale
Maggiore, la realizzazione di numerose opere di rilevanza artistica (il
Cenacolo di L. da Vinci, il Cristo alla colonna ed incisioni del
Bramante).
Gli Sforza condussero
anche azioni espansive verso sud ed est, venendo in scontrasto
rispettivamente con la Signoria dei
Medici e con la Repubblica di Venezia.
Firenze, dal Comune alla Signoria Medici |
Averardo dei Medici
All’inizio del XII
sec., a seguito della morte della contessa Matilde di Canossa (1115) che
governava con equilibrio e moderazione un vasto dominio comprendente parti
della Toscana, dell’Emilia e della Lombardia,
venne a mancare la funzione mediatrice (margraviato)
tra Impero ed interessi regionali, consentendo a diverse realtà comunali di
costituirsi in struttura autonoma. Così Firenze, pur avendo avviato fin dal 1125 la sua espansione con la
conquista e la distruzione di Fiesole, successivamente a Lucca, Pisa e Siena,
abbracciò la forma di Comune amministrato
da consoli (1134). Evento che innescò
una notevole crescita della città favorita dall’insediamento di mercanti ed
artigiani provenienti dal contado, in misura tale da obbligare (1172) alla
costruzione di nuove mura che inglobassero i recenti sobborghi che, sorti sulla
riva sinistra dell’Arno, avevano triplicato le dimensioni dell’agglomerato
urbano.
Lo sviluppo,
derivante dall’affermazione dell’industria tessile collegata alla forte
espansione di un commercio inserito nel circuito degli scambi europei e con la
nascita delle banche, fece emergere nuovi ceti sociali. Il Comune, una volta
consolidatosi all’interno, cercò di espandersi verso il contado assoggettando i
feudatari che, pur se si difesero con determinazione, dovettero subire
l’imposizione di risiedere all’interno delle mura dove, asserragliati in
palazzi fortificati e caratterizzati da alte torri, entrarono in conflitto con
la nascente borghesia manifatturiera, mercantile e bancaria.
Con l’ampliamento del
territorio controllato, Firenze divenne una potenza regionale in grado di
guardare ad orizzonti più vasti. In tale logica, si prestò a sostenere Pisa
(1171) in difficoltà nella sua contrapposizione con Genova e con l’imperatore
Barbarossa, a fronte di sostanziali concessioni nell’ambito del trasporto delle
merci e di una percentuale sulle rendite della zecca pisana. Mentre Lucca e
Siena rimasero schierate sul fronte opposto e, timorose della crescita di
Firenze, continuarono a contrastarne l’espansione.
Negli ultimi decenni
del XII sec. la crescita della popolazione aveva creato differenze sociali che
incoraggiarono il tentativo della famiglia Uberti
(1177), schierata a favore dell’Impero (ghibellini),
ad assumere a nome di questi l’iniziativa di contrapporsi ai gruppi di famiglie
nobili (consorterie) fedeli al Papa (guelfi) e detentrici del potere. La
violenta contrapposizione si protrasse per tre anni prima che si costituissero
(1182) le Corporazioni delle Arti e mestieri. Queste, in cui si
inserirono le classi emergenti, si mostrarono
determinati ad intervenire nella gestione amministrativa fino ad allora
riservata agli ecclesiastici ed ai ceti nobiliari. Occasione per il superamento
dell’esperienza consolare (comune
consolare) ed affidarsi al Podestà (1193), un amministratore scelto
all’esterno che avesse dignità cavalleresca, abilità militare e conoscenza giuridica
e, a garanzia di imparzialità, estraneo alle contese cittadine. Caratteristiche
che inevitabilmente indirizzarono la scelta verso personaggi appartenenti a
quella classe nobiliare che si voleva estromettere dal potere. Il podestà,
affiancato da un consiglio oligarchico ristretto e da uno collegiale del quale
facevano parte i capitani delle Arti,
attraverso il controllo dei nodi stradali ed il transito delle merci, consolidò
il dominio della città sul contado, da cui si mosse verso la città una
moltitudine di popolo attratto dalla offerta di lavoro che lo sviluppo delle
attività produttive garantiva. Esso si insediò in borghi fatiscenti all’esterno
delle mura, presto raggiunto e sostenuto, con finalità educative contrapposte,
sia dall’opera dei Frati dell’Ordine dei Mendicanti che da quella dei movimenti
eretici (Catari).
Il XIII sec. fu
caratterizzato dalla divisione che, nella città, opponeva la fazione ghibellina
guidata dalle famiglie Uberti, Amidei
e Lamberti da quella guelfa in cui si riconoscevano le famiglie Buondelmonti,
Pazzi e Donati. Le due fazioni, allorché l’imperatore Federico II impose come
potestà (1246) il figlio naturale Federico d’Antiochia
(sorretto da 1600 cavalieri) che in appoggio alla fazione ghibellina si fece
affiancare da rappresentanti del popolo, iniziarono a contrastarsi apertamente.
La contrapposizione si concluse con la cacciata dalla città dei guelfi (1248)
che stabilirono più stretti rapporti con la sede pontificia e, quando la stella
di Federico II si offuscò a seguito della sconfitta a Fossalta
(1249), riuscirono a sconfiggere le milizie ghibelline in una imboscata a Figline Valdarno (1250). L’azione innescò una sollevazione
di popolo che, preso dai suoi bisogni piuttosto che dalle dispute che
dividevano i ghibellini dai guelfi, riuscì a mandar via Federico d’Antiochia e le famiglie che lo sostenevano. Si venne così
ad istituire una nuova forma bilanciata di governo: da una parte il Comune retto dal Podestà affiancato da
due consigli, dall’altra parte il Popolo
(Governo del Primo Popolo)
rappresentato da un Capitano del popolo
affiancato da due consigli (uno rappresentante del territorio e l’altro delle
Arti). Il Comune ratificava le leggi proposte dal Governo del popolo che
assumeva anche il potere esecutivo.
Nei decenni
successivi, mentre le attività economiche e commerciali si sviluppavano al
punto che la prima moneta d’oro coniata in Occidente, il fiorino, veniva utilizzata in Europa e nell’area mediterranea per
le più importanti transazioni, giunse alle strette la contrapposizione delle
fazioni guelfa e ghibellina su cui si riflettevano le vicende politiche del
resto d’Italia. Infatti, con il sostegno del re di Sicilia, Manfredi di Svevia
(fratellastro di Federico d’Antiochia), simbolo e
riferimento della fazione antipapale, i ghibellini riuscirono, con l’appoggio
di 600 cavalieri tedeschi inviati da Manfredi, a sconfiggere i guelfi nella
battaglia di Montaperti (1260) ed a riprendere il
controllo di Firenze. I guelfi furono esiliati subendo ritorsioni di ogni
genere. Nella successiva dieta di Empoli, ove si riunirono i vincitori
ghibellini per decidere la sorte degli esponenti guelfi e della città di
Firenze, Farinata degli Uberti, il nobile ed
influente capo della consorteria ghibellina fin dal 1239, insorse a difesa
della città contro la proposta avanzata dagli inviati di Pisa e di Siena di
radere al suolo Firenze, a modello di quanto aveva fatto Federico Barbarossa
con l’antimperiale Milano dopo averla conquistata
(1162). La scomunica del papa si abbatte sui ghibellini di Firenze con un
anatema che, sollevando i cittadini dal pagare i debiti ai creditori
scomunicati, alterava la lealtà nei commerci. Uno stato di cose che si
protrasse per poco perché, con la sconfitta di Manfredi nella battaglia di
Benevento (1266) da parte di Carlo d’Angiò chiamato in Italia da papa Urbano IV
al fine di contrastare il potere ghibellino, si realizzava il tramonto della
potenza sveva in Italia ed il definitivo rientro dei guelfi a Firenze, dopo che
una sollevazione popolare aveva provveduto a cacciare i ghibellini. A seguito
di tali eventi si instaurò un governo guelfo che nominò podestà Carlo d’Angiò
(1267), già distintosi per il suo fervore antighibellino con la decapitazione
del fratello di Farinata catturato a Benevento. I ghibellini, pur esiliati, non
furono completamente sconfitti e, per contrapporsi alla fazione guelfa
detentrice del potere, lentamente rientrarono in città spinti dal
ridimensionamento che Carlo d’Angiò aveva subito con la sua cacciata dalla
Sicilia (Vespri Siciliani) e dal
conseguente insediamento di Pietro III d’Aragona, divenuto il principale
rappresentante della tradizione ghibellina antipapale. Il popolo, sostenuto
dalla fazione guelfa, vide l’occasione per intromettersi nelle contrapposizioni
aristocratiche e sostenne la Confederazione delle Arti nel costituire un
governo (1282) che venne affidato ad un collegio di sei Priori scelti dalle
Arti (solo gli iscritti erano cittadini con diritto di voto, circa il 5% della
popolazione) in rappresentanza delle sei ripartizioni della città e
nell’inserire suoi esponenti nel consiglio del Podestà (metà provenienti dalle
Arti maggiori e metà dalle Arti minori i cui componenti erano molto più numerosi).
Questa forma di governo, oltre a consolidare l’aristocrazia guelfa che riuscì a
sconfiggere la fazione ghibellina di Arezzo (Campaldino;
1289), si rafforzò ad opera del priore Giano della Bella (di famiglia
ghibellina, divenuto guelfo e sostenitore dei ceti più poveri) che riuscì a far
promulgare gli Ordinamenti di giustizia
(1293) che legavano l’amministrazione della città alle Arti (da cui, e fino al
1343, erano ancora esclusi salariati e braccianti), escludevano i magnati dalle
cariche pubbliche a favore del nascente ceto borghese e creavano una nuova
magistratura, il Gonfaloniere di
giustizia, col compito di far applicare le leggi. Ma la fazione nobiliare
soccombente non tardò, con l’aiuto del pontefice Bonifacio VIII (1294-1303) ad
emarginare Giano della Bella che fu costretto all’esilio dal convergere
d’interessi che si venne a creare tra nobiltà guelfa e popolo, bisognoso di
sviluppare rapporti commerciali con le nazioni sostenitrici del Papato. Ma gli
ordinamenti di giustizia introdotti, benché alcuni a carattere più
spiccatamente antimagnatizio fossero stati attenuati, mantennero la loro
impostazione originale pur se venne modificata l’accezione di “magnate”, inteso
non più come detentore di sostanze e potere ma come oppositore della supremazia
del popolo nel governo della Repubblica cittadina.
