Dai Comuni alle Signorie*

 

 di  Franco Savelli

 

 

Introduzione - Milano, da Comune a Ducato dei Visconti e degli Sforza - Firenze, dal Comune alla Signoria Medici - La Repubblica di Venezia - Ducato degli Estensi a Ferrara, Modena e Reggio - Signoria dei Gonzaga a Mantova - Signoria dei Montefeltro e dei della Rovere ad Urbino - Signoria dei da Romano a Vicenza e dei della Scala a Verona - Signoria dei da Polenta a Ravenna - Signoria dei Malatesta a Rimini - Signoria dei da Carrara a Padova - Signoria degli Scotti a Piacenza - La Repubblica di Genova - La Repubblica di Pisa

 

*(leggi: Dal Feudalesimo ai Comuni; stesso sito)

 

 

L’affermazione delle Corporazioni, che in ambito comunale avevano assunto il predominio del potere economico e politico, aveva consentito, attraverso una legislazione antimagnatizia, di emarginare i membri delle più potenti famiglie (magnati). Alcuni di questi, rimasti in ambito comunale, attesero il momento propizio in cui il conflitto sociale divenne insostenibile per emergere e proporsi come l’elemento di riferimento idoneo a ristabilire la pace rotta dalle proteste dei salariati e dalla contrapposizione nobiliare. Essi assunsero allora cariche gestionali che riuscirono quindi a mantenere per lungo tempo se non a vita.

 

Le prime forme di potere signorile si affermarono nella seconda metà del XIII sec. allorché il comune podestarile fu messo in crisi da Federico II che, al fine di puntualizzare i diritti imperiali, convocò le Diete di Cremona (1226) e di Ravenna (1231). Evento che destò la preoccupazione dei Comuni indotti a coalizzarsi in Lega (II Lega lombarda) per contrastare gli intenti di Federico II che, per ritorsione, revocò i privilegi che il nonno Federico Barbarossa aveva concesso con la pace di Costanza (1183). Il conflitto, in cui si inserì il Papato in funzione antimperiale, determinò un riacutizzarsi dei contrasti che all’interno delle città opponevano le varie fazioni dell’aristocrazia militare e che avevano portato alla trasformazione del comune consolare in comune podestarile. Tali contrasti finirono con il determinare, soprattutto dopo la vittoria di Federico II a Cortenuova (1237) sulle milizie leghiste, l’affermarsi sul piano politico cittadino delle nuove famiglie dello schieramento imperiale, da cui Federico scelse ed impose i nuovi podestà e capitani del popolo. Questi si misero in contrapposizione con le città di fede guelfa in cui il podestà era di istituzione pontificia con il risultato che, in ogni singola città, il podestà si accanì contro la parte avversa che sovente fu costretta all’esilio.

Alla metà del XIII sec., dopo la scomparsa di un forte accentratore del potere imperiale quale era Federico II, si era creata, nel Settentrione d’Italia, la possibilità di pervenire alla costituzione di uno Stato unitario. Progetto che fu ostacolato dalla particolarità del potere comunale che, malgrado gli emergenti conflitti interni non sedati dalla gestione podestarile, si rivelò incapace di evolvere verso forme più avanzate di organizzazione. Infatti la esclusione dai diritti politici della popolazione del contado, le rivalità fra le organizzazioni artigianali e le proteste dei salariati crearono all’interno dei comuni una situazione caotica che si trasformò in anarchica allorché i magnati estromessi dal potere, anziché coalizzarsi, entrarono in conflitto fra loro per contendersi la possibilità di assunzione del potere.

E’ in questo contesto che incominciarono a sorgere le prime esperienze signorili determinate dalla tendenza di prolungare a vita le cariche comunali ed a rendere ereditario l’esercizio del potere. Infatti nella situazione di disordine venutasi a creare in diverse realtà comunali verso la fine del XIII sec. ed ancor più aggravatasi alla metà del XIV sec. a seguito del calo demografico causato dalla epidemia di peste (1348) e della conseguente crisi economica, i Podestà o i Capitani del popolo, rispondendo alla generale richiesta di ordine, con svariate strategie riuscirono ad assumere i pieni poteri trasformando, talvolta, da temporanea a permanente la loro carica di dominus civitatis. L’azione avviata dai Podestà, pur se consentì l’attenuarsi della conflittualità, non sempre riuscì a riportare quell’ordine necessario a consentire lo sviluppo delle attività. E quando si manifestò l’incapacità dei Podestà a sanare i contrasti cittadini ed i conflitti tra le famiglie magnatizie più rappresentative, si verificarono le condizioni per la ricerca di un nuovo equilibrio. E’ in questo contesto che maturò l’esito di affidare, da parte dei consigli municipali, il potere politico ad un signore appartenente alle forze propulsive della città, colto, avveduto, carismatico e dotato di tale credito da indirizzare le scelte politico-sociali pur mantenendosi all’esterno delle istituzioni. Egli assunse quindi un potere incondizionato (arbitrium) attraverso un atto di imperio personale o per designazione dell’’imperatore o del pontefice, ponendosi come riferimento all’interno ed all’esterno della comunità cittadina: all’interno come garante di pace e buona amministrazione legittimato quindi dal consenso popolare ed, all’esterno, come antagonista delle forze agenti sul territorio.

Con l’istituzione del regime signorile che si fondò sulla discrezionalità delle scelte di un solo individuo, sovente designato a vita, si realizzò una trasformazione delle istituzioni cittadine che vennero ad assumere i caratteri di una dittatura personale il cui fine di riportare ordine fu sovente ispirato all’assolutismo e sorretto da un arbitrio che travolse gli ideali caratterizzanti l’esperienza del comune. Il quale era invece fondato sulla partecipazione dei cittadini alla discussione pubblica e sul principio dell’alternanza la cui fonte d’autorità era legittimata dalla volontà del popolo, concepita dai contemporanei come atto di libertà.

Nel periodo XIII-XIV sec. le due forme di governo, quello comunale e quello signorile, anche nella stessa realtà, si alternarono in funzione della necessità e delle circostanze locali, per cui non è generalizzabile il concetto che la signoria abbia rappresentato l’esito agevolato dalla crisi dell’esperienza comunale in quanto vi furono situazioni in cui l’istituzione comunale seguì quella signorile (es. istituzione del comune a Verona dopo la signoria dei da Romano).

Il passaggio tra queste diverse esperienze politiche, da comune a signoria, si attuò attraverso una serie di diverse situazioni governate da eventi complicati ed avventurosi, corredati da rimescolamenti fra fazioni e da colpi di scena. Le modalità attraverso cui esso si realizzò possono essere riassunte nei casi in cui la città:

-     trovò al suo interno il signore capace di svolgere un ruolo di garante del programma politico popolare come si verificò a Verona, Piacenza, Ravenna e Padova rispettivamente con i della Scala, gli Scotti, i da Polenta ed i da Carrara;

-     affidò la gestione ad un signore forte in armi e sorretto da sostegni politici esterni come si verificò per gli Estensi a Ferrara, Modena e Reggio;

-     affidò la gestione ad un potente che godeva del consenso di gruppi sociali o di fazioni come avvenne a Milano con il vescovo Giovanni Visconti;

-     affidò la gestione ad un potente esterno senza rinunciare alla propria autonomia come il caso di varie città ghibelline della Toscana (tra cui la stessa Firenze), del Piemonte e dell’Emilia che si sottomisero spontaneamente all’egemonia del sovrano guelfo Carlo D’Angiò il quale si adattò a modellare la sua azione a favore degli interessi politici e sociali delle varie città;

-     veniva egemonizzata da un potente investito dall’imperatore,senza ricevere alcun riconoscimento istituzionale, come i da Romano nella Marca trevigiana;

-     mantenne caratteristiche repubblicane, come a Venezia, Pisa, Genova, pur se il potere oligarchico dei gruppi dirigenti si intrecciò con governi personali.

 

Nel XIV sec. si verificò la legittimazione imperiale di molte signorie attraverso la concessione del titolo vicariale (vicario dell’impero nell’ambito territoriale) che contribuì a mutare non solo la qualità del potere ma anche quella del rapporto territorio-impero. Infatti per un verso il signore veniva dotato di prerogative che, pur se di fatto preesistevano alla concessione, gli consentivano di svincolare l’esercizio del suo potere dai condizionamenti della politica cittadina e, per l’altro verso, all’imperatore veniva riconosciuta la sua autorità sul territorio. Il processo di legittimazione imperiale fu il presupposto del rafforzamento di molte dinastie che, così, non sentirono più la necessità di interpretare gli interessi delle cittadinanze per consolidare il loro potere. La qualcosa causò uno sfilacciamento dei rapporti tra signore e comunità cittadina che fu all’origine dei cambiamenti strutturali quali lo svuotamento dell’istituzione consiliare e la creazione di organi ristretti indirizzati dalla sola volontà del signore che poté così isolarsi in cittadelle e castelli interni alle mura, simbolica espressione del distacco dalla comunità cittadina. Alcuni signori, come gli Ezzelino, si macchiarono di comportamenti crudeli, altri, come Galeazzo Visconti, vennero accusati di abuso di potere per aver applicato un regime dispotico, al punto da venire definiti tiranni.

Il distacco venutosi a creare tra signore e tessuto sociale può spiegare la ragione per cui, dalla metà del XIV sec., i signori, alla ricerca di nuove fonti di legittimazione di un potere non sempre solido e condiviso, investirono in cultura ed arte, al fine di recuperare consenso ed organizzare un ritorno di immagine. Si moltiplicarono così le iniziative signorili nell’ambito dell’architettura, della pittura, della creazione di infrastrutture urbane e della rappresentatività per proiettare anche verso l’esterno una immagine munifica che potesse competere con le alte cariche politiche e religiose.

Da sottolineare che le signorie di cui si è descritta l’evoluzione della loro istituzione a partire dai comuni vanno identificate come cittadine, per distinguerle da quelle territoriali di origine feudale dell’Italia nordoccidentale.

Nell’Italia nordoccidentale emersero, come signoria o Stato feudale, il marchesato del Monferrato e la contea di Savoia. Il marchesato, costituitosi dal dissolvimento della marca aleramica, fu governato da un ramo dell’ultima dinastia imperiale bizantina, la famiglia dei Paleologi  prima che l’imperatore Carlo V lo assegnasse ai Gonzaga di Mantova (1559). La contea della dinastia Savoia, nata con Umberto I Biancamano (XI sec.) vassallo di re Rodolfo III di Borgogna, estese i suoi domini su un insieme di territori transalpini, scontrandosi nella sua politica di espansione con il blocco dei domini svizzero-germanici e con la monarchia francese che li spinse verso i territori padani dove trovarono la resistenza della signoria lombarda. 

 

Nell’Italia nordorientale le prime signorie cittadine si affermarono in Veneto con quella dei da Romano a Vicenza, degli Estensi a Ferrara, dei dalla Scala a Verona e dei da Carrara a Padova. Quindi, tra le altre più importanti, quella dei Visconti a Milano, dei Gonzaga a Mantova, dei Malatesta a Rimini, dei Montefeltro ad Urbino, dei da Polenta a Ravenna. In Emilia e Toscana i regimi popolari mostrarono invece una tenuta maggiore.

Lo Stato della Chiesa si era già consolidato nel XIII sec. ed, estendendosi verso la Marca anconetana, il Ducato di Spoleto e la Romagna, aveva assunto una configurazione che manterrà fino al 1860.

 

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Espansione territoriale delle signorie all’inizio del XV sec.

 

Verranno di seguito illustrate le più significative esperienze che, per i caratteri distintivi di ciascuna, sono quella di Milano in cui si creò una signoria dai caratteri emblematici, quella di Firenze dove si installò una signoria in cui sopravvissero le istituzioni repubblicane (signoria camuffata) e quella di Venezia dove, malgrado si fosse verificato un mutamento di tendenza oligarchica, non venne abbandonata l’esperienza repubblicana poiché i mercanti che gestirono il governo si fecero carico dei problemi del popolo. Queste tre grandi città, Milano, Firenze e Venezia, furono quelle che, nel momento in cui si diedero una solida struttura sociale capace di sostenere la loro intraprendenza in politica estera e di organizzare una consistente copertura militare, riuscirono a costituire una formazione territoriale ragguardevole (e Venezia anche un ampio corredo coloniale) ma non tale da potersi confrontare con le grandi monarchie europee del tempo.

Delle altre signorie sopra citate e delle Repubbliche di Genova e di Pisa verrà tracciato un sintetico profilo.