Si prevedeva un
periodo di pace ma, sul finire del secolo la fazione guelfa si divise in guelfi bianchi e guelfi neri (denominazione nata dalla divisione fra i figli di
primo e secondo letto della famiglia Cancellieri di Pistoia, con riferimento al
colore dei capelli, “bianchi” quelli di primo letto, i più anziani) che provocò
un più marcato orientamento del Comune in senso popolare. I guelfi bianchi,
guidati dalla famiglia Cerchi, pur sostenendo il pontefice, non escludevano
l’eventualità del ritorno dell’imperatore mentre i guelfi neri guidati da Corso
Donati ritenevano che l’unico affidatario del potere potesse essere soltanto il
Papa, missus dominici
(mandato dal Signore). I due schieramenti nacquero a seguito di contrasti
familiari in quanto i Cerchi, mercanti di recente ricchezza, avevano comprato
abitazioni situate accanto a quelle dei Donati provocando una serie di dissidi
dettati dalla convivenza. La rivalità fra queste fazioni divenne il centro
della via politica della città e si concluse con la cacciata dei guelfi
bianchi. Evento che non concluse le controversie in quanto i guelfi neri
guidati da Corso Donati (donateschi)
si divisero da quelli guidati da Rosso della Tosa (tosinghi). L’uccisione di Donati
(1307) e la cacciata dei suoi seguaci procurò un periodo di temporanea pace in
città.
AlI’inizio del XIV sec.
Firenze che si avviava a rivenire la capitale di uno Stato regionale segnò
nuovi progressi in campo artistico ed economico. L'arte fiorentina vide il
completamento dei grandi cantieri aperti nel secolo precedente (Cattedrale di S.Maria del Fiore, Palazzo dei Priori e la cerchia muraria)
e l’avvio di nuove opere come il Campanile di Giotto, il rivestimento del
Battistero, la Loggia della Signoria, la
Loggia del Bigallo, oltre a palazzi, chiese e ponti
sull’Arno. Nello stesso periodo si avviava il rinnovamento della letteratura (dolce stil nuovo)
e della pittura (Cimabue e Giotto). In campo economico si registrò uno sviluppo
nel commercio delle manifatture laniere e nelle attività bancarie, che
elargivano prestiti a papi e re. Questi due filoni di attività si sostenevano a
vicenda generando un circolo virtuoso che produceva straordinarie ricchezze ed
espansione verso l’esterno con la conquista di Pistoia (1331), Arezzo (1337) e
Colle di Val d’Elsa (1338). La crescita si interruppe
quando, a causa della guerra dei cento anni (di successione e predominio
territoriale tra Inghilterra e Francia, 1337-1453) si registrò l’insolvenza del
re Edoardo III d’Inghilterra nei riguardi di molte delle ottanta banche
fiorentine che gli avevano prestato ingenti somme di denaro, si ebbero una
lunga serie di fallimenti che coinvolse le classi più esposte e le grandi
famiglie. Solo poche delle banche coinvolte riuscirono ad evitare il crollo
convertendo in tempo i loro beni. La crisi economica ebbe il suo epicentro con
la paralisi delle attività conseguente all’epidemia di peste nera (1348) che
ridusse circa alla metà (50.000) la popolazione fiorentina.
In campo politico il
comune popolare sopravvisse e, per il superamento della crisi, si decise di
affidare il governo ad un nobile francese Gualtieri
di Brienne, (Duca d’Atene, 1342-43) che, ignorando
gli interessi della classe mercantile che gli aveva affidato il potere, impose
delle drastiche misure economiche correttive tese a rimediare al forte debito
pubblico ed intraprese una politica volta a costituirsi una base di promozione
personale. Motivo per cui i fiorentini si pentirono della scelta e lo
cacciarono. Subito dopo (1345) si verificò una sommossa guidata da Cinto Bandini, che organizzò uno sciopero nel tentativo di
associare i propri compagni di lavoro in una “fratellanza” che raccogliesse le
adesioni di operai e artigiani. Il tentativo falli ed egli stesso fu arrestato
e giustiziato.
Dopo la metà del XIV
sec. l’economia stagnante e la crisi demografica provocarono nella città
violente rivolte. Si costituì uno schieramento trasversale composto dal Popolo minuto e dalle famiglie arrivate
dal contado a colmare i vuoti lasciati dalla pestilenza che si oppose al Popolo grasso costituito dalle famiglie
benestanti. Questi due schieramenti reagirono compatti contro il tentativo dei
legati pontifici di condizionare Firenze (rifiuto di fornire grano da parte del
cardinale di Bologna, Guglielmo di Noellet), in vista
di una ricomposizione dello Stato Pontificio per il ritorno dei Papi da
Avignone (1377). La rivolta di Firenze contro gli apparati pontifici coinvolse
altre città ed indusse papa Gregorio XI (1370-1378) a scomunicare i fiorentini
dichiarando decaduto qualsiasi loro credito e ad avviare una ritorsione che si
materializzò con la cacciata da Avignone e la confisca dei beni di seicento di
loro. Con il nuovo papa, Urbano VI (1378-1389),
Firenze stabilì un accordo che prevedeva il versamento da parte dei fiorentini
di una penale in cambio della cancellazione dell’interdizione. Il Popolo minuto che aveva sostenuto la
rivolta contro il papa si schierò anche con gli operatori nell’Arte della lana
(ciompi) nella richiesta di salari
più elevati, condizioni di vita migliori e di uno stato giuridico, richieste
che per la prima volta venivano avanzate in Europa. I rivoltosi riuscirono a
fare eleggere Gonfaloniere di giustizia
il loro rappresentate Michele di Lando e ad ottenere che le loro richieste
venissero accolte (1378). Ma dopo appena un mese, Michele di Lando, incapace di
gestire una difficile situazione in cui si manifestavano all’interno della
stessa categoria divisioni fomentate dal popolo grasso su cui sarebbe caduto il
peso delle concessioni, strinse un accordo con una ristretta oligarchia di
mercanti e banchieri fiorentini, tra cui Silvestro de’ Medici, che, nel
reprimere duramente un nuovo tentativo di rivolta popolare, giunse all’annullamento
delle concessioni precedentemente concesse.
La maniera con cui si
concluse il tumulto dei ciompi fu
l’occasione per una ristretta oligarchia di famiglie di antica nobiltà
(Strozzi, Peruzzi, Castellani), tra cui primeggiavano
gli Albizzi, di installarsi sulle ceneri del regime
comunale, esauritosi nella instabilità e nelle violenze, per riappropriarsi del
potere gestionale (1382) e riportare la pace all’interno della città.
L’oligarchia di famiglie, forte del ritorno dell’economia ad un livello
fiorente, cercò di mantenere il potere per interposta persona, non disdegnando
la violenza per tenere al riparo i ricchi dalle riforme giustizialiste dei
poveri ed assicurando a Firenze un nuovo periodo di splendore simboleggiato
dall’avvio dei lavori per l’imponente cupola del Brunelleschi in S. Maria del
Fiore (1421). Contro l’oligarchia al potere non tardò a formarsi una coalizione
di famiglie emergenti (Portinari, Benci,
Tornabuoni) tra cui quella di Giovanni dei Medici
che, giunta dal contado nel secolo precedente, aveva avviato, con l’esattore Averardo, fortunate attività commerciali e fondato una
banca divenuta una delle più potenti d’Europa. Alla morte di Giovanni (1428)
che era diventato molto popolare per via di una tassa applicata ai ricchi, subentrò,
alla guida della famiglia, Cosimo “il Vecchio” (1389-1464) che, pur defilato
dalla diretta gestione, aveva utilizzato risorse e guida personali nella
contrapposizione con Lucca, sollevando negli Albizzi
sospetti sulle sue mire di potere. Nel 1433 fu nominato Gonfaloniere di Giustizia, Bernardo Guadagni, che, legato alla
famiglia Albizzi, sembra abbia operato per far
imprigionare Cosimo con l’accusa di cospirazione contro la città. Cosimo riuscì
a farsi derubricare la pena di morte in quella di esilio a Venezia (prima cacciata dei Medici da Firenze)
dove si recò lasciando però i suoi fedeli ben inseriti nei gangli
dell’amministrazione. Rinaldo degli Albizzi non ebbe
la capacità di gestire la nomina del Gonfaloniere
del 1434, anno in cui ne venne scelto uno legato ai Medici che fece rientrare
Cosimo dall’esilio. Cosimo il Vecchio, ricco, potente e dalla forte
personalità, cercò, senza assumere direttamente cariche ma manovrando
personaggi fidati che aveva inserito nelle istituzioni, di acquisire potere
politico, anche a tutela delle sue immense ricchezze. Sostenuto dalle
Corporazioni delle Arti, riuscì ad assumere un dominio gestionale che mantenne
per un trentennio (e la famiglia quasi ininterrottamente fino al 1734)
esercitando un ferreo controllo sulle scelte politiche senza il bisogno di
introdurre modifiche alle istituzioni vigenti. In tale scelta sta la
caratteristica che rende l’esperienza della famiglia Medici una Signoria mascherata dalle istituzioni
repubblicane. Cosimo, che aveva cullato il sogno di unificare l’Italia, si
accontentò di un accordo con Milano, Venezia e Napoli volto a contrastare le
incursioni straniere. Morì nel 1464.
Con il nipote di
Cosimo, Lorenzo “il Magnifico” (1449-1492), figlio di Piero “il Gottoso” che
mantenne l’autorità per pochi anni, la famiglia raggiunse il massimo prestigio
e consenso popolare, facendo di Firenze il centro delle attività culturali e
della politica italiana. Egli era stato addestrato e coltivato per la gestione
di un potere personale che, al di fuori di ogni carica, gestì per avviare il
processo di rinnovamento morale, culturale ed artistico che prese il nome di Umanesimo o Rinascimento. Egli subì l’attacco più grave nella storia della
famiglia, la Congiura dei Pazzi in cui perse la vita il fratello Giuliano ed
egli stesso venne ferito. La congiura fu organizzata allorché papa Sisto IV
(1471-1484) che, per nepotismo, aveva manifestato interessi ad impadronirsi dei
ricchi territori fiorentini e, in opposizione ai Medici, aveva spostato
l’amministrazione delle ingenti sostanze pontificie dalla banca dei Medici che
l’aveva ricevuta da papa Nicolò V (1655-1667) a quella della famiglia Pazzi, a
cui era stato riconosciuto anche lo sfruttamento delle miniere di allume della Tolfa. Lorenzo aspettò il momento favorevole per vendicarsi
dello smacco subito. La frattura fra le due famiglie uniti da vincoli di
parentela si rese evidente in occasione di reciproche ritorsioni. La congiura,
ordita da Jacopo e Francesco Pazzi e sostenuta dal Papa, mirava a liberarsi dai
Medici di cui era stata prevista la soppressione dei fratelli Lorenzo e
Giuliano nel corso di una funzione religiosa (aprile 1478). Giuliano venne
ucciso mentre Lorenzo, ferito, riuscì a sottrarsi. Il popolo, diversamente
dalle attese dei congiurati, si schierò completamente dalla parte di Lorenzo
punendo duramente i responsabili che furono catturati ed impiccati. Gli altri componenti la famiglia Pazzi
furono esiliati ed i beni confiscati. Lorenzo non intervenne a stemperare la
furia popolare ma colse l’opportunità
per limitare alcune libertà attraverso una riforma delle istituzioni che furono
maggiormente adeguate alla sua possibilità di gestione. Lorenzo,
diplomaticamente abile, riuscì a stabilire rapporti con gli altri governanti
italiani attuando una politica di coesistenza pacifica ma, come Ludovico il Moro a Milano, dovette fare i conti con la
potenza territoriale del suo Stato, limitata se rapportata alle grandi
monarchie con cui si dovette confrontare. Infatti, dopo la sua morte (1492)
venne meno sia l’equilibrio interno che quello esterno. All’interno, la
presenza ingombrante del suo nemico dichiarato, il monaco domenicano Girolamo
Savonarola (1452-1498) che, sostenitore di una profonda revisione dei costumi,
diede una spinta disgregatrice alla coesione interna. All’esterno l’equilibrio
tra gli Stati italiani si era allentato ed, a seguito della discesa in Italia
(1494) del re di Francia, Carlo VIII, spinto dall’intento di riconquistare il
regno di Napoli (v. sopra), subì un
ulteriore sussulto. Il figlio di Lorenzo, Piero de’ Medici (1389-1464),
timoroso di scontrarsi, dovette scendere a patti e consegnare a Carlo VIII
quattro roccaforti sui confini toscani ed aprirgli le porte della Repubblica.
Decisione contro cui il popolo reagì cacciando Piero (1494; II cacciata dei Medici) ed accogliendo
il re francese come un liberatore. La discesa in Italia di Carlo VIII diede
l’avvio ad una serie di guerre che, combattute fra imperiali, Francesi e
Spagnoli, segnò l’inizio della supremazia spagnola sulla penisola. Dopo la
cacciata dei Medici, Savonarola accentuò la sua predicazione profetica e
divenne (1494) il capo effettivo di una repubblica teocratica sottoposta ad un
severo regime morale sorretto dal popolo che appoggiava la sua legislazione
democratica, la riforma delle imposte e l’abolizione dell’usura. Ma il potere
di Savonarola fu breve. Travolto dalle lotte tra le fazioni fu sopraffatto
dall'opposizione di papa Alessandro VI (Rodrigo
Borgia; 1492-1503) che lo scomunicò e lo condannò al rogo. L’autorità fu allora
assunta dal cardinale Giovanni dei Medici che, dopo aver partecipato con Papa
Giulio II alla Lega santa che aveva sconfitto Luigi XII (v. sopra: Milano, da Comune a
Signoria) protettore di Firenze, rientrò in città (1512) prima di essere
eletto Papa (Leone X; 1513-1521; grande mecenate di Raffaello e Michelangelo).
Durante il suo pontificato Leone X continuò a dirigere dal Vaticano le sorti
della città ed a promuovere i membri della sua famiglia.
A Leone, dopo un
breve intermezzo, subentrò il cugino Giulio, Clemente VII (1523-1534). Questi
ebbe difficili problemi di conduzione. Infatti dopo aver posto alla gestione di
Firenze il figlio naturale, Alessandro (1510-1537), nella politica pontificia
si ispirò alle scelte di maggior profitto, abbandonando la tradizionale
alleanza con la Spagna per allearsi con la Francia e provocare la reazione
dell’imperatore SRI e re di Spagna, Carlo V. Questi con l’esercito mercenario
dei Lanzichenecchi, dopo aver conquistato il Ducato di Milano (1521), lasciò
alle soldatesche di fede luterana rimaste senza paga libertà di marciare verso
Roma e sottoporla a saccheggio (Sacco di
Roma, 1527). I Fiorentini, alla notizia, reagirono cacciando per la terza
vola i Medici dalla città e tentando il ripristino di uno Stato repubblicano.
Solo l’accordo ristabilito tra l’imperatore Carlo V e papa Clemente VII
consentì, dopo un lungo assedio (1529-1530), il definitivo abbattimento del
regime repubblicano (ma i guai per Clemente VII non finirono perché, a seguito
del rifiuto di concedere l'annullamento del matrimonio al re d’Inghilterra Enrico VIII, sorse un nuovo contrato che
portò allo Scisma anglicano). Da allora, con Alessandro de’ Medici (1531) che
ricevette da Carlo V, di cui aveva sposato una figlia naturale, il titolo di
Duca, la presenza medicea di fece sempre opprimente al punto da trasformare la
Repubblica, ormai svuotata dei suoi contenuti democratici, in un Ducato
governato da un Senato (quarantotto membri) e da un Consiglio (duecento
membri). Dopo l’assassinio di Alessandro (1537) da parte del cugino Lorenzaccio de’ Medici, ambedue viziosi e crudeli e divisi
da tempestosi rapporti, si estinse la linea diretta di discendenza. Il governo
venne affidato ad un discendente indiretto Cosimo I (1519-1574) che, di
carattere mite ma forte, diede inizio con una politica espansionista alla
conquista di Siena che, trasformata in Ducato, mantenne autonomia governativa,
seppur con amministratori controllati dai Medici. Con la bolla emessa (1569) da
papa Pio V (1566-1572) Cosimo ottenne il titolo di granduca e la Toscana
trasformata in Granducato.
La dinastia de’
Medici resse le sorti del Granducato fino alla morte di Gian Gastone (1737)
che, privo di eredi, chiuse la storia della dinastia medicea.
Nel corso degli
accordi di Utrecht e della Pace dell’Aia (1720) che suggellarono la guerra di
successione spagnola, era stato riconosciuto il diritto di successione nel
Granducato di Toscana, la cui dinastia era in estinzione, ai figli di
Elisabetta Farnese, discendente da Margherita de’ Medici. Nella pace di Vienna
(1735) tenutasi a seguito della guerra di successione polacca, il Granducato di
Toscana cambiò destinazione e fu affidato a Francesco Stefano di Lorena che,
sposando Maria Teresa d’Austria, diede origine alla dinastia Asburgo-Lorena del Granducato di Toscana.
La storia della famiglia
Medici che vanta due regine di Francia (Caterina, moglie di Enrico II, e Maria,
moglie di Enrico IV) e tre papi (oltre ai citati Clemente VII, Leone X, vi fu
il breve pontificato di Leone XI, aprile 1605) si chiuse, nel 1743 con Anna
Maria Luisa. Ella donò alla città di Firenze gli immensi tesori del patrimonio
familiare che servirono per costituire i famosi musei cittadini, dopo aver
stipulato con i successori Lorena un patto
di famiglia che stabiliva che essi non potessero “levare fuori della Capitale e dello Stato del GranDucato...
gallerie, quadri, statue, biblioteche, gioje ed altre
cose preziose... affinché esse rimanessero per ornamento dello Stato, per
utilità del Pubblico e per attirare la curiosità dei Forestieri”.
La Repubblica di Venezia (R. di S. Marco) |
Domini
di Venezia alla loro massima estensione (XVI sec.)
L’evoluzione politico-sociale di Venezia ebbe
un percorso diverso da quello di Milano e di Firenze. Venezia deteneva una
posizione di rilievo sia nell’area mediterranea che in Europa per la
competitività che avevano assunto i suoi ceti mercantili ed armatoriali grazie
alla capacita con cui questi riuscivano a mantenere all’interno una
amministrazione ordinata ed efficiente. In questa prospettiva, la Repubblica di
Venezia resta l’unica formazione politica italiana degna di un apprezzamento
positivo per l’equilibrio che riuscì a mantenere tra i ceti popolare,
mercantili e nobiliari. Ciò in quanto non avendo Venezia vissuto l’esperienza
feudale, non si era formata una nobiltà terriera dagli interessi contrapposti a
quelli popolari.
La Serenissima Repubblica di Venezia (Repubblica di S. Marco o Repubblica veneta) il più antico Stato
italiano, nacque nel IX sec. da territori bizantini della Venetia maritima dipendenti dall'Esarcato di
Ravenna. L’origine del Ducato deve farsi risalire alla riforma delle province
italiche di Bisanzio promossa dall'imperatore Maurizio di Bisanzio (529-602),
che nominò a capo della Venetia
un dux,
divenuto quindi doge/duca.