 

Casella di testo:  
Milano, da Comune a Ducato dei Visconti e degli Sforza
 

 

  Milano, da Comune a Ducato dei Visconti e degli Sforza
 

 

 

 

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“Testone” di Milano; anno ca. 1470

 

Dal periodo di dominio dei Franchi (774) che vi posero la sede imperiale, Milano si avviò a divenire il centro più importante della regione lombarda dove si diffuse il feudalesimo e gli ecclesiastici, con i privilegi riconosciuti, assunsero il potere di giurisdizione. Con la disgregazione dell’impero carolingio e la deposizione di Carlo il Grosso (887), i poteri politici furono ereditati dai feudatari ed, in città, dai vescovi che,  assumendosi il privilegio-onere di subentrare all’amministrazione carolingia, si assicurarono, di fatto, un potere riconosciuto, talvolta, dai feudatari ed, a partire dal X sec., dagli stessi imperatori. Fase in cui, accanto allo sviluppo dei commerci con le nazioni limitrofe, si costituì il libero Comune di Milano.

Nel XII sec., in seguito all’incremento della popolazione ed allo sviluppo della sua economia, Milano era divenuto il più potente comune della valle padana, tale da porsi in diretto conflitto con l’imperatore Federico I Barbarossa (1122-1190) allorché questi, nella dieta di Roncaglia del 1154, aveva inteso recuperare i diritti imperiali (iura regalia) che il Comune si era arrogato. Dopo aver ribadito i suoi diritti nella successiva dieta di Roncaglia del 1158, il Barbarossa si apprestò (1161) a sottomettere Milano, assediata per un anno prima che venisse distrutta, i suoi abitanti dispersi e raggruppati in quattro borghi sotto il comando di vicari imperiali. I milanesi dispersi si unirono agli abitanti degli altri centri lombardi e veneti nella costituzione della I Lega lombarda (Pontida, 1167) prima di dare inizio alla ricostruzione di Milano ed a predisporsi ad infliggere all’imperatore una pesante sconfitta a Legnano (maggio 1176). Con la pace di Costanza (1183) ai comuni venne riconosciuta autonomia amministrativa, politica e giudiziaria sotto forma di privilegio imperiale ed a fronte del versamento di una tantum e di un tributo annuo. Da allora in poi il contrasto si spostò all’interno delle mura e contrappose i ceti borghesi ai nobili che si costituirono rispettivamente in Commune populi e Commune militum. Nel tentativo di superare i contrasti si stabilì (1186 ) di affidare le funzioni amministrative ad un podestà, scelto al di fuori della città, che non sempre riuscì a dominare il circolo vizioso delle rivalità e delle vendette.

Con l’elezione a capitano del popolo di Pagano della Torre (1241), iniziò l’egemonia della famiglia della Torre (i Torriani) che si protrarrà fino al 1311 (Guido della Torre) alternandosi con quella con cui era entrata in conflitto, la famiglia Visconti (originaria di Massino sul lago Maggiore dove i suoi membri, vice comites: vice conti, erano vassalli arcivescovili).

Nel 1256 l’arcivescovo Leone da Perego, capo dei nobili, tentò di formare un governo aristocratico, escludendo dalla politica cittadina il popolo che reagì dando avvio a contrasti che culminarono con l’assassinio di un popolano. Sotto la guida di Martino della Torre, il Commune populi (di estrazione guelfa) insorse, costringendo l’arcivescovo ed i capi della nobiltà a lasciare la città (1257) ed a riparare a Castelseprio. Le milizie nobiliari del Commune militum (di estrazione ghibellina) si organizzarono e respinsero i popolani che, approntato il carroccio (simbolo del potere comunale) si prepararono allo scontro. Scontro evitato dalla Chiesa con l’attivazione di una strategia diplomatica che consentì ai rappresentanti dei nobili e del popolo di convenire una tregua (Parabiago) e quindi di siglare la pace di S. Ambrogio (agosto 1258). L’anno successivo Martino della Torre tentò di instaurare un regime popolare in cui, qualche anno dopo (1265) con Napoleone della Torre, si manifestarono tendenze assolutistiche alla cui contrapposizione si pose la fazione nobiliare. Questa, sconfitta, venne bandita dalla città (1274) e, sotto la guida del vescovo Ottone Visconti e con il sostegno del popolo divenuto insofferente verso i della Torre responsabili dell’aumento delle tasse, riuscì a sconfiggere a Desio (1277) i seguaci di Napoleone della Torre e ad assumere, di fatto, il controllo della città. Qui il potere, pur concentrato nelle mani di Ottone Visconti, non assunse la veste giuridica di signoria ma, fondandosi sulla dignità della carica e sulla sua capacità di coordinare la vita politica della città, diede ad Ottone la possibilità di porre le basi per l’affermazione dinastica della sua famiglia. A Milano, tuttavia, anziché un periodo di maggiore tranquillità se ne avviò uno di contrapposizioni che si concluse con l’affermazione di Matteo Visconti. Questi, designato alla successione da Ottone e nominato capitano del popolo (1289), governò in qualità di vicario generale per la Lombardia dell’imperatore Enrico VII di Lussemburgo (1308-1313) e si assicurò il controllo di Como, Novara e Pavia.

 A Matteo successe il figlio Galeazzo I e quindi il nipote Azzone Visconti (1302-1339) che, nel 1330, divenne signore della città (dominus generalis) e, fronteggiando abilmente sia le vicende amministrative interne che quelle di successione dell’ambito famigliare (1339, battaglia di Parabiago contro lo zio Lodrisio), superò definitivamente l’esperienza comunale per dare avvio alla formazione, espansione e consolidamento di uno Stato regionale che dalla Lombardia si estendeva fino a comprendere parti del Piemonte, Emilia, Svizzera e Liguria. Periodo in cui Milano, favorita dalla costruzione di una efficiente rete di canali navigabili e da floride reti commerciali, sviluppò le sue attività imprenditoriali nell’ambito della metallurgia e dell’industria tessile, dell’agricoltura e della zootecnia, divenendo una delle più fiorenti città d’Europa (100.000 abitanti). La trasformazione dello Stato regionale in uno Stato ”patrimonio privato di una famiglia” avvenne alla morte di Luchino (1339-1349) allorché il Consiglio generale ne proclamò l’ereditarietà a favore del fratello Giovanni (1349-1354).

Con Gian Galeazzo Visconti (1347-1402), signore dal 1378, lo Stato si trasformò in Ducato (1395) per concessione dell’imperatore SRI Venceslao di Lussemburgo (1378-1400), a fronte del pagamento di 100.000 fiorini. Gian Galeazzo governò con sagacia uno Stato che, ritenuto patrimonio privato, dotò di strutture avanzate e condusse al culmine della espansione acquisendo territori in Veneto, Toscana ed Umbria. Alla morte di Gian Galeazzo, Milano era diventata una città di rango e dimensioni europee, trafficata di commerci e ricca di ogni genere di merci e di eventi. Il Ducato venne ereditato dai figli Giovanni Maria (morto nel 1412) e Filippo Maria (1392-1447) responsabile della perdita di parte delle province e di un ridimensionamento che lo ridusse alla sola regione lombarda.

Filippo Maria aveva avuto (1425) un’unica figlia, Bianca Maria, che promise in sposa al capo delle milizie entrate in quell’anno alle sue dipendenze, Francesco Sforza (1401-1466), figlio illegittimo del soldato di ventura Muzio Attendolo Sforza da cui ereditò prestigio militare e politico divenendo uno dei maggiori condottieri del tempo. Fin dall’inizio i rapporti fra Filippo Maria e Francesco Sforza furono tempestosi e, benché il duca apprezzasse i servigi e le vittorie ottenute da Francesco per suo conto, lo relegò per qualche tempo a Mortara coll’intento di limitarne la forte personalità. Francesco Sforza sposò in seconde nozze Bianca Maria Visconti (1441) ed alla morte del Duca (1447), in mancanza di eredi maschi, si scatenarono rivalse ed una guerra di successione. In quell’occasione il popolo chiese la diminuzione delle tasse e le città suddite approfittarono della vacanza di potere per acquisire la libertà. Venezia occupò Piacenza e Lodi ed il patriziato di Milano colse l’occasione per istituire l’Aurea Repubblica Ambrosiana, prima che Francesco Sforza, pretendendo diritti di successione, ponesse sotto assedio Milano che conquistò nel 1450. Il suo governo si mostrò efficiente ed innovativo facendo della città un centro artistico e culturale che si tradusse in vasto consenso popolare. Creò anche un efficiente sistema fiscale che aumentò il gettito ma non fu altrettanto abile nel gestirlo.

A Francesco successe il figlio Galeazzo Maria (1444-1476) a cui si deve l’introduzione di una nuova moneta (il testone d’argento, per la presenza della sua immagine) che segnò il passaggio dalla monetazione medievale a quella rinascimentale. Dissoluto e dilapidatore di immensi tesori, inviso sia alla nobiltà che al popolo per le sue maniere scostanti, si creò molte inimicizie e risentimenti che causarono il suo assassinio ad opera di nobili milanesi. Gli sarebbe dovuto succedere il figlio di sette anni Gian Galeazzo (1439-1494) la cui reggenza fu assunta dalla madre Bona di Savoia. Soluzione a cui si oppose il fratello minore di Galeazzo Maria, Ludovico il Moro (1452-1508) il quale, dopo qualche tentativo infruttuoso, riuscì ad estromettere Bona e ad assumere la reggenza per conto del nipote Gian Galeazzo che, formalmente titolare del Ducato, sposò Isabella figlia di Alfonso II di Napoli. Ludovico tentò di intrattenere rapporti di solidarietà con la corte di Napoli ma allorché si vide rimproverare l’emarginazione a cui aveva costretto Gian Galeazzo, ritenne più conveniente legarsi al re di Francia, Carlo VIII (1483-1498), desideroso di conquistare il regno di Napoli su cui riteneva di vantare diritti per via della sua discendenza dai d’Angiò. Alla morte di Gian Galeazzo, Ludovico ottenne l’investitura sul Ducato da parte dell’imperatore Massimiliano I d’Asburgo (1493-1519). Carlo VIII per perseguire il suo obiettivo rivolto al regno di Napoli, scese in Italia, accolto ad Asti da Ludovico il Moro, e l’attraversò installandosi a Napoli (1495), senza incontrare resistenza da parte dei principi italiani che, timorosi di scontrarsi con la potenza francese ma consapevoli del pericolo che essa rappresentava, si coalizzarono sorretti dall’imperatore Massimiliano I e da Ferdinando II d’Aragona “il Cattolico”. Carlo VIII incalzato dallo sbarco di un contingente spagnolo nel Meridione d’Italia, risalì la penisola e, dopo uno scontro dall’esito incerto con la coalizione italiana, si fortificò a Novara. Qui lo raggiunse Ludovico il Moro che, pur avendo fatto parte della coalizione antifrancese, scelse di stipulare una pace separata in cambio del recupero di Novara. Con Luigi XII, cugino successore di Carlo VIII sul trono di Francia (1498-1515), non si sopirono i diritti sul regno di Napoli (riconquistato nel 1501). Anzi, egli, rifacendosi ai diritti ereditari derivanti  dalla nonna Valentina Visconti, intese conquistare anche il Ducato di Milano. E dopo aver patteggiato il consenso della Repubblica di Venezia e del Papa, intraprese un’azione che condusse alla capitolazione del Ducato ed alla cattura di Ludovico il Moro (1500). Ludovico aveva svolto una azione di governo di ampia portata nella promozione e nello sviluppo delle attività di uno Stato regionale quale era il Ducato il cui peso politico, militare ed economico restava tuttavia inconsistente se rapportato a quello delle grandi monarchie.

Il Ducato di Milano perse così l’indipendenza e resterà sotto dominazione straniera per 360 anni. Luigi XII resse il Ducato di Milano fino al 1512 allorché gli Svizzeri (partecipanti alla Lega Santa costituita da papa Giulio II con gli Asburgo, Venezia e Spagna) gli sottrassero il controllo affidandolo al figlio di Ludovico, Massimiliano. Nel 1515 i Francesi, con Carlo di Valois ripresero il controllo del Ducato fino alla conquista da parte delle truppe mercenarie dei Lanzichenecchi dell’imperatore Carlo V (1521) che, sotto il controllo di un governatore spagnolo, affidò la reggenza del ducato al fratello di Massimiliano, Francesco II (ultimo degli Sforza). Con la pace di Utrecht (1713) il Ducato di Milano passò dagli Spagnoli agli Asburgo d’Austria che lo mantennero fino al 1860.      

Nel periodo della Signoria Sforza si registrò, anche ad opera di Galeazzo Maria figlio di Francesco, lo sviluppo dell’industria tessile (coltivazione e lavorazione della seta), la funzionalità dei navigli (Leonardo da Vinci), la ristrutturazione del Castello sforzesco (già esistente in epoca viscontea), la costruzione dell’ospedale Maggiore, la realizzazione di numerose opere di rilevanza artistica (il Cenacolo di L. da Vinci, il Cristo alla colonna ed incisioni del Bramante). 

Gli Sforza condussero anche azioni espansive verso sud ed est, venendo in scontrasto rispettivamente  con la Signoria dei Medici e con la Repubblica di Venezia.

 

 

Firenze, dal Comune alla Signoria Medici

 Casella di testo:  
Firenze, dal Comune alla Signoria Medici
 

 

 


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Averardo dei Medici

 

All’inizio del XII sec., a seguito della morte della contessa Matilde di Canossa (1115) che governava con equilibrio e moderazione un vasto dominio comprendente parti della Toscana, dell’Emilia e della Lombardia, venne a mancare la funzione mediatrice (margraviato) tra Impero ed interessi regionali, consentendo a diverse realtà comunali di costituirsi in struttura autonoma. Così Firenze, pur avendo avviato fin dal 1125 la sua espansione con la conquista e la distruzione di Fiesole, successivamente a Lucca, Pisa e Siena, abbracciò la forma di Comune amministrato da consoli (1134). Evento che innescò una notevole crescita della città favorita dall’insediamento di mercanti ed artigiani provenienti dal contado, in misura tale da obbligare (1172) alla costruzione di nuove mura che inglobassero i recenti sobborghi che, sorti sulla riva sinistra dell’Arno, avevano triplicato le dimensioni dell’agglomerato urbano.

Lo sviluppo, derivante dall’affermazione dell’industria tessile collegata alla forte espansione di un commercio inserito nel circuito degli scambi europei e con la nascita delle banche, fece emergere nuovi ceti sociali. Il Comune, una volta consolidatosi all’interno, cercò di espandersi verso il contado assoggettando i feudatari che, pur se si difesero con determinazione, dovettero subire l’imposizione di risiedere all’interno delle mura dove, asserragliati in palazzi fortificati e caratterizzati da alte torri, entrarono in conflitto con la nascente borghesia manifatturiera, mercantile e bancaria.

Con l’ampliamento del territorio controllato, Firenze divenne una potenza regionale in grado di guardare ad orizzonti più vasti. In tale logica, si prestò a sostenere Pisa (1171) in difficoltà nella sua contrapposizione con Genova e con l’imperatore Barbarossa, a fronte di sostanziali concessioni nell’ambito del trasporto delle merci e di una percentuale sulle rendite della zecca pisana. Mentre Lucca e Siena rimasero schierate sul fronte opposto e, timorose della crescita di Firenze, continuarono a contrastarne l’espansione.

Negli ultimi decenni del XII sec. la crescita della popolazione aveva creato differenze sociali che incoraggiarono il tentativo della famiglia Uberti (1177), schierata a favore dell’Impero (ghibellini), ad assumere a nome di questi l’iniziativa di contrapporsi ai gruppi di famiglie nobili (consorterie) fedeli al Papa (guelfi) e detentrici del potere. La violenta contrapposizione si protrasse per tre anni prima che si costituissero (1182) le Corporazioni delle Arti e mestieri. Queste, in cui si inserirono le classi emergenti, si mostrarono  determinati ad intervenire nella gestione amministrativa fino ad allora riservata agli ecclesiastici ed ai ceti nobiliari. Occasione per il superamento dell’esperienza consolare (comune consolare) ed affidarsi al Podestà (1193), un amministratore scelto all’esterno che avesse dignità cavalleresca, abilità militare e conoscenza giuridica e, a garanzia di imparzialità, estraneo alle contese cittadine. Caratteristiche che inevitabilmente indirizzarono la scelta verso personaggi appartenenti a quella classe nobiliare che si voleva estromettere dal potere. Il podestà, affiancato da un consiglio oligarchico ristretto e da uno collegiale del quale facevano parte i capitani delle Arti, attraverso il controllo dei nodi stradali ed il transito delle merci, consolidò il dominio della città sul contado, da cui si mosse verso la città una moltitudine di popolo attratto dalla offerta di lavoro che lo sviluppo delle attività produttive garantiva. Esso si insediò in borghi fatiscenti all’esterno delle mura, presto raggiunto e sostenuto, con finalità educative contrapposte, sia dall’opera dei Frati dell’Ordine dei Mendicanti che da quella dei movimenti eretici (Catari).  

Il XIII sec. fu caratterizzato dalla divisione che, nella città, opponeva la fazione ghibellina guidata dalle famiglie Uberti, Amidei e Lamberti da quella guelfa in cui si riconoscevano le famiglie Buondelmonti, Pazzi e Donati. Le due fazioni, allorché l’imperatore Federico II impose come potestà (1246) il figlio naturale Federico d’Antiochia (sorretto da 1600 cavalieri) che in appoggio alla fazione ghibellina si fece affiancare da rappresentanti del popolo, iniziarono a contrastarsi apertamente. La contrapposizione si concluse con la cacciata dalla città dei guelfi (1248) che stabilirono più stretti rapporti con la sede pontificia e, quando la stella di Federico II si offuscò a seguito della sconfitta a Fossalta (1249), riuscirono a sconfiggere le milizie ghibelline in una imboscata a Figline Valdarno (1250). L’azione innescò una sollevazione di popolo che, preso dai suoi bisogni piuttosto che dalle dispute che dividevano i ghibellini dai guelfi, riuscì a mandar via Federico d’Antiochia e le famiglie che lo sostenevano. Si venne così ad istituire una nuova forma bilanciata di governo: da una parte il Comune retto dal Podestà affiancato da due consigli, dall’altra parte il Popolo (Governo del Primo Popolo) rappresentato da un Capitano del popolo affiancato da due consigli (uno rappresentante del territorio e l’altro delle Arti). Il Comune ratificava le leggi proposte dal Governo del popolo che assumeva anche il potere esecutivo.

Nei decenni successivi, mentre le attività economiche e commerciali si sviluppavano al punto che la prima moneta d’oro coniata in Occidente, il fiorino, veniva utilizzata in Europa e nell’area mediterranea per le più importanti transazioni, giunse alle strette la contrapposizione delle fazioni guelfa e ghibellina su cui si riflettevano le vicende politiche del resto d’Italia. Infatti, con il sostegno del re di Sicilia, Manfredi di Svevia (fratellastro di Federico d’Antiochia), simbolo e riferimento della fazione antipapale, i ghibellini riuscirono, con l’appoggio di 600 cavalieri tedeschi inviati da Manfredi, a sconfiggere i guelfi nella battaglia di Montaperti (1260) ed a riprendere il controllo di Firenze. I guelfi furono esiliati subendo ritorsioni di ogni genere. Nella successiva dieta di Empoli, ove si riunirono i vincitori ghibellini per decidere la sorte degli esponenti guelfi e della città di Firenze, Farinata degli Uberti, il nobile ed influente capo della consorteria ghibellina fin dal 1239, insorse a difesa della città contro la proposta avanzata dagli inviati di Pisa e di Siena di radere al suolo Firenze, a modello di quanto aveva fatto Federico Barbarossa con l’antimperiale Milano dopo averla conquistata (1162). La scomunica del papa si abbatte sui ghibellini di Firenze con un anatema che, sollevando i cittadini dal pagare i debiti ai creditori scomunicati, alterava la lealtà nei commerci. Uno stato di cose che si protrasse per poco perché, con la sconfitta di Manfredi nella battaglia di Benevento (1266) da parte di Carlo d’Angiò chiamato in Italia da papa Urbano IV al fine di contrastare il potere ghibellino, si realizzava il tramonto della potenza sveva in Italia ed il definitivo rientro dei guelfi a Firenze, dopo che una sollevazione popolare aveva provveduto a cacciare i ghibellini. A seguito di tali eventi si instaurò un governo guelfo che nominò podestà Carlo d’Angiò (1267), già distintosi per il suo fervore antighibellino con la decapitazione del fratello di Farinata catturato a Benevento. I ghibellini, pur esiliati, non furono completamente sconfitti e, per contrapporsi alla fazione guelfa detentrice del potere, lentamente rientrarono in città spinti dal ridimensionamento che Carlo d’Angiò aveva subito con la sua cacciata dalla Sicilia (Vespri Siciliani) e dal conseguente insediamento di Pietro III d’Aragona, divenuto il principale rappresentante della tradizione ghibellina antipapale. Il popolo, sostenuto dalla fazione guelfa, vide l’occasione per intromettersi nelle contrapposizioni aristocratiche e sostenne la Confederazione delle Arti nel costituire un governo (1282) che venne affidato ad un collegio di sei Priori scelti dalle Arti (solo gli iscritti erano cittadini con diritto di voto, circa il 5% della popolazione) in rappresentanza delle sei ripartizioni della città e nell’inserire suoi esponenti nel consiglio del Podestà (metà provenienti dalle Arti maggiori e metà dalle Arti minori i cui componenti erano molto più numerosi). Questa forma di governo, oltre a consolidare l’aristocrazia guelfa che riuscì a sconfiggere la fazione ghibellina di Arezzo (Campaldino; 1289), si rafforzò ad opera del priore Giano della Bella (di famiglia ghibellina, divenuto guelfo e sostenitore dei ceti più poveri) che riuscì a far promulgare gli Ordinamenti di giustizia (1293) che legavano l’amministrazione della città alle Arti (da cui, e fino al 1343, erano ancora esclusi salariati e braccianti), escludevano i magnati dalle cariche pubbliche a favore del nascente ceto borghese e creavano una nuova magistratura, il Gonfaloniere di giustizia, col compito di far applicare le leggi. Ma la fazione nobiliare soccombente non tardò, con l’aiuto del pontefice Bonifacio VIII (1294-1303) ad emarginare Giano della Bella che fu costretto all’esilio dal convergere d’interessi che si venne a creare tra nobiltà guelfa e popolo, bisognoso di sviluppare rapporti commerciali con le nazioni sostenitrici del Papato. Ma gli ordinamenti di giustizia introdotti, benché alcuni a carattere più spiccatamente antimagnatizio fossero stati attenuati, mantennero la loro impostazione originale pur se venne modificata l’accezione di “magnate”, inteso non più come detentore di sostanze e potere ma come oppositore della supremazia del popolo nel governo della Repubblica cittadina.

Si prevedeva un periodo di pace ma, sul finire del secolo la fazione guelfa si divise in guelfi bianchi e guelfi neri (denominazione nata dalla divisione fra i figli di primo e secondo letto della famiglia Cancellieri di Pistoia, con riferimento al colore dei capelli, “bianchi” quelli di primo letto, i più anziani) che provocò un più marcato orientamento del Comune in senso popolare. I guelfi bianchi, guidati dalla famiglia Cerchi, pur sostenendo il pontefice, non escludevano l’eventualità del ritorno dell’imperatore mentre i guelfi neri guidati da Corso Donati ritenevano che l’unico affidatario del potere potesse essere soltanto il Papa, missus dominici (mandato dal Signore). I due schieramenti nacquero a seguito di contrasti familiari in quanto i Cerchi, mercanti di recente ricchezza, avevano comprato abitazioni situate accanto a quelle dei Donati provocando una serie di dissidi dettati dalla convivenza. La rivalità fra queste fazioni divenne il centro della via politica della città e si concluse con la cacciata dei guelfi bianchi. Evento che non concluse le controversie in quanto i guelfi neri guidati da Corso Donati (donateschi) si divisero da quelli guidati da Rosso della Tosa (tosinghi). L’uccisione di Donati (1307) e la cacciata dei suoi seguaci procurò un periodo di temporanea pace in città.

AlI’inizio del XIV sec. Firenze che si avviava a rivenire la capitale di uno Stato regionale segnò nuovi progressi in campo artistico ed economico. L'arte fiorentina vide il completamento dei grandi cantieri aperti nel secolo precedente (Cattedrale di S.Maria del Fiore, Palazzo dei Priori e la cerchia muraria) e l’avvio di nuove opere come il Campanile di Giotto, il rivestimento del Battistero, la  Loggia della Signoria, la Loggia del Bigallo, oltre a palazzi, chiese e ponti sull’Arno. Nello stesso periodo si avviava il rinnovamento della letteratura (dolce stil nuovo) e della pittura (Cimabue e Giotto). In campo economico si registrò uno sviluppo nel commercio delle manifatture laniere e nelle attività bancarie, che elargivano prestiti a papi e re. Questi due filoni di attività si sostenevano a vicenda generando un circolo virtuoso che produceva straordinarie ricchezze ed espansione verso l’esterno con la conquista di Pistoia (1331), Arezzo (1337) e Colle di Val d’Elsa (1338). La crescita si interruppe quando, a causa della guerra dei cento anni (di successione e predominio territoriale tra Inghilterra e Francia, 1337-1453) si registrò l’insolvenza del re Edoardo III d’Inghilterra nei riguardi di molte delle ottanta banche fiorentine che gli avevano prestato ingenti somme di denaro, si ebbero una lunga serie di fallimenti che coinvolse le classi più esposte e le grandi famiglie. Solo poche delle banche coinvolte riuscirono ad evitare il crollo convertendo in tempo i loro beni. La crisi economica ebbe il suo epicentro con la paralisi delle attività conseguente all’epidemia di peste nera (1348) che ridusse circa alla metà (50.000) la popolazione fiorentina.