A seguito delle ripercussioni ricadute sui
territori bizantini d’Occidente della Guerra iconoclasta promossa
dall’imperatore bizantino Leone III (717-741), il popolo veneziano, sollecitato
dal clero, si ribellò appropriandosi del diritto imperiale della nomina del dux/doge, diritto riconosciuto
dall’imperatore nel 742, anno in cui la capitale del Ducato venne trasferita da
Eracliana a Metamauco.
Situazione che si protrasse fino alla conquista da parte dei Longobardi (VII
sec.) prima e poi dei Franchi (809) che, agendo in risposta alle aggressioni
bizantine su Comacchio, costrinsero il Doge a rifugiarsi a Rivoalto.
Dove, a seguito della vittoria della flotta veneziana su quella franca (810),
venne trasferita la capitale (812) decretando l’effettiva nascita di Venezia.
Venezia, che era
divenuta una città solida, prospera, industriosa e dotata di una eccellente
flotta mercantile, si diede forme di governo che inizialmente modellò su quelle
bizantine prima di distaccarsi progressivamente da esse. In quel periodo, con
il tentativo di rendere ereditaria la carica di Dux con l’associazione di un
erede (co-Dux),
si sviluppò un sistema di potere che vide in concorrenza le famiglie patrizie
divenute il nucleo della oligarchia mercantile.
Nel XII-XIII sec.,
mentre i comuni della terraferma erano coinvolti nelle lotte contro Federico
Barbarossa e Federico II, Venezia, grazie all’espansione delle attività
commerciali, riuscì ad espandersi verso le coste istriane e dalmate ed a
stabilire solidi rapporti commerciali con l’Oriente ricevendo dall’imperatore
bizantino il riconoscimento del Ducato di
Venezia e della Dalmazia. Quindi, pur mantenendosi estranea ad ogni
controversia Papato-Impero, Venezia entrò in conflitto con i Normanni di
Roberto il Guiscardo che, con l’occupazione di
Durazzo e Corfù (1081) appartenenti all’impero bizantino, venivano a disturbare
i suoi interessi in quell’area. Dopo la morte di Roberto il Guiscardo,
Venezia riuscì a riconquistare i due porti per restituirli all’imperatore
Alessio Comneno che, quale contropartita, le accordò
(1082) una concessione che garantiva esenzioni e privilegi per i suoi mercanti
in tutta l’area bizantina. Privilegi che indussero Venezia a non farsi
coinvolgere nelle prime crociate per non alterare i rapporti con l’Oriente.
Quindi, costatando i vantaggi acquisisti dalle concorrenti Genova e Pisa con le
basi cristiane in Medioriente, anche le flotte
veneziane si resero disponibili a prendere parte alle crociate fino al punto di
favorire, nella IV crociata, la conquista di Costantinopoli (1204) e la nascita
dell’Impero Latino d’Oriente, dove il doge veneziano Enrico Dandolo (1107-1205)
impose il patriarca cattolico Tommaso Morosini. Il
ruolo acquisito pose Venezia in conflitto con la concorrente Genova che si
scontrarono (1293-1299) al fine di mantenere il predominio sui traffici in
Medio Oriente. Venezia prima subì una sconfitta presso le isole curzolari (1298) dove i Genovesi di Lamba
Doria distrussero la flotta veneziana di Andrea Dandolo, catturando Marco Polo,
poi riuscì a prendersi una rivalsa con le galee di Domenico Schiavo che
penetrarono nel porto di Genova. Di fronte al rapido degenerare del conflitto
che metteva a rischio gli interessi di entrambe, Venezia e Genova giunsero ad
un accordo (Milano, 1299) mediato da Matteo Visconti. Tuttavia il dissidio fra
le due repubbliche si concluse nel secolo successivo dopo la guerra di Chioggia
(v. seguito).
Il successo
commerciale di Venezia, il cui territorio includeva gran parte della regione nord-orientale
d’Italia e delle coste ed isole del Mare Adriatico, era garantito dalla
stabilità politica interna. Il massimo organo consiliare della Repubblica era il
Maggior Consiglio cui spettava il
potere legislativo e la nomina di tutte le magistrature e della massima carica
dello Stato, il Doge. I primi dogi erano stati eletti a suffragio popolare ma,
col tempo, il diritto di voto fu limitato, attraverso una complicata procedura,
a gruppi sempre più ristretti. Il poteri del doge, inizialmente ampi, vennero
successivamente trasferiti al Consiglio cui accedevano solo le famiglie nelle
cui mani era concentrata la ricchezza della Repubblica. Nel 1297 fu votata una
legge che sbarrò l’accesso a tutte le famiglie che non fossero state già
presenti negli ultimi quattro anni, ciò che viene ricordato come la “serrata”
del Maggior Consiglio. Si impediva così l’accesso ai nuovi ricchi perpetuando
il potere ad una stretta oligarchia che resse nel tempo, per la capacità dei
governanti di interpretare e di sostenere gli interessi generali attraverso lo
sviluppo dell’economia ed il mantenimento di una politica che non venne a
comprimere la classe popolare. Il Maggior Consiglio riuscì a stroncare, nel
corso del XIV sec. tentativi di istituire governi personali, per prevenire i
quali e per vigilare sulla sicurezza della Repubblica, si pensò alla
istituzione del Consiglio dei Dieci
dotato di vasti poteri.
Nel XIV sec. Venezia,
per dar corso alla sua politica espansionistica verso Oriente, riaccese il
conflitto con la rivale di sempre, Genova, che la impegnò in una serie di
conflitti (1351-1355) senza esiti determinanti. Quindi, nel momento in cui
Venezia assunse il controllo di Cipro, Genova riuscì a sensibilizzare altri
oppositori (padovani ed austriaci) che, timorosi delle mire veneziane, si
coalizzarono per contenerle. Genova riuscì ad occupare temporaneamente Chioggia
(1378-81) che venne subito riconquistata da Venezia. Con la pace di Torino,
Venezia, per sottrarsi ad uno scontro dagli esiti incerti, accettò di
riconoscere i diritti dei suoi contendenti mentre Genova, in quel tempo
tormentata da lotte al suo interno, fu indotta a ritirarsi dall’Adriatico ed a
non interferire più con gli interessi di Venezia.
Nel XV sec., a
seguito dell’affermarsi dell’Impero ottomano che chiuse alle navi italiane le
vie dell’Oriente e delle mire della Signoria Visconti di Milano sui territori
della pianura padana, la Repubblica di Venezia decise di concentrare i suoi
sforzi nel controllo e rafforzamento del suo entroterra, conquistando, con il
brillante contributo del condottiero di ventura Bartolomeo Colleoni,
Padova, Verona, Brescia, Cremona e Bergamo, quindi il Polesine e la riviera
d’Istria. Le mire di espansione verso la Romagna misero Venezia in conflitto
con il Papa che costituì, per contrastarla, una forte ma effimera coalizione,
costituita da SRI, Francia ed Aragona le cui armate si arrestarono ai margini
della laguna prima di dissolversi e consentire a Venezia di uscirne indenne.
L’inizio del XVI sec.
coincise con il suo massimo ampliamento territoriale e l’avvio del declino
allorché le grandi nazioni europee (Francia, Aragona ed Impero sorrette dal
Papa Giuliio II) si coalizzavano nella Lega di Cambrai
(1508) per contenere le mire di Venezia che venne sconfitta ad Agnadello (1509). E quando Giulio II (1503-1513) valutò che
la Francia rappresentasse per gli equilibri nella penisola una minaccia ben più
grave di Venezia, si ritirò dall’alleanza per legarsi con Venezia, imitato
l’anno successivo dalla Spagna e dal SRI che assieme costituirono la Lega santa contro la Francia di Luigi
XII (v. sopra, Milano ..).
Successivamente anche l’Impero ottomano (Selim II)
attaccò i domini veneziani conquistando Cipro (1569). Venezia reagì
all’attacco, riallacciando i rapporti con papa Pio V (1560-1572) e costituendo
una Lega cristiana (1571) che, oltre
a Venezia e Papato, comprendeva Spagna, Impero e Genova. La flotta cristiana,
comandata dal figlio naturale di Carlo V, Giovanni d’Austria, riunitasi nel
golfo di Lepanto sconfisse (ottobre 1571) quella ottomana dando un segno della
volontà di riscossa cattolica. Il mancato prosieguo delle attività belliche
contro i Turchi è attribuibile allo scarso interesse da parte degli alleati ed
alla mancanza di risorse da parte di Venezia. La quale, essendo la più esposta
alla ritorsione turca, fu costretta a firmare un trattato di pace con i Turchi
a cui veniva riconosciuta la conquista di Cipro e di altri possedimenti veneziani.
Successivamente Venezia, pur essendo costretta a cederne altri ai Turchi,
riuscì a conservare i domini dalmati.
Nel XVII sec., oltre
all’interdizione da parte di Paolo V (1605-1621) per la decisione di processare
nei suoi tribunali civili due sacerdoti colpevoli di reati comuni, si manifestò
più acuto il declino a causa dello spostamento dal Mediterraneo all’Atlantico
dell’asse dei traffici con le Americhe. Un
ridimensionamento che, nel XVIII sec., la indusse ad una politica di
conservazione e di neutralità.
Dopo un ragguardevole
sviluppo artistico nell’ambito della musica (Vivaldi), pittura (Tiepolo e
Canaletto) e della letteratura (Goldoni), si palesarono le nuove idee portate
dalla rivoluzione francese. Il governo anziché aprirsi si arroccò su posizioni
conservatorie che portarono alla caduta della Repubblica. Questa (1797) venne
invasa dalle truppe napoleoniche che minacciarono di penetrare nella città,
costringendo Il Doge (maggio 1797) a deporre le insegne ed il Consiglio a
dichiarare decaduta la Repubblica e ad istituire un Governo provvisorio che
diede libero accesso a Napoleone. Questi, a seguito del trattato di Campoformio, cedette all’Austria gran parte del territorio
veneziano ed alla Repubbliaca Cisalpina, Bergamo e
Brescia.
Con la caduta di
Napoleone il Ducato di Venezia e Milano diedero origine al Regno Lombardo-veneto sotto il dominio austriaco.
Signoria degli Estensi a Ferrara, Modena e Reggio |
Borso d’Este
Esso è nominalmente
il più antico ducato (Ducatus Ferrariae),
istituito dal re longobardo Astolfo (755) allorché questi aveva sottratto al Papa (751)
l’Esarcato di Ravenna, prima che i Franchi provvedessero a restituire
quest’ultimo al Pontefice. Il ripristinato Ducato fu concesso dal Papa dietro
pagamento di un tributo alla dinastia dei di Canossa. Dopo la morte (1115)
dell’ultima erede dei Canossa, Matilde, si costituì il libero Comune di
Ferrara, dove si trasferì la famiglia d’Este, che con Folco
aveva ottenuto il titolo di marchese. I marchesi d’Este, di parte guelfa e feudatari
dello Stato della Chiesa, appartenevano alla stirpe degli Obertenghi
ed, imparentati con i Welfen (guelfi) bavaresi,
facevano parte dell’aristocrazia imperiale ed erano titolari di numerose
concessioni.
Dopo le contese con
le famiglie aristocratiche dei Torelli e degli Adelardi,
gli Este, con la nomina a podestà di Azzo VII
(1242-1259), dopo la vittoria di questi su Ezzelino
da Romano (1242), acquisirono definitivamente la signoria di Ferrara (feudo
papale). Alla morte di Azzo i cittadini conferirono
“il dominio della città e del distretto” al nipote Obizzo
II che, destreggiandosi tra Papato ed Impero, ottenne la signoria dei feudi
imperiali di Modena (1288) e Reggio (1289).
Borso d’Este (1413-1471)
riuscì ad ottenere per entrambe le signorie (rispettivamente dal Papa nel 1471
e dall’imperatore nel 1452) il titolo ducale. Borso
avviò l’opera, conclusa dal fratellastro Ercole I (1431-1505) che gli successe,
di trasformare Ferrara in uno dei centri culturali ed artistici più attivi del
Rinascimento, ospitando letterati (Ariosto e Tasso) ed artisti (della Francesca,
Mantegna, Tiziano) le cui opere si aggiunsero ad una vasta e varia collezione.
Nel 1598, non avendo
Alfonso II d’Este (1533-1597) figli legittimi, nominò come successore il figlio
naturale Cesare d’Este-Montecchio. Il Papa,
diversamente dall’imperatore Rodolfo II, non riconobbe la successione (Bolla papale di Pio V che escludeva dalle
successioni dai feudi pontifici i discendenti illegittimi) per cui gli estensi,
rimasti titolari del solo Ducato di Modena e Reggio, trasferirono a Modena la
capitale e, per unione matrimoniale, Ercole III (1727-1803) acquisì (1741)
anche il ducato di Massa e Carrara. Con la morte di Ercole si estinse la casata
e la figlia Beatrice, sposando Ferdinando d’Asburgo, fondò la dinastia degli Asburgo-Este che rimase titolare del Ducato fino
all’annessione al Regno di Sardegna (1860).
Il Ducato di Ferrara
ritornò allo Stato Vaticano che lo mantenne fino al 1860.
Signoria dei Gonzaga a Mantova |
Dopo la scomparsa
della contessa Matilde di Canossa (1115), a Mantova si costituì il libero
Comune, periodo in cui si insediò la famiglia Gonzaga.
La signoria dei
Gonzaga nacque nel 1328 a seguito di una congiura, contro il signore (dal 1312)
Rinaldo Bonacolsi “il Passerino”, capeggiata dal
podestà Luigi Gonzaga (1568-1591) e protetta da Cangrande
della Scala, a sua volta intenzionato ad insediarsi a Mantova. La congiura andò
a buon fine e Cangrande fu messo fuori gioco dal
riconoscimento di Luigi a Capitano
generale dell’istituzione comunale. L’anno successivo (1329) Luigi Gonzaga
ricevette dall’imperatore Ludovico “il Bavaro”
(1314-1357) la nomina a vicario imperiale che esercitò anche su Cremona e
Reggio.
I successori subirono
la signoria feudale dei Visconti fino a che Francesco I (1382-1407), ultimo dei
capitani, si affrancò fondando un principato autonomo. Nel 1433 Gian Francesco
Gonzaga (1407-1444) ricevette dall’imperatore Sigismondo di Lussemburgo
(14011-1437) la nomina di marchese, con ciò acquisendo la forza per condurre
una politica autonoma di alleanze con i Visconti o con Venezia. Con Francesco
II (1484-1519), Mantova divenne uno dei centri della politica italiana del
Rinascimento e raggiunse il culmine della sua potenza con Guglielmo
(1550-1587). I Gonzaga commissionarono opere a numerosi artisti (tra cui Pisanello, Rubens e Mategna) ed
affidarono l’ordinamento urbanistico della città all’allievo del Raffaello,
Giulio Romano, che lasciò traccia di se in tutto il centro storico.
La signoria dei
Gonzaga su Mantova durò fino al 1708, allorché fu assorbito dall’Impero. Nel
1700 in occasione della controversa europea (guerra di successione spagnola)
sorta a seguito alla destinazione, in mancanza di eredi, del trono di Spagna ad
un esponente dei Borbone di Francia, Ferdinando Carlo Gonzaga si schierò con la
Francia e la Spagna (contro Inghilterra, Austria ed Olanda). Dopo la sconfitta
patita dalla Francia nella battaglia di Torino (1706), Ferdinando Carlo
accusato di tradimento per aver concesso sostegno alle truppe franco-spagnole,
si rifugiò a Venezia dove morì (1708). Il trattato di Utrecht (1713) tra le
nazioni contendenti dispose l’assorbimento del Ducato di Mantova da parte di
quello di Milano che venne destinato agli Asburgo d’Austria.
Signoria dei Montefeltro e dei Della Rovere ad Urbino |
Federico
da Montefeltro
La Signoria della
famiglia ghibellina dei da Montefeltro sulla contea di Urbino, costituitasi nel
1213, fu riconosciuta da Federico II nel 1234. Essa si protrasse, con qualche
interruzione, fino al 1508 allorché subentrò la dinastia dei Della Rovere che
la mantenne fino al 1631.
La nascita del Ducato
che comprendeva parte delle Marche e dell’Umbria, risale al 1443 in virtù della
nomina di Oddantonio II da Montefeltro (1427-1444) a
duca di Urbino da parte di papa Eugenio IV (1431-1447). Il Ducato raggiunse la
sua massima espansione territoriale e prosperità economica sotto la signoria di
Federico da Montefeltro (1444-1482) che fece di Urbino uno dei centri di
cultura rinascimentale. Nel 1508, Guidobaldo, non
avendo figli, adottò il nipote Francesco Maria Della Rovere che continuò la
linea dinastica dei Montefeltro. Egli Trasferì la capitale da Urbino a Pesaro.
Alla morte
dell’ultimo componente, Francesco Maria II (1631), il Ducato di Urbino e la
contea dei Montefeltro vennero annessi dallo Stato della Chiesa che riuscì a
far valere i diritti feudali vantati sul Ducato.
Signoria dei da Romano a Vicenza e dei della Scala a Verona |
Cangrande della Scala
Tra le prime casate
che seppero dare vita a domini dinastici vi fu quella della famiglia della
Scala (Scaligeri), presente tra i
gruppi dirigenti di Verona fin dall’età del comune
consolare (XI sec.)
La famiglia della
Scala emerse con Mastino, nel 1262, allorché a Verona, alla morte di Ezzelino da Romano (1259), subentrò in maniera non
traumatica un regime comunale guidato dalle corporazioni di mestiere che
consentì l’emergere di una Signoria che si protrasse fino al 1387.
Quella dei da Romano
era una antica famiglia feudale, di origine franca e dotata di un vasto
patrimonio nell’area fra Treviso e Vicenza. Il capostipite, Acelo
di Arpone, era un cavaliere al seguito dell’imperatore Corrado II il Salico
(1027-1039) da cui ricevette il feudo di Romano, nei pressi di Vicenza. Nel due
secoli successivi avvenne l’espansione dei da Romano verso l’area veneta che
raggiunse l’apice con i fratelli Alberico ed Ezzelino III. Il primo fece di Treviso la sua base mentre Ezzelino concentrò le sue mire su Verona di cui divenne
podestà nel 1226. Questi, divenuto il maggior esponente ghibellino dell’area
veneta, fu artefice delle maggiori nefandezze sia nel periodo di sostegno a
Federico II che lo accreditò “capitano e consigliere dell’impero” e di cui
sposò la figlia naturale, sia in quello immediatamente successivo alla morte di
Federico. Avvalendosi degli appoggi imperiali, Ezzelino
estese la sua influenza su Vicenza, Padova e Trento, prima di venire sconfitto
a Cassano d’Adda (1259) dalle milizie guelfe, guidate da Oberto
Pelavicino, signore di una vasta area intorno a
Cremona.
Fu allora che si
distinse Mastino I della Scala, di tendenza ghibellina, non nobile né ricco ma
autorevole, abile politico ed incline alla pace, dote apprezzata dai veronesi
che venivano dal violento periodo dei Da Romano. Egli, abile nel conquistarsi
il consenso del Clero e della Domus Mercatorum, la potente corporazione dei mercanti che
eleggevano il podestà ed una parte del consiglio Maggiore, venne
nominato Capitano generale. La
carica, prorogata a vita, consentì a Mastino di trasformare in maniera non
traumatica il Comune in Signoria.