In campo politico il comune popolare sopravvisse e, per il superamento della crisi, si decise di affidare il governo ad un nobile francese Gualtieri di Brienne, (Duca d’Atene, 1342-43) che, ignorando gli interessi della classe mercantile che gli aveva affidato il potere, impose delle drastiche misure economiche correttive tese a rimediare al forte debito pubblico ed intraprese una politica volta a costituirsi una base di promozione personale. Motivo per cui i fiorentini si pentirono della scelta e lo cacciarono. Subito dopo (1345) si verificò una sommossa guidata da Cinto Bandini, che organizzò uno sciopero nel tentativo di associare i propri compagni di lavoro in una “fratellanza” che raccogliesse le adesioni di operai e artigiani. Il tentativo falli ed egli stesso fu arrestato e giustiziato.

Dopo la metà del XIV sec. l’economia stagnante e la crisi demografica provocarono nella città violente rivolte. Si costituì uno schieramento trasversale composto dal Popolo minuto e dalle famiglie arrivate dal contado a colmare i vuoti lasciati dalla pestilenza che si oppose al Popolo grasso costituito dalle famiglie benestanti. Questi due schieramenti reagirono compatti contro il tentativo dei legati pontifici di condizionare Firenze (rifiuto di fornire grano da parte del cardinale di Bologna, Guglielmo di Noellet), in vista di una ricomposizione dello Stato Pontificio per il ritorno dei Papi da Avignone (1377). La rivolta di Firenze contro gli apparati pontifici coinvolse altre città ed indusse papa Gregorio XI (1370-1378) a scomunicare i fiorentini dichiarando decaduto qualsiasi loro credito e ad avviare una ritorsione che si materializzò con la cacciata da Avignone e la confisca dei beni di seicento di loro. Con il nuovo papa, Urbano VI (1378-1389), Firenze stabilì un accordo che prevedeva il versamento da parte dei fiorentini di una penale in cambio della cancellazione dell’interdizione. Il Popolo minuto che aveva sostenuto la rivolta contro il papa si schierò anche con gli operatori nell’Arte della lana (ciompi) nella richiesta di salari più elevati, condizioni di vita migliori e di uno stato giuridico, richieste che per la prima volta venivano avanzate in Europa. I rivoltosi riuscirono a fare eleggere Gonfaloniere di giustizia il loro rappresentate Michele di Lando e ad ottenere che le loro richieste venissero accolte (1378). Ma dopo appena un mese, Michele di Lando, incapace di gestire una difficile situazione in cui si manifestavano all’interno della stessa categoria divisioni fomentate dal popolo grasso su cui sarebbe caduto il peso delle concessioni, strinse un accordo con una ristretta oligarchia di mercanti e banchieri fiorentini, tra cui Silvestro de’ Medici, che, nel reprimere duramente un nuovo tentativo di rivolta popolare, giunse all’annullamento delle concessioni precedentemente concesse.

La maniera con cui si concluse il tumulto dei ciompi fu l’occasione per una ristretta oligarchia di famiglie di antica nobiltà (Strozzi, Peruzzi, Castellani), tra cui primeggiavano gli Albizzi, di installarsi sulle ceneri del regime comunale, esauritosi nella instabilità e nelle violenze, per riappropriarsi del potere gestionale (1382) e riportare la pace all’interno della città. L’oligarchia di famiglie, forte del ritorno dell’economia ad un livello fiorente, cercò di mantenere il potere per interposta persona, non disdegnando la violenza per tenere al riparo i ricchi dalle riforme giustizialiste dei poveri ed assicurando a Firenze un nuovo periodo di splendore simboleggiato dall’avvio dei lavori per l’imponente cupola del Brunelleschi in S. Maria del Fiore (1421). Contro l’oligarchia al potere non tardò a formarsi una coalizione di famiglie emergenti (Portinari, Benci, Tornabuoni) tra cui quella di Giovanni dei Medici che, giunta dal contado nel secolo precedente, aveva avviato, con l’esattore Averardo, fortunate attività commerciali e fondato una banca divenuta una delle più potenti d’Europa. Alla morte di Giovanni (1428) che era diventato molto popolare per via di una tassa applicata ai ricchi, subentrò, alla guida della famiglia, Cosimo “il Vecchio” (1389-1464) che, pur defilato dalla diretta gestione, aveva utilizzato risorse e guida personali nella contrapposizione con Lucca, sollevando negli Albizzi sospetti sulle sue mire di potere. Nel 1433 fu nominato Gonfaloniere di Giustizia, Bernardo Guadagni, che, legato alla famiglia Albizzi, sembra abbia operato per far imprigionare Cosimo con l’accusa di cospirazione contro la città. Cosimo riuscì a farsi derubricare la pena di morte in quella di esilio a Venezia (prima cacciata dei Medici da Firenze) dove si recò lasciando però i suoi fedeli ben inseriti nei gangli dell’amministrazione. Rinaldo degli Albizzi non ebbe la capacità di gestire la nomina del Gonfaloniere del 1434, anno in cui ne venne scelto uno legato ai Medici che fece rientrare Cosimo dall’esilio. Cosimo il Vecchio, ricco, potente e dalla forte personalità, cercò, senza assumere direttamente cariche ma manovrando personaggi fidati che aveva inserito nelle istituzioni, di acquisire potere politico, anche a tutela delle sue immense ricchezze. Sostenuto dalle Corporazioni delle Arti, riuscì ad assumere un dominio gestionale che mantenne per un trentennio (e la famiglia quasi ininterrottamente fino al 1734) esercitando un ferreo controllo sulle scelte politiche senza il bisogno di introdurre modifiche alle istituzioni vigenti. In tale scelta sta la caratteristica che rende l’esperienza della famiglia Medici una Signoria mascherata dalle istituzioni repubblicane. Cosimo, che aveva cullato il sogno di unificare l’Italia, si accontentò di un accordo con Milano, Venezia e Napoli volto a contrastare le incursioni straniere. Morì nel 1464.

Con il nipote di Cosimo, Lorenzo “il Magnifico” (1449-1492), figlio di Piero “il Gottoso” che mantenne l’autorità per pochi anni, la famiglia raggiunse il massimo prestigio e consenso popolare, facendo di Firenze il centro delle attività culturali e della politica italiana. Egli era stato addestrato e coltivato per la gestione di un potere personale che, al di fuori di ogni carica, gestì per avviare il processo di rinnovamento morale, culturale ed artistico che prese il nome di Umanesimo o Rinascimento. Egli subì l’attacco più grave nella storia della famiglia, la Congiura dei Pazzi in cui perse la vita il fratello Giuliano ed egli stesso venne ferito. La congiura fu organizzata allorché papa Sisto IV (1471-1484) che, per nepotismo, aveva manifestato interessi ad impadronirsi dei ricchi territori fiorentini e, in opposizione ai Medici, aveva spostato l’amministrazione delle ingenti sostanze pontificie dalla banca dei Medici che l’aveva ricevuta da papa Nicolò V (1655-1667) a quella della famiglia Pazzi, a cui era stato riconosciuto anche lo sfruttamento delle miniere di allume della Tolfa. Lorenzo aspettò il momento favorevole per vendicarsi dello smacco subito. La frattura fra le due famiglie uniti da vincoli di parentela si rese evidente in occasione di reciproche ritorsioni. La congiura, ordita da Jacopo e Francesco Pazzi e sostenuta dal Papa, mirava a liberarsi dai Medici di cui era stata prevista la soppressione dei fratelli Lorenzo e Giuliano nel corso di una funzione religiosa (aprile 1478). Giuliano venne ucciso mentre Lorenzo, ferito, riuscì a sottrarsi. Il popolo, diversamente dalle attese dei congiurati, si schierò completamente dalla parte di Lorenzo punendo duramente i responsabili che furono catturati ed impiccati. Gli altri componenti la famiglia Pazzi furono esiliati ed i beni confiscati. Lorenzo non intervenne a stemperare la furia popolare ma colse l’opportunità per limitare alcune libertà attraverso una riforma delle istituzioni che furono maggiormente adeguate alla sua possibilità di gestione. Lorenzo, diplomaticamente abile, riuscì a stabilire rapporti con gli altri governanti italiani attuando una politica di coesistenza pacifica ma, come Ludovico il Moro a Milano, dovette fare i conti con la potenza territoriale del suo Stato, limitata se rapportata alle grandi monarchie con cui si dovette confrontare. Infatti, dopo la sua morte (1492) venne meno sia l’equilibrio interno che quello esterno. All’interno, la presenza ingombrante del suo nemico dichiarato, il monaco domenicano Girolamo Savonarola (1452-1498) che, sostenitore di una profonda revisione dei costumi, diede una spinta disgregatrice alla coesione interna. All’esterno l’equilibrio tra gli Stati italiani si era allentato ed, a seguito della discesa in Italia (1494) del re di Francia, Carlo VIII, spinto dall’intento di riconquistare il regno di Napoli (v. sopra), subì un ulteriore sussulto. Il figlio di Lorenzo, Piero de’ Medici (1389-1464), timoroso di scontrarsi, dovette scendere a patti e consegnare a Carlo VIII quattro roccaforti sui confini toscani ed aprirgli le porte della Repubblica. Decisione contro cui il popolo reagì cacciando Piero (1494; II cacciata dei Medici) ed accogliendo il re francese come un liberatore. La discesa in Italia di Carlo VIII diede l’avvio ad una serie di guerre che, combattute fra imperiali, Francesi e Spagnoli, segnò l’inizio della supremazia spagnola sulla penisola. Dopo la cacciata dei Medici, Savonarola accentuò la sua predicazione profetica e divenne (1494) il capo effettivo di una repubblica teocratica sottoposta ad un severo regime morale sorretto dal popolo che appoggiava la sua legislazione democratica, la riforma delle imposte e l’abolizione dell’usura. Ma il potere di Savonarola fu breve. Travolto dalle lotte tra le fazioni fu sopraffatto dall'opposizione di papa Alessandro VI (Rodrigo Borgia; 1492-1503) che lo scomunicò e lo condannò al rogo. L’autorità fu allora assunta dal cardinale Giovanni dei Medici che, dopo aver partecipato con Papa Giulio II alla Lega santa che aveva sconfitto Luigi XII (v. sopra: Milano, da Comune a Signoria) protettore di Firenze, rientrò in città (1512) prima di essere eletto Papa (Leone X; 1513-1521; grande mecenate di Raffaello e Michelangelo). Durante il suo pontificato Leone X continuò a dirigere dal Vaticano le sorti della città ed a promuovere i membri della sua famiglia.

A Leone, dopo un breve intermezzo, subentrò il cugino Giulio, Clemente VII (1523-1534). Questi ebbe difficili problemi di conduzione. Infatti dopo aver posto alla gestione di Firenze il figlio naturale, Alessandro (1510-1537), nella politica pontificia si ispirò alle scelte di maggior profitto, abbandonando la tradizionale alleanza con la Spagna per allearsi con la Francia e provocare la reazione dell’imperatore SRI e re di Spagna, Carlo V. Questi con l’esercito mercenario dei Lanzichenecchi, dopo aver conquistato il Ducato di Milano (1521), lasciò alle soldatesche di fede luterana rimaste senza paga libertà di marciare verso Roma e sottoporla a saccheggio (Sacco di Roma, 1527). I Fiorentini, alla notizia, reagirono cacciando per la terza vola i Medici dalla città e tentando il ripristino di uno Stato repubblicano. Solo l’accordo ristabilito tra l’imperatore Carlo V e papa Clemente VII consentì, dopo un lungo assedio (1529-1530), il definitivo abbattimento del regime repubblicano (ma i guai per Clemente VII non finirono perché, a seguito del rifiuto di concedere l'annullamento del matrimonio al re d’Inghilterra  Enrico VIII, sorse un nuovo contrato che portò allo Scisma anglicano). Da allora, con Alessandro de’ Medici (1531) che ricevette da Carlo V, di cui aveva sposato una figlia naturale, il titolo di Duca, la presenza medicea di fece sempre opprimente al punto da trasformare la Repubblica, ormai svuotata dei suoi contenuti democratici, in un Ducato governato da un Senato (quarantotto membri) e da un Consiglio (duecento membri). Dopo l’assassinio di Alessandro (1537) da parte del cugino Lorenzaccio de’ Medici, ambedue viziosi e crudeli e divisi da tempestosi rapporti, si estinse la linea diretta di discendenza. Il governo venne affidato ad un discendente indiretto Cosimo I (1519-1574) che, di carattere mite ma forte, diede inizio con una politica espansionista alla conquista di Siena che, trasformata in Ducato, mantenne autonomia governativa, seppur con amministratori controllati dai Medici. Con la bolla emessa (1569) da papa Pio V (1566-1572) Cosimo ottenne il titolo di granduca e la Toscana trasformata in Granducato.