A seguito della
scomunica papale subita dalla Città nel 1267 per l’aiuto fornito a Corradino di Svevia nel suo tentativo di rivalsa contro
Carlo d’Angiò, l’insurrezione di alcune città guelfe venne sedata con l’aiuto
degli alleati Bonacolsi di Mantova. I guelfi con una
congiura riuscirono ad uccidere Mastino (1277) sotto cui la città aveva
raggiunto un notevole stato di benessere. Con la successione del fratello
Alberto si ebbe l’effettivo passaggio al regime di Signoria che riuscì ad
ampliare il suo territorio fino a comprendere Vicenza, Parma, Reggio, Feltre, Cividale e Belluno.
L’apice dello
splendore fu raggiunto con Cangrande della Scala
(1291-1329) che, associato al potere dal fratello Alboino
(1303), vi rimase singolarmente dal 1311 fino al 1329 rendendosi protagonista
di una offensiva in area padana che gli procurò la conquista della Marca
trevigiana. Nel 1311 venne nominato vicario imperiale di Vicenza, da Enrico VII
di Lussemburgo (1308-1313), a seguito del pagamento di una ingente somma che
consentì a quest’ultimo di proseguire verso Roma per essere incoronato. Cangrande, fervente ghibellino, si impegnò contro Padova e
le sue alleate guelfe, superiori per risorse economiche e militari, in una
guerra durata tre anni, la cui vittoria mise in evidenza le sue qualità umane
(diede peraltro ospitalità a Dante 1313-1318) e militari e gli consentì di
inserirsi tra i potenti dell'Italia settentrionale. Nel 1315, con Passerino Bonacolsi, tentò di assoggettare Cremona, Parma e Reggio
che si erano riuniti sotto una unica signoria, mentre a Brescia i guelfi
prendevano il sopravvento ed intralciavano i traffici con l’alleata Milano e
Verona a sua volta minacciata da Padova e Treviso. Condizioni che lo
impegnarono in una nuova guerra che si indirizzò prima contro Padova che, nel
1318, accettò le condizioni di pace. Poi si rivolse contro Brescia che si
arrese e successivamente si rivolse contro Treviso, acquisendo in questa
occasione Feltre e Belluno ed ancora contro Padova e Treviso dove trovò la
morte (avvelenamento?) all’età di soli 38 anni.
La prematura morte
lasciò la Signoria senza legittimi eredi per cui il potere andò al nipote
Mastino II (1308-1351) che venne eletto Capitano generale della Lega costituita
con i Visconti, Estensi e Gonzaga per difendersi dalla discesa in Italia del re
di Boemia che, sollecitato dal Papa, aveva conquistato alcune città lombarde.
Dopo il successo ottenuto correndo in soccorso di Ferrara, la signoria
scaligera riuscì ad annettersi Brescia, Parma, Lucca, Massa e Pontremoli, raggiungendo l massimo della sua
espansione. Alla morte di Mastino II la
Signoria passò ai figli, Bartolomeo II ed Antonio, che entrarono in una lotta
di successione protrattasi fino al 1375. La città, indebolita, riuscì a
sventare un tentativo di Bernabò Visconti che provò
invano ad annettersela, vantando diritti a favore della moglie Regina della
Scala. Nel momento in cui Antonio, per assumere il potere, fece uccidere il
fratello incolpando varie famiglie amiche, si formò una lega tra i Visconti,
Estensi e Gonzaga che segnò la fine della Signoria scaligera. Antonio si ritirò
a Venezia dove morì nel 1388. Altri componenti la famiglia trovarono asilo in
Baviera.
Conquistata per breve
tempo dai Visconti, passò sotto il dominio di Venezia nel 1404.
Signoria dei da Polenta a Ravenna |
La famiglia,
proveniente dal castello appenninico di Polenta ed affermatasi nel XIII sec.
ricoprendo i principali uffici dell’arcivescovado, governò Ravenna tra il 1275
ed il 1441.
Guido I Minore, capo
dei guelfi, fu il primo esponete che riuscì ad assumere il governo della città
che trasformò in Signoria (1287) dopo aver cacciato gli avversari politici.
Alla sua morte (1310) gli succedettero figli e nipoti (tra cui Guido II Novello
che diede ospitalità all’esule Dante che rese immortale Francesca da Rimini,
figlia di Guido I) apportando qualche vantaggio territoriale alla città e
sostenendo diversi contrasti, finché Obizzo rimase
unico signore di Ravenna (1406). Intanto Venezia, in fase di espansione, si era
estesa fino a Ravenna costringendo Obizzo a nominare
erede la Serenissima Repubblica di Venezia nel caso in cui i suoi figli non ne
avessero seguito le direttive. Clausola che diede opportunità a Venezia (1410)
di deporre il successore Ortasio III e di relegarlo,
assieme al figlio, nell’isola di Candia dove entrambi
morirono nel 1447.
Nel 1510 Ravenna
tornò sotto lo Stato Pontificio che l’aveva ricevuta da Pipino il Breve nel 754
allorché era venuto in Italia in soccorso di papa Stefano II in rotta con i
Longobardi.
Signoria dei Malatesta a Rimini |
Castello Malatesta di
Rimini
La signoria di Rimini
nacque e si sviluppò, pur all’interno del territorio Pontificio, in contrasto
con gli interessi del Papato fino a quando, a metà del XV sec., questo riuscì a
riprenderne il dominio.
I Malatesta,
proprietari di territori che si estendevano sulle colline di Rimini, godevano
della protezione degli arcivescovi di Ravenna che in Romagna e nelle Marche
possedevano enormi proprietà.
Essi si insediarono a
Rimini nel 1200 e, nel 1239, Giovanni divenne Podestà del libero comune di
Rimini. Nel 1295, Malatesta da Verucchio il
Centenario (1212-1312), abile e scaltro uomo d’arme e capo del partito guelfo
cittadino, cacciò il capo ghibellino ed assunse la Signoria della città che i
successori, in qualità di vicari della Santa Sede, mantennero fino al 1503.
Nel corso del XIV
sec. i domini dei Malatesta si estesero su Cesena, Pesaro, Fano e sull’intera
Marca di Ancona. Sigismondo Pandolfo (1417-1468) in
pose in contrasto con lo Stato Pontificio, evento che segnò il crollo della
potenza dei Malatesta i cui domini vennero ridotti alle sole città di Cesena e
Rimini. Pandolfo IV (1475-1534), a seguito di una bolla
di papa Alessandro VI (Roderico
Borgia, 1492-1503) che lo accusava di essersi sottratto all’autorità
pontificia, venne aggredito e sconfitto (1500) dalle milizie di Cesare Borgia,
signore di Romagna e figlio di papa Alessandro VI.
Alla morte di papa
Alessandro VI, il nuovo papa Giulio II (1503-1513),
austero ed acerrimo nemico dei Borgia, tolse al duca Cesare Borgia il dominio
della Romagna che fu assorbita dallo Stato Pontificio (1503).
Signoria dei da Carrara a Padova |
Cappella degli Scovegni (Giotto)
Padova durante l’esperienza comunale entrò in lotta con l’imperatore
Federico Barbarossa. Nel periodo 1237-1256 passò sotto la signoria di Azzelino da Romano dopo cui venne restaurato il governo
comunale affidato a Mastino I della Scala. I successori di questi superarono
l’esperienza comunale per dare origine ad una Signoria che durò fino alla fine
del XIII sec.
A cavallo del XIII-XIV sec., prima che si affermasse la famiglia da
Carrara, Enrico Scrovegni, un componente della famiglia concorrente che con
l’attività bancaria aveva accumulato una ingente fortuna, per rivalutare la
denigrata figura del padre Reginaldo (Dante lo
colloca fra gli usurai), perseguì una politica di immagine acquisendo (1300) un
imponente palazzo nei cui pressi fece erigere una cappella che da oratorio
trasformò in Chiesa intitolata a Santa Maria della Carità e fatta decorare da
Giotto e dallo scultore Giovanni Pisano.
Emerse quindi, nel 1318, un’antica famiglia proveniente da Carrara, nel
padovano, dove era titolare di feudi. Essa si propose come mediatrice di pace
con gli Scaligeri e pose fine all’esperienza comunale per istituire una
signoria che durò fino al 1405. Jacopo I da Carrara fu nominato (1318) capitano
del popolo a vita, per
guidare l'esercito padovano contro Cangrande della
Scala che, da Verona, cercava l'espansione verso ovest nei territori vicentini
e padovani. Operazione che condusse a termine con l’aiuto di feudatari vicini
preoccupati delle iniziative scaligere.
L’erede di Giacomo, il nipote Marsilio (1324), entrò in contrapposizione
con altro componente la famiglia, Nicolò. Questi si alleò con Cangrande della Scala a cui offrì il dominio della città in
cambio della nomina a vicario (1328) e la destituzione di Marsilio. Il quale,
scomparso Cangrande, riprese il potere in città
(1337) con il sostegno di Firenze e Venezia, preoccupata dell’espansione
padovana ed a cui accordò concessioni fiscali e commerciali. Da allora la
signoria dei da Carrara godette di una sorta di protettorato politico da parte
di Venezia che mediò un accordo con Verona a favore del successore Ubertino I che, nel 1343 diede inizio alla costruzione della reggia,
un monumento al ritrovato potere della famiglia.
Nel periodo di signoria dei da Carrara si registrò un grande sviluppo sia
dal punto di vista economico e territoriale che da quello dell’espressione
artistica (costruzione della chiesa di S. Maria dei Servi, affresco del Battistero, ristrutturazione
degli Eremitani) che raggiunse il suo
massimo splendore con la signoria di Francesco I il Vecchio (1354-1388). Questi
si trovò coinvolto (1378) nella guerra di Chioggia condotta dai Veneziani
contro i Genovesi che, con i coinvolgimenti di altre signorie limitrofe, porto
a continue variazioni dell'area di influenza dei Carraresi. La massima
espansione territoriale della signoria fu raggiunta nel 1387, con
l’acquisizione dei territori di Feltre, Belluno e la riconquista di Vicenza.