La dinastia de’ Medici resse le sorti del Granducato fino alla morte di Gian Gastone (1737) che, privo di eredi, chiuse la storia della dinastia medicea.

Nel corso degli accordi di Utrecht e della Pace dell’Aia (1720) che suggellarono la guerra di successione spagnola, era stato riconosciuto il diritto di successione nel Granducato di Toscana, la cui dinastia era in estinzione, ai figli di Elisabetta Farnese, discendente da Margherita de’ Medici. Nella pace di Vienna (1735) tenutasi a seguito della guerra di successione polacca, il Granducato di Toscana cambiò destinazione e fu affidato a Francesco Stefano di Lorena che, sposando Maria Teresa d’Austria, diede origine alla dinastia Asburgo-Lorena del Granducato di Toscana.

La storia della famiglia Medici che vanta due regine di Francia (Caterina, moglie di Enrico II, e Maria, moglie di Enrico IV) e tre papi (oltre ai citati Clemente VII, Leone X, vi fu il breve pontificato di Leone XI, aprile 1605) si chiuse, nel 1743 con Anna Maria Luisa. Ella donò alla città di Firenze gli immensi tesori del patrimonio familiare che servirono per costituire i famosi musei cittadini, dopo aver stipulato con i successori Lorena un patto di famiglia che stabiliva che essi non potessero “levare fuori della Capitale e dello Stato del GranDucato... gallerie, quadri, statue, biblioteche, gioje ed altre cose preziose... affinché esse rimanessero per ornamento dello Stato, per utilità del Pubblico e per attirare la curiosità dei Forestieri”. 

 

 

La Repubblica di Venezia (R. di S. Marco)
 

 

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Domini di Venezia alla loro massima estensione (XVI sec.)

 

 L’evoluzione politico-sociale di Venezia ebbe un percorso diverso da quello di Milano e di Firenze. Venezia deteneva una posizione di rilievo sia nell’area mediterranea che in Europa per la competitività che avevano assunto i suoi ceti mercantili ed armatoriali grazie alla capacita con cui questi riuscivano a mantenere all’interno una amministrazione ordinata ed efficiente. In questa prospettiva, la Repubblica di Venezia resta l’unica formazione politica italiana degna di un apprezzamento positivo per l’equilibrio che riuscì a mantenere tra i ceti popolare, mercantili e nobiliari. Ciò in quanto non avendo Venezia vissuto l’esperienza feudale, non si era formata una nobiltà terriera dagli interessi contrapposti a quelli popolari.

La Serenissima Repubblica di Venezia (Repubblica di S. Marco o Repubblica veneta) il più antico Stato italiano, nacque nel IX sec. da territori bizantini della Venetia maritima dipendenti dall'Esarcato di Ravenna. L’origine del Ducato deve farsi risalire alla riforma delle province italiche di Bisanzio promossa dall'imperatore Maurizio di Bisanzio (529-602), che nominò a capo della Venetia un dux, divenuto quindi doge/duca.

 A seguito delle ripercussioni ricadute sui territori bizantini d’Occidente della Guerra iconoclasta promossa dall’imperatore bizantino Leone III (717-741), il popolo veneziano, sollecitato dal clero, si ribellò appropriandosi del diritto imperiale della nomina del dux/doge, diritto riconosciuto dall’imperatore nel 742, anno in cui la capitale del Ducato venne trasferita da Eracliana a Metamauco. Situazione che si protrasse fino alla conquista da parte dei Longobardi (VII sec.) prima e poi dei Franchi (809) che, agendo in risposta alle aggressioni bizantine su Comacchio, costrinsero il Doge a rifugiarsi a Rivoalto. Dove, a seguito della vittoria della flotta veneziana su quella franca (810), venne trasferita la capitale (812) decretando l’effettiva nascita di Venezia.

Venezia, che era divenuta una città solida, prospera, industriosa e dotata di una eccellente flotta mercantile, si diede forme di governo che inizialmente modellò su quelle bizantine prima di distaccarsi progressivamente da esse. In quel periodo, con il tentativo di rendere ereditaria la carica di Dux con l’associazione di un erede (co-Dux), si sviluppò un sistema di potere che vide in concorrenza le famiglie patrizie divenute il nucleo della oligarchia mercantile.

Nel XII-XIII sec., mentre i comuni della terraferma erano coinvolti nelle lotte contro Federico Barbarossa e Federico II, Venezia, grazie all’espansione delle attività commerciali, riuscì ad espandersi verso le coste istriane e dalmate ed a stabilire solidi rapporti commerciali con l’Oriente ricevendo dall’imperatore bizantino il riconoscimento del Ducato di Venezia e della Dalmazia. Quindi, pur mantenendosi estranea ad ogni controversia Papato-Impero, Venezia entrò in conflitto con i Normanni di Roberto il Guiscardo che, con l’occupazione di Durazzo e Corfù (1081) appartenenti all’impero bizantino, venivano a disturbare i suoi interessi in quell’area. Dopo la morte di Roberto il Guiscardo, Venezia riuscì a riconquistare i due porti per restituirli all’imperatore Alessio Comneno che, quale contropartita, le accordò (1082) una concessione che garantiva esenzioni e privilegi per i suoi mercanti in tutta l’area bizantina. Privilegi che indussero Venezia a non farsi coinvolgere nelle prime crociate per non alterare i rapporti con l’Oriente. Quindi, costatando i vantaggi acquisisti dalle concorrenti Genova e Pisa con le basi cristiane in Medioriente, anche le flotte veneziane si resero disponibili a prendere parte alle crociate fino al punto di favorire, nella IV crociata, la conquista di Costantinopoli (1204) e la nascita dell’Impero Latino d’Oriente, dove il doge veneziano Enrico Dandolo (1107-1205) impose il patriarca cattolico Tommaso Morosini. Il ruolo acquisito pose Venezia in conflitto con la concorrente Genova che si scontrarono (1293-1299) al fine di mantenere il predominio sui traffici in Medio Oriente. Venezia prima subì una sconfitta presso le isole curzolari (1298) dove i Genovesi di Lamba Doria distrussero la flotta veneziana di Andrea Dandolo, catturando Marco Polo, poi riuscì a prendersi una rivalsa con le galee di Domenico Schiavo che penetrarono nel porto di Genova. Di fronte al rapido degenerare del conflitto che metteva a rischio gli interessi di entrambe, Venezia e Genova giunsero ad un accordo (Milano, 1299) mediato da Matteo Visconti. Tuttavia il dissidio fra le due repubbliche si concluse nel secolo successivo dopo la guerra di Chioggia (v. seguito).

Il successo commerciale di Venezia, il cui territorio includeva gran parte della regione nord-orientale d’Italia e delle coste ed isole del Mare Adriatico, era garantito dalla stabilità politica interna. Il massimo organo consiliare della Repubblica era il Maggior Consiglio cui spettava il potere legislativo e la nomina di tutte le magistrature e della massima carica dello Stato, il Doge. I primi dogi erano stati eletti a suffragio popolare ma, col tempo, il diritto di voto fu limitato, attraverso una complicata procedura, a gruppi sempre più ristretti. Il poteri del doge, inizialmente ampi, vennero successivamente trasferiti al Consiglio cui accedevano solo le famiglie nelle cui mani era concentrata la ricchezza della Repubblica. Nel 1297 fu votata una legge che sbarrò l’accesso a tutte le famiglie che non fossero state già presenti negli ultimi quattro anni, ciò che viene ricordato come la “serrata” del Maggior Consiglio. Si impediva così l’accesso ai nuovi ricchi perpetuando il potere ad una stretta oligarchia che resse nel tempo, per la capacità dei governanti di interpretare e di sostenere gli interessi generali attraverso lo sviluppo dell’economia ed il mantenimento di una politica che non venne a comprimere la classe popolare. Il Maggior Consiglio riuscì a stroncare, nel corso del XIV sec. tentativi di istituire governi personali, per prevenire i quali e per vigilare sulla sicurezza della Repubblica, si pensò alla istituzione del Consiglio dei Dieci dotato di vasti poteri.

Nel XIV sec. Venezia, per dar corso alla sua politica espansionistica verso Oriente, riaccese il conflitto con la rivale di sempre, Genova, che la impegnò in una serie di conflitti (1351-1355) senza esiti determinanti. Quindi, nel momento in cui Venezia assunse il controllo di Cipro, Genova riuscì a sensibilizzare altri oppositori (padovani ed austriaci) che, timorosi delle mire veneziane, si coalizzarono per contenerle. Genova riuscì ad occupare temporaneamente Chioggia (1378-81) che venne subito riconquistata da Venezia. Con la pace di Torino, Venezia, per sottrarsi ad uno scontro dagli esiti incerti, accettò di riconoscere i diritti dei suoi contendenti mentre Genova, in quel tempo tormentata da lotte al suo interno, fu indotta a ritirarsi dall’Adriatico ed a non interferire più con gli interessi di Venezia.

Nel XV sec., a seguito dell’affermarsi dell’Impero ottomano che chiuse alle navi italiane le vie dell’Oriente e delle mire della Signoria Visconti di Milano sui territori della pianura padana, la Repubblica di Venezia decise di concentrare i suoi sforzi nel controllo e rafforzamento del suo entroterra, conquistando, con il brillante contributo del condottiero di ventura Bartolomeo Colleoni, Padova, Verona, Brescia, Cremona e Bergamo, quindi il Polesine e la riviera d’Istria. Le mire di espansione verso la Romagna misero Venezia in conflitto con il Papa che costituì, per contrastarla, una forte ma effimera coalizione, costituita da SRI, Francia ed Aragona le cui armate si arrestarono ai margini della laguna prima di dissolversi e consentire a Venezia di uscirne indenne.

L’inizio del XVI sec. coincise con il suo massimo ampliamento territoriale e l’avvio del declino allorché le grandi nazioni europee (Francia, Aragona ed Impero sorrette dal Papa Giuliio II) si coalizzavano nella Lega di Cambrai (1508) per contenere le mire di Venezia che venne sconfitta ad Agnadello (1509). E quando Giulio II (1503-1513) valutò che la Francia rappresentasse per gli equilibri nella penisola una minaccia ben più grave di Venezia, si ritirò dall’alleanza per legarsi con Venezia, imitato l’anno successivo dalla Spagna e dal SRI che assieme costituirono la Lega santa contro la Francia di Luigi XII (v. sopra, Milano ..). Successivamente anche l’Impero ottomano (Selim II) attaccò i domini veneziani conquistando Cipro (1569). Venezia reagì all’attacco, riallacciando i rapporti con papa Pio V (1560-1572) e costituendo una Lega cristiana (1571) che, oltre a Venezia e Papato, comprendeva Spagna, Impero e Genova. La flotta cristiana, comandata dal figlio naturale di Carlo V, Giovanni d’Austria, riunitasi nel golfo di Lepanto sconfisse (ottobre 1571) quella ottomana dando un segno della volontà di riscossa cattolica. Il mancato prosieguo delle attività belliche contro i Turchi è attribuibile allo scarso interesse da parte degli alleati ed alla mancanza di risorse da parte di Venezia. La quale, essendo la più esposta alla ritorsione turca, fu costretta a firmare un trattato di pace con i Turchi a cui veniva riconosciuta la conquista di Cipro e di altri possedimenti veneziani. Successivamente Venezia, pur essendo costretta a cederne altri ai Turchi, riuscì a conservare i domini dalmati.

Nel XVII sec., oltre all’interdizione da parte di Paolo V (1605-1621) per la decisione di processare nei suoi tribunali civili due sacerdoti colpevoli di reati comuni, si manifestò più acuto il declino a causa dello spostamento dal Mediterraneo all’Atlantico dell’asse dei traffici con le Americhe. Un ridimensionamento che, nel XVIII sec., la indusse ad una politica di conservazione e di neutralità.

Dopo un ragguardevole sviluppo artistico nell’ambito della musica (Vivaldi), pittura (Tiepolo e Canaletto) e della letteratura (Goldoni), si palesarono le nuove idee portate dalla rivoluzione francese. Il governo anziché aprirsi si arroccò su posizioni conservatorie che portarono alla caduta della Repubblica. Questa (1797) venne invasa dalle truppe napoleoniche che minacciarono di penetrare nella città, costringendo Il Doge (maggio 1797) a deporre le insegne ed il Consiglio a dichiarare decaduta la Repubblica e ad istituire un Governo provvisorio che diede libero accesso a Napoleone. Questi, a seguito del trattato di Campoformio, cedette all’Austria gran parte del territorio veneziano ed alla Repubbliaca Cisalpina, Bergamo e Brescia.

Con la caduta di Napoleone il Ducato di Venezia e Milano diedero origine al Regno Lombardo-veneto sotto il dominio austriaco.

 

 

Signoria degli Estensi a Ferrara, Modena e Reggio

 

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Borso d’Este

 

Esso è nominalmente il più antico ducato (Ducatus Ferrariae), istituito dal re  longobardo Astolfo (755) allorché questi aveva sottratto al Papa (751) l’Esarcato di Ravenna, prima che i Franchi provvedessero a restituire quest’ultimo al Pontefice. Il ripristinato Ducato fu concesso dal Papa dietro pagamento di un tributo alla dinastia dei di Canossa. Dopo la morte (1115) dell’ultima erede dei Canossa, Matilde, si costituì il libero Comune di Ferrara, dove si trasferì la famiglia d’Este, che con Folco aveva ottenuto il titolo di marchese. I marchesi d’Este, di parte guelfa e feudatari dello Stato della Chiesa, appartenevano alla stirpe degli Obertenghi ed, imparentati con i Welfen (guelfi) bavaresi, facevano parte dell’aristocrazia imperiale ed erano titolari di numerose concessioni.

Dopo le contese con le famiglie aristocratiche dei Torelli e degli Adelardi, gli Este, con la nomina a podestà di Azzo VII (1242-1259), dopo la vittoria di questi su Ezzelino da Romano (1242), acquisirono definitivamente la signoria di Ferrara (feudo papale). Alla morte di Azzo i cittadini conferirono “il dominio della città e del distretto” al nipote Obizzo II che, destreggiandosi tra Papato ed Impero, ottenne la signoria dei feudi imperiali di Modena (1288) e Reggio (1289).

Borso d’Este (1413-1471) riuscì ad ottenere per entrambe le signorie (rispettivamente dal Papa nel 1471 e dall’imperatore nel 1452) il titolo ducale. Borso avviò l’opera, conclusa dal fratellastro Ercole I (1431-1505) che gli successe, di trasformare Ferrara in uno dei centri culturali ed artistici più attivi del Rinascimento, ospitando letterati (Ariosto e Tasso) ed artisti (della Francesca, Mantegna, Tiziano) le cui opere si aggiunsero ad una vasta e varia  collezione. 

Nel 1598, non avendo Alfonso II d’Este (1533-1597) figli legittimi, nominò come successore il figlio naturale Cesare d’Este-Montecchio. Il Papa, diversamente dall’imperatore Rodolfo II, non riconobbe la successione  (Bolla papale di Pio V che escludeva dalle successioni dai feudi pontifici i discendenti illegittimi) per cui gli estensi, rimasti titolari del solo Ducato di Modena e Reggio, trasferirono a Modena la capitale e, per unione matrimoniale, Ercole III (1727-1803) acquisì (1741) anche il ducato di Massa e Carrara. Con la morte di Ercole si estinse la casata e la figlia Beatrice, sposando Ferdinando d’Asburgo, fondò la dinastia degli Asburgo-Este che rimase titolare del Ducato fino all’annessione al Regno di Sardegna (1860).

Il Ducato di Ferrara ritornò allo Stato Vaticano che lo mantenne fino al 1860.

 

 
Signoria dei Gonzaga a Mantova

  

 

 L’imperatore Sigismondo incorona Francesco Gonzaga (Tintoretto)

 

Dopo la scomparsa della contessa Matilde di Canossa (1115), a Mantova si costituì il libero Comune, periodo in cui si insediò la famiglia Gonzaga.

La signoria dei Gonzaga nacque nel 1328 a seguito di una congiura, contro il signore (dal 1312) Rinaldo Bonacolsi “il Passerino”, capeggiata dal podestà Luigi Gonzaga (1568-1591) e protetta da Cangrande della Scala, a sua volta intenzionato ad insediarsi a Mantova. La congiura andò a buon fine e Cangrande fu messo fuori gioco dal riconoscimento di Luigi a Capitano generale dell’istituzione comunale. L’anno successivo (1329) Luigi Gonzaga ricevette dall’imperatore Ludovico “il Bavaro” (1314-1357) la nomina a vicario imperiale che esercitò anche su Cremona e Reggio.

I successori subirono la signoria feudale dei Visconti fino a che Francesco I (1382-1407), ultimo dei capitani, si affrancò fondando un principato autonomo. Nel 1433 Gian Francesco Gonzaga (1407-1444) ricevette dall’imperatore Sigismondo di Lussemburgo (14011-1437) la nomina di marchese, con ciò acquisendo la forza per condurre una politica autonoma di alleanze con i Visconti o con Venezia. Con Francesco II (1484-1519), Mantova divenne uno dei centri della politica italiana del Rinascimento e raggiunse il culmine della sua potenza con Guglielmo (1550-1587). I Gonzaga commissionarono opere a numerosi artisti (tra cui Pisanello, Rubens e Mategna) ed affidarono l’ordinamento urbanistico della città all’allievo del Raffaello, Giulio Romano, che lasciò traccia di se in tutto il centro storico.

La signoria dei Gonzaga su Mantova durò fino al 1708, allorché fu assorbito dall’Impero. Nel 1700 in occasione della controversa europea (guerra di successione spagnola) sorta a seguito alla destinazione, in mancanza di eredi, del trono di Spagna ad un esponente dei Borbone di Francia, Ferdinando Carlo Gonzaga si schierò con la Francia e la Spagna (contro Inghilterra, Austria ed Olanda). Dopo la sconfitta patita dalla Francia nella battaglia di Torino (1706), Ferdinando Carlo accusato di tradimento per aver concesso sostegno alle truppe franco-spagnole, si rifugiò a Venezia dove morì (1708). Il trattato di Utrecht (1713) tra le nazioni contendenti dispose l’assorbimento del Ducato di Mantova da parte di quello di Milano che venne destinato agli Asburgo d’Austria.

 

Signoria dei Montefeltro e dei Della Rovere ad Urbino

 

 

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Federico da Montefeltro

 

La Signoria della famiglia ghibellina dei da Montefeltro sulla contea di Urbino, costituitasi nel 1213, fu riconosciuta da Federico II nel 1234. Essa si protrasse, con qualche interruzione, fino al 1508 allorché subentrò la dinastia dei Della Rovere che la mantenne fino al 1631.

La nascita del Ducato che comprendeva parte delle Marche e dell’Umbria, risale al 1443 in virtù della nomina di Oddantonio II da Montefeltro (1427-1444) a duca di Urbino da parte di papa Eugenio IV (1431-1447). Il Ducato raggiunse la sua massima espansione territoriale e prosperità economica sotto la signoria di Federico da Montefeltro (1444-1482) che fece di Urbino uno dei centri di cultura rinascimentale. Nel 1508, Guidobaldo, non avendo figli, adottò il nipote Francesco Maria Della Rovere che continuò la linea dinastica dei Montefeltro. Egli Trasferì la capitale da Urbino a Pesaro.

Alla morte dell’ultimo componente, Francesco Maria II (1631), il Ducato di Urbino e la contea dei Montefeltro vennero annessi dallo Stato della Chiesa che riuscì a far valere i diritti feudali vantati sul Ducato. 

 

 

Signoria dei da Romano a Vicenza e dei della Scala a Verona

 

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Cangrande della Scala

 

Tra le prime casate che seppero dare vita a domini dinastici vi fu quella della famiglia della Scala (Scaligeri), presente tra i gruppi dirigenti di Verona fin dall’età del comune consolare (XI sec.)

La famiglia della Scala emerse con Mastino, nel 1262, allorché a Verona, alla morte di Ezzelino da Romano (1259), subentrò in maniera non traumatica un regime comunale guidato dalle corporazioni di mestiere che consentì l’emergere di una Signoria che si protrasse fino al 1387.

Quella dei da Romano era una antica famiglia feudale, di origine franca e dotata di un vasto patrimonio nell’area fra Treviso e Vicenza. Il capostipite, Acelo di Arpone, era un cavaliere al seguito dell’imperatore Corrado II il Salico (1027-1039) da cui ricevette il feudo di Romano, nei pressi di Vicenza. Nel due secoli successivi avvenne l’espansione dei da Romano verso l’area veneta che raggiunse l’apice con i fratelli Alberico ed Ezzelino III. Il primo fece di Treviso la sua base mentre Ezzelino concentrò le sue mire su Verona di cui divenne podestà nel 1226. Questi, divenuto il maggior esponente ghibellino dell’area veneta, fu artefice delle maggiori nefandezze sia nel periodo di sostegno a Federico II che lo accreditò “capitano e consigliere dell’impero” e di cui sposò la figlia naturale, sia in quello immediatamente successivo alla morte di Federico. Avvalendosi degli appoggi imperiali, Ezzelino estese la sua influenza su Vicenza, Padova e Trento, prima di venire sconfitto a Cassano d’Adda (1259) dalle milizie guelfe, guidate da Oberto Pelavicino, signore di una vasta area intorno a Cremona. 

Fu allora che si distinse Mastino I della Scala, di tendenza ghibellina, non nobile né ricco ma autorevole, abile politico ed incline alla pace, dote apprezzata dai veronesi che venivano dal violento periodo dei Da Romano. Egli, abile nel conquistarsi il consenso del Clero e della Domus Mercatorum, la potente corporazione dei mercanti che eleggevano il podestà ed una parte del consiglio Maggiore, venne nominato Capitano generale. La carica, prorogata a vita, consentì a Mastino di trasformare in maniera non traumatica il Comune in Signoria.

A seguito della scomunica papale subita dalla Città nel 1267 per l’aiuto fornito a Corradino di Svevia nel suo tentativo di rivalsa contro Carlo d’Angiò, l’insurrezione di alcune città guelfe venne sedata con l’aiuto degli alleati Bonacolsi di Mantova. I guelfi con una congiura riuscirono ad uccidere Mastino (1277) sotto cui la città aveva raggiunto un notevole stato di benessere. Con la successione del fratello Alberto si ebbe l’effettivo passaggio al regime di Signoria che riuscì ad ampliare il suo territorio fino a comprendere Vicenza, Parma, Reggio, Feltre, Cividale e Belluno.

L’apice dello splendore fu raggiunto con Cangrande della Scala (1291-1329) che, associato al potere dal fratello Alboino (1303), vi rimase singolarmente dal 1311 fino al 1329 rendendosi protagonista di una offensiva in area padana che gli procurò la conquista della Marca trevigiana. Nel 1311 venne nominato vicario imperiale di Vicenza, da Enrico VII di Lussemburgo (1308-1313), a seguito del pagamento di una ingente somma che consentì a quest’ultimo di proseguire verso Roma per essere incoronato. Cangrande, fervente ghibellino, si impegnò contro Padova e le sue alleate guelfe, superiori per risorse economiche e militari, in una guerra durata tre anni, la cui vittoria mise in evidenza le sue qualità umane (diede peraltro ospitalità a Dante 1313-1318) e militari e gli consentì di inserirsi tra i potenti dell'Italia settentrionale. Nel 1315, con Passerino Bonacolsi, tentò di assoggettare Cremona, Parma e Reggio che si erano riuniti sotto una unica signoria, mentre a Brescia i guelfi prendevano il sopravvento ed intralciavano i traffici con l’alleata Milano e Verona a sua volta minacciata da Padova e Treviso. Condizioni che lo impegnarono in una nuova guerra che si indirizzò prima contro Padova che, nel 1318, accettò le condizioni di pace. Poi si rivolse contro Brescia che si arrese e successivamente si rivolse contro Treviso, acquisendo in questa occasione Feltre e Belluno ed ancora contro Padova e Treviso dove trovò la morte (avvelenamento?) all’età di soli 38 anni.

La prematura morte lasciò la Signoria senza legittimi eredi per cui il potere andò al nipote Mastino II (1308-1351) che venne eletto Capitano generale della Lega costituita con i Visconti, Estensi e Gonzaga per difendersi dalla discesa in Italia del re di Boemia che, sollecitato dal Papa, aveva conquistato alcune città lombarde. Dopo il successo ottenuto correndo in soccorso di Ferrara, la signoria scaligera riuscì ad annettersi Brescia, Parma, Lucca, Massa e Pontremoli, raggiungendo l massimo della sua espansione.  Alla morte di Mastino II la Signoria passò ai figli, Bartolomeo II ed Antonio, che entrarono in una lotta di successione protrattasi fino al 1375. La città, indebolita, riuscì a sventare un tentativo di Bernabò Visconti che provò invano ad annettersela, vantando diritti a favore della moglie Regina della Scala. Nel momento in cui Antonio, per assumere il potere, fece uccidere il fratello incolpando varie famiglie amiche, si formò una lega tra i Visconti, Estensi e Gonzaga che segnò la fine della Signoria scaligera. Antonio si ritirò a Venezia dove morì nel 1388. Altri componenti la famiglia trovarono asilo in Baviera.