Una espansione che spaventò sia gli Sforza di Milano che Venezia che si
allearono contro Padova, dove Francesco aveva abdicato (1388) a favore del
figlio Francesco II Novello (1359-1405). L’alleanza Milano-Venezia
riuscì a cacciare i Carraresi da Padova (Francesco I venne imprigionato dai
Visconti e morì nel 1393) dove rientrarono due anni dopo (1390). Ma il declino
era ormai inarrestabile e vani furono i tentativi di Francesco Novello di
resistere all'espansione veneziana fallirono e Padova, assediata e travagliata
da una epidemia di peste, venne conquistata dai Veneziani (1405) che
incarcerarono ed uccisero Francesco II stesso.
Il vano tentativo di
riacquisire Padova (1437) da parte dell’ultimo esponente della famiglia,
Francesco III, ebbe come esito la sua cattura ed uccisione da parte dei
Veneziani.
Signoria degli Scotti a Piacenza |
Palazzo
Scotti di Piacenza
La famiglia Scotti,
pur insediatasi nel territorio piacentino nell’alto Medioevo, emerse, nella
gestione del potere verso la prima metà del XIII sec. Di origine mercantile,
schierata con la fazione guelfa, gli Scotti erano divenuti, con l’elezione del
piacentino Tedaldo Visconti al soglio pontificio
(Gregorio X, 1271-1276), i principali banchieri papali. Rinaldo Scotti, eletto
capitano del popolo nel 1261, era capo di una compagnia commerciale che
assicurò movimenti di capitali e merci nelle principali piazze europee.
Alberto Scotti
ereditò le fortune di Rinaldo e divenne capo dell’organizzazione dei mercanti
che, assieme all’associazione delle arti, fu determinante nella sua nomina a dominus civitatis (1290-1304).
Nel breve periodo della sua esperienza egli stabilì inizialmente un reale
rapporto di fiducia con la base sociale, limitandosi a controllare ed
indirizzare l’evoluzione politica della città senza assumere cariche. Egli
riuscì ad estendere il suo dominio anche su Bergamo e Tortona. Nel 1304, a
causa di ambizioni signorili non più coerenti con gli interessi del popolo, fu
costretto a lasciare Piacenza.
Nel 1313, Galeazzo
Visconti, figlio di Matteo, nominato vicario imperale da Enrico VII di
Lussemburgo, divenne signore della città che passò successivamente sotto la
signoria degli Sforza (1448), quindi sotto la Francia (1499), lo Stato
Pontificio (1521) finché papa Paolo III (Alessandro Farnese, 1534-1549) creò il
ducato di Parma e Piacenza per il figlio Pier Luigi Farnese (1545).
Il Ducato restò ai Farnese fino alla loro estinzione (1731), prima di essere assegnato a Carlo di Borbone (1731-1736), quindi a Carlo VI d’Asburgo (1736-1748) per ritornare ai Borbone, con Filippo, fondatore della dinastia Borbone-Parma.
La Repubblica di Genova |
Espansione della
Repubblica di Genova
Genova fu, fin dai tempi romani, potenza marinara e centro marittimo in
continuo sviluppo che registrò una crescita considerevole per l’arrivo delle
popolazioni lombarde fuggite dall’invasione dei Longobardi (VI
sec.) che, in periodo successivo (VII sec.), distrussero Genova e la sua
flotta.
Nel IX-X sec. Genova, ricostruita e facente parte dell’Impero carolingio,
dovette difendersi dagli attacchi dei saraceni che sconfisse una prima volta in
Corsica (806) quindi, nel 935, li costrinse a restituire bottino e prigionieri
alla propria flotta che li intercettò presso l’Asinara dopo l’attacco
effettuato contro la città. Fu quella l’occasione che indusse la cittadinanza
ad attuare l’ampliamento delle mura con una nuova cinta che arrivò a coprire un
perimetro di 1488 m.
Genova, appena uscita dal dominio feudale degli Obertenghi
(metà dell’XI sec.),
avviò con Pisa la penetrazione
verso le grandi isole tirreniche su cui progressivamente si divise l’influenza,
finché un accordo provvisorio assegnò la Corsica a Genova e la Sardegna a Pisa.
A Genova, quindi, col fine di organizzare una difesa delle attività marinare
contro le incursioni, si formarono le prime associazioni cittadine, definite Compagne, costituite da nobili,
armatori, mercanti e marinai. I primi provvedevano all’armamento delle navi, i
secondi alla gestione, mentre gli utili (guadagni e bottini) venivano divisi in
parti uguali. Alla fine del secolo si istituì il Libero Comune con le Compagne
che si trasformarono da istituzione privata in ente di carattere pubblico (Compagnae Comunis),
identificandosi con gli otto quartieri (Castello, Macagnana,
Piazzalonga, S.Lorenzo, Sussilia, Porta, Portanuova,
Borgo) in cui era suddivisa la città. Questi eleggevano i consoli cui venivano attribuite le prerogative di governatore,
generale e giudice. Praticamente un regime repubblicano che, a metà del XII
sec. aveva esteso il suo dominio su tutta la Liguria e ricevuto dall’imperatore
Corrado III di Hohenstaufen (1137-1152) facoltà
di battere moneta (grifone, poi genovino e fiorino).
Le attività marittime
dei Genovesi erano incrementate con i noleggi per varie attività belliche, in
particolare per il contributo offerto agli spagnoli nella conquista di Tortosa
(1149, nel corso della reconquista)
e per il trasporto dei crociati in Terrasanta dove, con il capitano Guglielmo Embriaco (Testa di
maglio), furono determinanti nell’espugnare Gerusalemme (1099). Occasione
che consentì di acquisire, con Giaffa, Gibello, Cesarea, S. Giovanni d’Acri, le basi per il loro
futuro coloniale.
Nel periodo di impero
di Federico Barbarossa (1152-1190), i genovesi, allarmati dalle minacce
dell’imperatore verso la città non propensa ad assoggettarsi alle sue
imposizioni, decisero di fortificarla ampliandone le mura e trovarono
conveniente stringere un’alleanza con il re normanno di Sicilia, Guglielmo II
(1166-1189), da cui ottennero privilegi e franchigie per i loro commerci.
Iniziative che indussero il Barbarossa ad accontentatosi di una promessa di non
ostilità in cambio della concessione di autonomia alla città. La cui potenza era divenuta talmente
apprezzata da indurre gli inglesi ad acquisire, dietro compenso, la bandiera
genovese per navigare in sicurezza nel Mediterraneo (1190).
Nel 1191, a causa
delle controversie che da decenni coinvolgevano le più autorevoli famiglie
circa la nomina ed il governo dei consoli (il console Melchiorre della Volta
era stato ucciso nel 1164), entrò in crisi il comune consolare per cui si decise di abolire i consoli eletti
localmente tra i maggiorenti della città, e di nominare un podestà scelto all’esterno della città. Egli fu affiancato da un Consiglio Maggiore o Senato e da un Consiglio Minore.
Nel periodo della controversia dell’Impero contro i Comuni lombardi
sconfitti a Cortenuova (1237) da Federico II di
Svevia, questi aveva imposto il dominio su Genova che, in contrapposizione, si
schierò con la Santa Sede di papa Gregorio IX (1227-1241). Il Papa affidò alla
Repubblica genovese l’incarico di trasportare a Roma i prelati che avrebbero
dovuto partecipare al Sinodo indetto per sancire la scomunica contro Federico.
Il quale, con una flotta preponderante comandata da genovesi ghibellini
fuoriusciti, bloccò quella genovese all’isola del Giglio (1241) ed imprigionò i
prelati. L’episodio non scalfì la potenza navale genovese, tuttavia la
concorrenza di Pisa e Venezia per il predominio sui mari e la rivincita
musulmana in Medioriente avevano messo in crisi il
mantenimento delle colonie genovesi dislocate in quel territorio (Famagosta, Cipro, il quartiere Galata
di Istanbul, Trebisonda, Sebastopoli), nell’Egeo (Chio, Creta e Rodi) e quelle in Turchia (Smirne, Efeso e Focea).
Alla morte di Federico II (1250), Genova era dominata da poche grandi
famiglie nobiliari di tendenza guelfa in quanto quelle di tendenza ghibellina
erano state allontanate nel periodo del pontificato del genovese Sinibaldo Fieschi dei conti di
Lavagna (Innocenzo IV; 1243-1254). Nel 1257 una sollevazione popolare di
artigiani e piccoli commercianti sostenuta da famiglie potenti, superando la
fase del comune podestarile, elesse
per dieci anni Capitano del comune e del
popolo, Guglielmo Boccanegra, proveniente da una
famiglia di commercianti apparentata con la nobiltà cittadina. Egli si fece
affiancare da un collegio di trentadue anziani ed inserì nel consiglio comunale
i capi dei mestieri. A causa di un trattato commerciale stretto con il re di
Sicilia Manfredi di Svevia, riferimento dei ghibellini in Italia, venne
organizzata contro il Boccanegra una congiura di
ispirazione guelfa che questi riuscì a sventare, cogliendo l’occasione per
disfarsi delle famiglie a lui ostili. Ma qualche anno dopo, 1262, fu costretto
ad andare in esilio con l’accusa di “tirannide” ed il comune si affidò di nuovo
ad un podestà.