Conquistata per breve tempo dai Visconti, passò sotto il dominio di Venezia nel 1404.

 

 

Signoria dei da Polenta a Ravenna

 Francesca da Rimini

 Francesca da Rimini

 

La famiglia, proveniente dal castello appenninico di Polenta ed affermatasi nel XIII sec. ricoprendo i principali uffici dell’arcivescovado, governò Ravenna tra il 1275 ed il 1441.

Guido I Minore, capo dei guelfi, fu il primo esponete che riuscì ad assumere il governo della città che trasformò in Signoria (1287) dopo aver cacciato gli avversari politici. Alla sua morte (1310) gli succedettero figli e nipoti (tra cui Guido II Novello che diede ospitalità all’esule Dante che rese immortale Francesca da Rimini, figlia di Guido I) apportando qualche vantaggio territoriale alla città e sostenendo diversi contrasti, finché Obizzo rimase unico signore di Ravenna (1406). Intanto Venezia, in fase di espansione, si era estesa fino a Ravenna costringendo Obizzo a nominare erede la Serenissima Repubblica di Venezia nel caso in cui i suoi figli non ne avessero seguito le direttive. Clausola che diede opportunità a Venezia (1410) di deporre il successore Ortasio III e di relegarlo, assieme al figlio, nell’isola di Candia dove entrambi morirono nel 1447.

Nel 1510 Ravenna tornò sotto lo Stato Pontificio che l’aveva ricevuta da Pipino il Breve nel 754 allorché era venuto in Italia in soccorso di papa Stefano II in rotta con i Longobardi.

 

 

Signoria dei Malatesta a Rimini

 

 Rocca Malatesta Rimini 

Castello Malatesta di Rimini

 

La signoria di Rimini nacque e si sviluppò, pur all’interno del territorio Pontificio, in contrasto con gli interessi del Papato fino a quando, a metà del XV sec., questo riuscì a riprenderne il dominio.

I Malatesta, proprietari di territori che si estendevano sulle colline di Rimini, godevano della protezione degli arcivescovi di Ravenna che in Romagna e nelle Marche possedevano enormi proprietà.

Essi si insediarono a Rimini nel 1200 e, nel 1239, Giovanni divenne Podestà del libero comune di Rimini. Nel 1295, Malatesta da Verucchio il Centenario (1212-1312), abile e scaltro uomo d’arme e capo del partito guelfo cittadino, cacciò il capo ghibellino ed assunse la Signoria della città che i successori, in qualità di vicari della Santa Sede, mantennero fino al 1503.

Nel corso del XIV sec. i domini dei Malatesta si estesero su Cesena, Pesaro, Fano e sull’intera Marca di Ancona. Sigismondo Pandolfo (1417-1468) in pose in contrasto con lo Stato Pontificio, evento che segnò il crollo della potenza dei Malatesta i cui domini vennero ridotti alle sole città di Cesena e Rimini. Pandolfo IV (1475-1534), a seguito di una bolla di papa Alessandro VI (Roderico Borgia, 1492-1503) che lo accusava di essersi sottratto all’autorità pontificia, venne aggredito e sconfitto (1500) dalle milizie di Cesare Borgia, signore di Romagna e figlio di papa Alessandro VI.

Alla morte di papa Alessandro VI, il nuovo papa Giulio II (1503-1513), austero ed acerrimo nemico dei Borgia, tolse al duca Cesare Borgia il dominio della Romagna che fu assorbita dallo Stato Pontificio (1503).

 

 
Signoria dei da Carrara a Padova

 

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Cappella degli Scovegni (Giotto)

 

Padova durante l’esperienza comunale entrò in lotta con l’imperatore Federico Barbarossa. Nel periodo 1237-1256 passò sotto la signoria di Azzelino da Romano dopo cui venne restaurato il governo comunale affidato a Mastino I della Scala. I successori di questi superarono l’esperienza comunale per dare origine ad una Signoria che durò fino alla fine del XIII sec.

A cavallo del XIII-XIV sec., prima che si affermasse la famiglia da Carrara, Enrico Scrovegni, un componente della famiglia concorrente che con l’attività bancaria aveva accumulato una ingente fortuna, per rivalutare la denigrata figura del padre Reginaldo (Dante lo colloca fra gli usurai), perseguì una politica di immagine acquisendo (1300) un imponente palazzo nei cui pressi fece erigere una cappella che da oratorio trasformò in Chiesa intitolata a Santa Maria della Carità e fatta decorare da Giotto e dallo scultore Giovanni Pisano.

Emerse quindi, nel 1318, un’antica famiglia proveniente da Carrara, nel padovano, dove era titolare di feudi. Essa si propose come mediatrice di pace con gli Scaligeri e pose fine all’esperienza comunale per istituire una signoria che durò fino al 1405. Jacopo I da Carrara fu nominato (1318) capitano del popolo a vita, per guidare l'esercito padovano contro Cangrande della Scala che, da Verona, cercava l'espansione verso ovest nei territori vicentini e padovani. Operazione che condusse a termine con l’aiuto di feudatari vicini preoccupati delle iniziative scaligere.

L’erede di Giacomo, il nipote Marsilio (1324), entrò in contrapposizione con altro componente la famiglia, Nicolò. Questi si alleò con Cangrande della Scala a cui offrì il dominio della città in cambio della nomina a vicario (1328) e la destituzione di Marsilio. Il quale, scomparso Cangrande, riprese il potere in città (1337) con il sostegno di Firenze e Venezia, preoccupata dell’espansione padovana ed a cui accordò concessioni fiscali e commerciali. Da allora la signoria dei da Carrara godette di una sorta di protettorato politico da parte di Venezia che mediò un accordo con Verona a favore del successore Ubertino I che, nel 1343 diede inizio alla costruzione della reggia, un monumento al ritrovato potere della famiglia. 

Nel periodo di signoria dei da Carrara si registrò un grande sviluppo sia dal punto di vista economico e territoriale che da quello dell’espressione artistica (costruzione della chiesa di S. Maria dei Servi, affresco del Battistero, ristrutturazione degli Eremitani) che raggiunse il suo massimo splendore con la signoria di Francesco I il Vecchio (1354-1388). Questi si trovò coinvolto (1378) nella guerra di Chioggia condotta dai Veneziani contro i Genovesi che, con i coinvolgimenti di altre signorie limitrofe, porto a continue variazioni dell'area di influenza dei Carraresi. La massima espansione territoriale della signoria fu raggiunta nel 1387, con l’acquisizione dei territori di Feltre, Belluno e la riconquista di Vicenza. Una espansione che spaventò sia gli Sforza di Milano che Venezia che si allearono contro Padova, dove Francesco aveva abdicato (1388) a favore del figlio Francesco II Novello (1359-1405). L’alleanza Milano-Venezia riuscì a cacciare i Carraresi da Padova (Francesco I venne imprigionato dai Visconti e morì nel 1393) dove rientrarono due anni dopo (1390). Ma il declino era ormai inarrestabile e vani furono i tentativi di Francesco Novello di resistere all'espansione veneziana fallirono e Padova, assediata e travagliata da una epidemia di peste, venne conquistata dai Veneziani (1405) che incarcerarono ed uccisero Francesco II stesso.

Il vano tentativo di riacquisire Padova (1437) da parte dell’ultimo esponente della famiglia, Francesco III, ebbe come esito la sua cattura ed uccisione da parte dei Veneziani.

 

 

Signoria degli Scotti a Piacenza

 

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Palazzo Scotti di Piacenza

 

La famiglia Scotti, pur insediatasi nel territorio piacentino nell’alto Medioevo, emerse, nella gestione del potere verso la prima metà del XIII sec. Di origine mercantile, schierata con la fazione guelfa, gli Scotti erano divenuti, con l’elezione del piacentino Tedaldo Visconti al soglio pontificio (Gregorio X, 1271-1276), i principali banchieri papali. Rinaldo Scotti, eletto capitano del popolo nel 1261, era capo di una compagnia commerciale che assicurò movimenti di capitali e merci nelle principali piazze europee.

Alberto Scotti ereditò le fortune di Rinaldo e divenne capo dell’organizzazione dei mercanti che, assieme all’associazione delle arti, fu determinante nella sua nomina a dominus civitatis (1290-1304). Nel breve periodo della sua esperienza egli stabilì inizialmente un reale rapporto di fiducia con la base sociale, limitandosi a controllare ed indirizzare l’evoluzione politica della città senza assumere cariche. Egli riuscì ad estendere il suo dominio anche su Bergamo e Tortona. Nel 1304, a causa di ambizioni signorili non più coerenti con gli interessi del popolo, fu costretto a lasciare Piacenza.

Nel 1313, Galeazzo Visconti, figlio di Matteo, nominato vicario imperale da Enrico VII di Lussemburgo, divenne signore della città che passò successivamente sotto la signoria degli Sforza (1448), quindi sotto la Francia (1499), lo Stato Pontificio (1521) finché papa Paolo III (Alessandro Farnese, 1534-1549) creò il ducato di Parma e Piacenza per il figlio Pier Luigi Farnese (1545).

Il Ducato restò ai Farnese fino alla loro estinzione (1731), prima di essere assegnato a Carlo di Borbone (1731-1736), quindi a Carlo VI d’Asburgo (1736-1748) per ritornare ai Borbone, con Filippo, fondatore della dinastia Borbone-Parma.

 

 

 
La Repubblica di Genova
 

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Espansione della Repubblica di Genova

 

Genova fu, fin dai tempi romani, potenza marinara e centro marittimo in continuo sviluppo che registrò una crescita considerevole per l’arrivo delle popolazioni lombarde fuggite dall’invasione dei Longobardi (VI sec.) che, in periodo successivo (VII sec.), distrussero Genova e la sua flotta.

Nel IX-X sec. Genova, ricostruita e facente parte dell’Impero carolingio, dovette difendersi dagli attacchi dei saraceni che sconfisse una prima volta in Corsica (806) quindi, nel 935, li costrinse a restituire bottino e prigionieri alla propria flotta che li intercettò presso l’Asinara dopo l’attacco effettuato contro la città. Fu quella l’occasione che indusse la cittadinanza ad attuare l’ampliamento delle mura con una nuova cinta che arrivò a coprire un perimetro di 1488 m.

Genova, appena uscita dal dominio feudale degli Obertenghi (metà dell’XI sec.),  avviò  con Pisa la penetrazione verso le grandi isole tirreniche su cui progressivamente si divise l’influenza, finché un accordo provvisorio assegnò la Corsica a Genova e la Sardegna a Pisa. A Genova, quindi, col fine di organizzare una difesa delle attività marinare contro le incursioni, si formarono le prime associazioni cittadine, definite Compagne, costituite da nobili, armatori, mercanti e marinai. I primi provvedevano all’armamento delle navi, i secondi alla gestione, mentre gli utili (guadagni e bottini) venivano divisi in parti uguali. Alla fine del secolo si istituì il Libero Comune con le Compagne che si trasformarono da istituzione privata in ente di carattere pubblico (Compagnae Comunis), identificandosi con gli otto quartieri (Castello, Macagnana, Piazzalonga, S.Lorenzo, Sussilia, Porta, Portanuova, Borgo) in cui era suddivisa la città. Questi eleggevano i consoli cui venivano attribuite le prerogative di governatore, generale e giudice. Praticamente un regime repubblicano che, a metà del XII sec. aveva esteso il suo dominio su tutta la Liguria e ricevuto dall’imperatore Corrado III di Hohenstaufen (1137-1152) facoltà di battere moneta (grifone, poi genovino e fiorino).

Le attività marittime dei Genovesi erano incrementate con i noleggi per varie attività belliche, in particolare per il contributo offerto agli spagnoli nella conquista di Tortosa (1149, nel corso della reconquista) e per il trasporto dei crociati in Terrasanta dove, con il capitano Guglielmo Embriaco (Testa di maglio), furono determinanti nell’espugnare Gerusalemme (1099). Occasione che consentì di acquisire, con Giaffa, Gibello, Cesarea, S. Giovanni d’Acri, le basi per il loro futuro coloniale.

Nel periodo di impero di Federico Barbarossa (1152-1190), i genovesi, allarmati dalle minacce dell’imperatore verso la città non propensa ad assoggettarsi alle sue imposizioni, decisero di fortificarla ampliandone le mura e trovarono conveniente stringere un’alleanza con il re normanno di Sicilia, Guglielmo II (1166-1189), da cui ottennero privilegi e franchigie per i loro commerci. Iniziative che indussero il Barbarossa ad accontentatosi di una promessa di non ostilità in cambio della concessione di autonomia alla città. La cui potenza era divenuta talmente apprezzata da indurre gli inglesi ad acquisire, dietro compenso, la bandiera genovese per navigare in sicurezza nel Mediterraneo (1190).