Malgrado Genova da tempo si fosse sottratta ai feudatari per diventare un
Comune popolare, in città continuarono a dominare ristretti gruppi di famiglie
ugualmente potenti la cui contrapposizione mantenne un equilibrio che impedì
non solo di bloccare il tentativo
dittatoriale del Boccanegra ma anche il
costituirsi delle condizioni per l’affermazione di una signoria. Infatti dopo
la deposizione di Guglielmo Boccanegra riemerse la
contrapposizione fra le famiglie guelfe dei Fieschi e
dei Grimaldi contro quelle ghibelline dei Doria e degli Spinola
che ebbero il sopravvento e, nel 1271, affidarono il titolo di capitani del popolo
ad Oberto Spinola ed Oberto Doria in un regime dualistico che assicurò per
quindici anni una pace cittadina senza precedenti. Durante questo periodo
Genova poté sviluppare i suoi interessi d’oltre mare e sconfiggere nella battaglia della Meloria (1284) la sua concorrente Pisa con cui da due
secoli Genova aveva ingaggiato una concorrenza agguerrita volta al predominio
sul mar Tirreno. Esso fu definitivamente risolto con la distruzione del Porto
Pisano e con la conquista della Corsica e del nord della Sardegna.
Le contrapposizioni cittadine ebbero fasi alterne e, se nel 1296
prevalsero ancora i ghibellini che imposero i capitani Corrado Spinola e Corrado Doria, nel 1310 prevalsero i guelfi che
diedero alle fiamme le abitazioni degli avversari, prima che gli Spinola tentassero una controffensiva. Finché, per fare
cessare le ostilità, il governo della Repubblica fu assunto (1311) prima
dall’imperatore Enrico VII di Lussemburgo e, al riaccendersi dei contrasti dopo
la morte di questi (1313), dal re di Napoli Roberto d’Angiò. Ostilità che non
cessarono fino al 1339 allorché, col favore del popolo, fu nominato il primo doge a vita, Simone Boccanegra
(-1363)che si insediò nel palazzo ducale, fatto edificare alla fine del XIII
sec. Simone,
cacciato dai nobili dopo cinque anni, potette rientrare nel 1356, sfruttando le
contrapposizioni interne ed esterne, ma il potere assunto e non gradito ai
nobili fu causa del suo assassinio nel 1363.
Dei contrasti con Venezia e della
pace di Torino si è detto (v. Repubblica
di Venezia).
Sospesi i
dissidi esterni, le famiglie che vantavano crediti dalla Repubblica, fondarono
(1407) il primo istituto di credito, il più moderno del mondo, il Banco di San
Giorgio che, assumendo l’amministrazione delle colonie consentì ai fondatori di
recuperare i crediti. Il Banco divenne uno Stato a se stante, garanzia di
stabilità e propulsore della rinascita genovese, e restò attivo fino all’epoca
napoleonica.
Nel XIV sec. cessò il
dominio genovese sulla Sardegna invasa dagli aragonesi e, nel XV sec., Genova
conobbe il primo declino con la dominazione da parte dei Francesi di Carlo VI (1396-1406) che delegarono al governo della città
governatori con le stesse prerogative dei dogi. Approfittando dei dissidi
interni il Ducato di Milano dominò in due periodi sulla Repubblica (1421-1436
con i Visconti e 1464-1499 con gli Sforza) prima che i Francesi riprendessero,
fino al 1512, il governo della città. Frattanto le colonie genovesi in Medioriente venivano coinvolte nella caduta dell’Impero
Bizantino ad opera dell’Impero Ottomano (1455).
Nel XVI sec. emerse
la figura di Andrea Doria (1466-1560). Nel 1505, la rivolta contro i Francesi
fu guidata da Paolo da Novi che, eletto Doge (1507) venne giustiziato una volta
che i Francesi ripresero il controllo della città, ambita per la sua importanza
anche dall’imperatore Carlo V. Questi la contese ai francesi mentre le famiglie
cittadine, da secoli in contrapposizione, si schieravano con l’una o con
l’altra parte. In quella contrapposizione emerse un uomo d’arme come Andrea
Doria che aveva già prestato la sua opera a diversi contendenti. Passato al
servizio dell’imperatore Carlo V che aveva promesso di restaurare a Genova la
Repubblica, nel 1528, liberò Genova dalla dominazione francese e, rifiutata la
signoria della città, si proclamò “Padre della Patria”, divenendo attore della
rinascita della città che, dopo la cessazione della Compagna Communis e la conseguente
istituzione della Repubblica di Genova,
ebbe, quale primo risultato la conquista di Savona il cui porto fu distrutto ed
interrato mentre i genovesi provvidero a potenziare la fortezza del Priamar per garantirsi il dominio della città che non si
riprese più.
Per sopire le lotte
tra le molte famiglie aristocratiche venne fissato a 28 il numero di unioni tra
famiglie (Albergo) dai cui membri si
estraevano 400 nomi per costituire il Gran
Consiglio e, da questi, 100 per formare il Minor Consiglio.
Genova
nel XVI sec. (Cristoforo
De Grassi)
Nel 1547, la più
importante avversaria del Doria, la famiglia di Gian Luigi Fieschi,
ordì una congiura che, fallita, segnò la crisi della famiglia e la perdita di
vasti possedimenti. Andrea lasciò la sua eredità al nipote Gianandrea
(1539-1606) che ebbe ruolo nella battaglia di Lepanto (1571) dove comandò l’ala
destra dello schieramento cristiano contro i Turchi.
I cento anni che
seguirono, per lo splendore e lo sfarzo di cui la città si ammantò
(paragonabile a quello dei tempi dello crociate per cui venne definita
“superba” dal Petrarca e, dall’imperatore Rodolfo II d’Asburgo “serenissima”
come Venezia), vengono ricordati come El siglo de los genoveses per via della
costruzione dei grandi palazzi delle famiglie (barocco genovese della Strada
Nuova e di via Balbi) e dell’intreccio di interessi che legava i genovesi agli
spagnoli di cui la città finanziava con prestiti le imprese militari. Nel 1567
Genova acquisì dal marchese Del Carretto 1/3 del feudo di Zuccarello
presso Albenga, su cui vantava diritti Carlo Emanuele di Savoia.
Nel XVII sec. quando
Genova incominciò ad avviarsi verso il declino si scatenò tra la Repubblica
genovese e la famiglia Savoia, alleati dei Francesi, la guerra del sale (1625) che si concluse con l’acquisizione dei
restanti 2/3 del feudo di Zuccarello da parte dei
Genovesi. Questo divenne teatro di un conflitto, nel 1672, quando la Francia
tentò di aggredire la Repubblica per impossessarsi di quel piccolo feudo. La
città che si era fortificata con una nuova cerchia di mura (1626-1632) ed
alleata con la Spagna venne aggredita senza subire, in quell’occasione,
particolari danni. Il conflitto si protrasse e si concluse nel 1684 allorché
Genova dovette cedere alle imposizioni francesi rinunciando all’alleanza con la
Spagna.
Nel XVIII sec. le
condizioni della Repubblica non migliorarono e si ebbero due eventi
significativi del suo declino. Il primo nel 1746 allorché gli austriaci, per
punirla dell’appoggio fornito ai Francesi nel corso della guerra di successione
austriaca (1740-1748), marciarono e conquistarono Genova (1746) che si vide
imporre pesanti condizioni dal generale austriaco Botta-Adorno. La città, il 5
dicembre dello stesso anno, sollecitata alla sommossa dal giovane Gianbattista Perasso (Balilla), reagì ed espulse gli Austriaci. Il
secondo a seguito delle rivolte in Corsica che costrinsero il Banco di S.
Giorgio, amministratore dell’isola che aveva acquisito nel 1453 dopo
l’abbandono da parte di Alfonso V d’Aragona, a venderla alla Francia (1768).
Con la rivoluzione
francese, Genova, come Venezia si mantenne neutrale. L’Inghilterra mandò una
flotta nel Mediterraneo per indurre Genova ad entrare nell’alleanza
antifrancese mentre le truppe francesi invadevano la Liguria nella prima
campagna d’Italia di Napoleone del 1796. Genova stretta fra due fuochi si alleò
con la Francia.
In questo passaggio
la Repubblica di Genova cessò di esistere, sostituita dalla Repubblica Ligure
che venne inclusa nell’Impero francese (1805) e successivamente annessa al
Regno di Sardegna (1815).
La Repubblica di Pisa |
La
Repubblica di Pisa alla sua massima espansione
Pisa era la città più
importante della Marca di Tuscia che aveva la sua
capitale a Lucca, contro cui Pisa condusse la prima vittoriosa guerra comunale
(1003).
La potenza marinara
di Pisa nacque appunto nell’XI sec. e si affermò
negli scontri con le navi saracene dalla cui presenza liberò Reggio Calabria
(1005). Costruì la sua affermazione alleandosi con Genova nella conquista della
Sardegna e della Corsica, a questa impresa indotte dalla promessa della Santa
Sede che avrebbe lasciato le due isole al dominio di chi le avrebbe liberate
dagli infedeli. Il dominio sulla Sardegna fu assunto in prevalenza da Pisa e
quello sulla Corsica dai genovesi. Dopo essere pervenuta al controllo della
costa tirrenica, ottenuto quale contropartita a seguito del sostegno fornito al
Barbarossa, Pisa raggiunse la sua massima potenza nel XII-XIII sec. con il
controllo del Mediterraneo e l’ottenimento di basi commerciali in numerose
città del Medioriente nel periodo delle Crociate in
cui, pur marginalmente, fu coinvolta.
Per contendersi le
reciproche posizioni in Sardegna e Corsica e l’accaparramento dei mercati nel
sud della Francia dove Genova aveva assunto una posizione dominante, Pisa venne a scontrarsi con gli interessi di questa
concorrente. Le ostilità iniziarono nel 1165 in Francia, continuarono per le
postazioni commerciali in Sicilia e proseguirono fino alla sconfitta nella
determinante battaglia della Meloria (1284) che segnò
il ridimensionamento delle prerogative pisane sulla Sardegna. La successiva
devastazione di Porto Pisano (1290) a seguito di patti non rispettati e la
conquista (1324) degli avamposti pisani in Sardegna da parte degli Aragonesi
segnarono inevitabilmente il suo declino.
Essa mantenne la sua
indipendenza fino all’annessione (1406) da parte della Repubblica
fiorentina.
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