Nel 1191, a causa delle controversie che da decenni coinvolgevano le più autorevoli famiglie circa la nomina ed il governo dei consoli (il console Melchiorre della Volta era stato ucciso nel 1164), entrò in crisi il comune consolare per cui si decise di abolire i consoli eletti localmente tra i maggiorenti della città, e di nominare un podestà scelto all’esterno della città. Egli fu affiancato da un Consiglio Maggiore o Senato e da un Consiglio Minore.

Nel periodo della controversia dell’Impero contro i Comuni lombardi sconfitti a Cortenuova (1237) da Federico II di Svevia, questi aveva imposto il dominio su Genova che, in contrapposizione, si schierò con la Santa Sede di papa Gregorio IX (1227-1241). Il Papa affidò alla Repubblica genovese l’incarico di trasportare a Roma i prelati che avrebbero dovuto partecipare al Sinodo indetto per sancire la scomunica contro Federico. Il quale, con una flotta preponderante comandata da genovesi ghibellini fuoriusciti, bloccò quella genovese all’isola del Giglio (1241) ed imprigionò i prelati. L’episodio non scalfì la potenza navale genovese, tuttavia la concorrenza di Pisa e Venezia per il predominio sui mari e la rivincita musulmana in Medioriente avevano messo in crisi il mantenimento delle colonie genovesi dislocate in quel territorio (Famagosta, Cipro, il quartiere Galata di Istanbul, Trebisonda, Sebastopoli), nell’Egeo (Chio, Creta e Rodi) e quelle in Turchia (Smirne, Efeso e Focea).

Alla morte di Federico II (1250), Genova era dominata da poche grandi famiglie nobiliari di tendenza guelfa in quanto quelle di tendenza ghibellina erano state allontanate nel periodo del pontificato del genovese Sinibaldo Fieschi dei conti di Lavagna (Innocenzo IV; 1243-1254). Nel 1257 una sollevazione popolare di artigiani e piccoli commercianti sostenuta da famiglie potenti, superando la fase del comune podestarile, elesse per dieci anni Capitano del comune e del popolo, Guglielmo Boccanegra, proveniente da una famiglia di commercianti apparentata con la nobiltà cittadina. Egli si fece affiancare da un collegio di trentadue anziani ed inserì nel consiglio comunale i capi dei mestieri. A causa di un trattato commerciale stretto con il re di Sicilia Manfredi di Svevia, riferimento dei ghibellini in Italia, venne organizzata contro il Boccanegra una congiura di ispirazione guelfa che questi riuscì a sventare, cogliendo l’occasione per disfarsi delle famiglie a lui ostili. Ma qualche anno dopo, 1262, fu costretto ad andare in esilio con l’accusa di “tirannide” ed il comune si affidò di nuovo ad un podestà.

Malgrado Genova da tempo si fosse sottratta ai feudatari per diventare un Comune popolare, in città continuarono a dominare ristretti gruppi di famiglie ugualmente potenti la cui contrapposizione mantenne un equilibrio che impedì non solo di bloccare il tentativo  dittatoriale del Boccanegra ma anche il costituirsi delle condizioni per l’affermazione di una signoria. Infatti dopo la deposizione di Guglielmo Boccanegra riemerse la contrapposizione fra le famiglie guelfe dei Fieschi e dei Grimaldi contro quelle ghibelline dei Doria e degli Spinola che ebbero il sopravvento e, nel 1271, affidarono il titolo di capitani del popolo ad Oberto Spinola ed Oberto Doria in un regime dualistico che assicurò per quindici anni una pace cittadina senza precedenti. Durante questo periodo Genova poté sviluppare i suoi interessi d’oltre mare e  sconfiggere nella battaglia della Meloria (1284) la sua concorrente Pisa con cui da due secoli Genova aveva ingaggiato una concorrenza agguerrita volta al predominio sul mar Tirreno. Esso fu definitivamente risolto con la distruzione del Porto Pisano e con la conquista della Corsica e del nord della Sardegna.

Le contrapposizioni cittadine ebbero fasi alterne e, se nel 1296 prevalsero ancora i ghibellini che imposero i capitani Corrado Spinola e Corrado Doria, nel 1310 prevalsero i guelfi che diedero alle fiamme le abitazioni degli avversari, prima che gli Spinola tentassero una controffensiva. Finché, per fare cessare le ostilità, il governo della Repubblica fu assunto (1311) prima dall’imperatore Enrico VII di Lussemburgo e, al riaccendersi dei contrasti dopo la morte di questi (1313), dal re di Napoli Roberto d’Angiò. Ostilità che non cessarono fino al 1339 allorché, col favore del popolo, fu nominato il primo doge a vita, Simone Boccanegra (-1363)che si insediò nel palazzo ducale, fatto edificare alla fine del XIII sec. Simone, cacciato dai nobili dopo cinque anni, potette rientrare nel 1356, sfruttando le contrapposizioni interne ed esterne, ma il potere assunto e non gradito ai nobili fu causa del suo assassinio nel 1363.

Dei contrasti con Venezia  e della pace di Torino si è detto (v. Repubblica di Venezia).

Sospesi i dissidi esterni, le famiglie che vantavano crediti dalla Repubblica, fondarono (1407) il primo istituto di credito, il più moderno del mondo, il Banco di San Giorgio che, assumendo l’amministrazione delle colonie consentì ai fondatori di recuperare i crediti. Il Banco divenne uno Stato a se stante, garanzia di stabilità e propulsore della rinascita genovese, e restò attivo fino all’epoca napoleonica.

Nel XIV sec. cessò il dominio genovese sulla Sardegna invasa dagli aragonesi e, nel XV sec., Genova conobbe il primo declino con la dominazione da parte dei Francesi di Carlo VI (1396-1406) che delegarono al governo della città governatori con le stesse prerogative dei dogi. Approfittando dei dissidi interni il Ducato di Milano dominò in due periodi sulla Repubblica (1421-1436 con i Visconti e 1464-1499 con gli Sforza) prima che i Francesi riprendessero, fino al 1512, il governo della città. Frattanto le colonie genovesi in Medioriente venivano coinvolte nella caduta dell’Impero Bizantino ad opera dell’Impero Ottomano (1455).

Nel XVI sec. emerse la figura di Andrea Doria (1466-1560). Nel 1505, la rivolta contro i Francesi fu guidata da Paolo da Novi che, eletto Doge (1507) venne giustiziato una volta che i Francesi ripresero il controllo della città, ambita per la sua importanza anche dall’imperatore Carlo V. Questi la contese ai francesi mentre le famiglie cittadine, da secoli in contrapposizione, si schieravano con l’una o con l’altra parte. In quella contrapposizione emerse un uomo d’arme come Andrea Doria che aveva già prestato la sua opera a diversi contendenti. Passato al servizio dell’imperatore Carlo V che aveva promesso di restaurare a Genova la Repubblica, nel 1528, liberò Genova dalla dominazione francese e, rifiutata la signoria della città, si proclamò “Padre della Patria”, divenendo attore della rinascita della città che, dopo la cessazione della Compagna Communis e la conseguente istituzione della Repubblica di Genova, ebbe, quale primo risultato la conquista di Savona il cui porto fu distrutto ed interrato mentre i genovesi provvidero a potenziare la fortezza del Priamar per garantirsi il dominio della città che non si riprese più.

Per sopire le lotte tra le molte famiglie aristocratiche venne fissato a 28 il numero di unioni tra famiglie (Albergo) dai cui membri si estraevano 400 nomi per costituire il Gran Consiglio e, da questi, 100 per formare il Minor Consiglio.

 

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Genova nel XVI sec.  (Cristoforo De Grassi)

 

Nel 1547, la più importante avversaria del Doria, la famiglia di Gian Luigi Fieschi, ordì una congiura che, fallita, segnò la crisi della famiglia e la perdita di vasti possedimenti. Andrea lasciò la sua eredità al nipote Gianandrea (1539-1606) che ebbe ruolo nella battaglia di Lepanto (1571) dove comandò l’ala destra dello schieramento cristiano contro i Turchi.

I cento anni che seguirono, per lo splendore e lo sfarzo di cui la città si ammantò (paragonabile a quello dei tempi dello crociate per cui venne definita “superba” dal Petrarca e, dall’imperatore Rodolfo II d’Asburgo “serenissima” come Venezia), vengono ricordati come El siglo de los genoveses per via della costruzione dei grandi palazzi delle famiglie (barocco genovese della Strada Nuova e di via Balbi) e dell’intreccio di interessi che legava i genovesi agli spagnoli di cui la città finanziava con prestiti le imprese militari. Nel 1567 Genova acquisì dal marchese Del Carretto 1/3 del feudo di Zuccarello presso Albenga, su cui vantava diritti Carlo Emanuele di Savoia.

Nel XVII sec. quando Genova incominciò ad avviarsi verso il declino si scatenò tra la Repubblica genovese e la famiglia Savoia, alleati dei Francesi, la guerra del sale (1625) che si concluse con l’acquisizione dei restanti 2/3 del feudo di Zuccarello da parte dei Genovesi. Questo divenne teatro di un conflitto, nel 1672, quando la Francia tentò di aggredire la Repubblica per impossessarsi di quel piccolo feudo. La città che si era fortificata con una nuova cerchia di mura (1626-1632) ed alleata con la Spagna venne aggredita senza subire, in quell’occasione, particolari danni. Il conflitto si protrasse e si concluse nel 1684 allorché Genova dovette cedere alle imposizioni francesi rinunciando all’alleanza con la Spagna.

Nel XVIII sec. le condizioni della Repubblica non migliorarono e si ebbero due eventi significativi del suo declino. Il primo nel 1746 allorché gli austriaci, per punirla dell’appoggio fornito ai Francesi nel corso della guerra di successione austriaca (1740-1748), marciarono e conquistarono Genova (1746) che si vide imporre pesanti condizioni dal generale austriaco Botta-Adorno. La città, il 5 dicembre dello stesso anno, sollecitata alla sommossa dal giovane Gianbattista Perasso (Balilla), reagì ed espulse gli Austriaci. Il secondo a seguito delle rivolte in Corsica che costrinsero il Banco di S. Giorgio, amministratore dell’isola che aveva acquisito nel 1453 dopo l’abbandono da parte di Alfonso V d’Aragona, a venderla alla Francia (1768).

Con la rivoluzione francese, Genova, come Venezia si mantenne neutrale. L’Inghilterra mandò una flotta nel Mediterraneo per indurre Genova ad entrare nell’alleanza antifrancese mentre le truppe francesi invadevano la Liguria nella prima campagna d’Italia di Napoleone del 1796. Genova stretta fra due fuochi si alleò con la Francia.

In questo passaggio la Repubblica di Genova cessò di esistere, sostituita dalla Repubblica Ligure che venne inclusa nell’Impero francese (1805) e successivamente annessa al Regno di Sardegna (1815).

 

 
La Repubblica di Pisa
 

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La Repubblica di Pisa alla sua massima espansione

 

Pisa era la città più importante della Marca di Tuscia che aveva la sua capitale a Lucca, contro cui Pisa condusse la prima vittoriosa guerra comunale (1003).

La potenza marinara di Pisa nacque appunto nell’XI sec. e si affermò negli scontri con le navi saracene dalla cui presenza liberò Reggio Calabria (1005). Costruì la sua affermazione alleandosi con Genova nella conquista della Sardegna e della Corsica, a questa impresa indotte dalla promessa della Santa Sede che avrebbe lasciato le due isole al dominio di chi le avrebbe liberate dagli infedeli. Il dominio sulla Sardegna fu assunto in prevalenza da Pisa e quello sulla Corsica dai genovesi. Dopo essere pervenuta al controllo della costa tirrenica, ottenuto quale contropartita a seguito del sostegno fornito al Barbarossa, Pisa raggiunse la sua massima potenza nel XII-XIII sec. con il controllo del Mediterraneo e l’ottenimento di basi commerciali in numerose città del Medioriente nel periodo delle Crociate in cui, pur marginalmente, fu coinvolta.

Per contendersi le reciproche posizioni in Sardegna e Corsica e l’accaparramento dei mercati nel sud della Francia dove Genova aveva assunto una posizione dominante, Pisa  venne a scontrarsi con gli interessi di questa concorrente. Le ostilità iniziarono nel 1165 in Francia, continuarono per le postazioni commerciali in Sicilia e proseguirono fino alla sconfitta nella determinante battaglia della Meloria (1284) che segnò il ridimensionamento delle prerogative pisane sulla Sardegna. La successiva devastazione di Porto Pisano (1290) a seguito di patti non rispettati e la conquista (1324) degli avamposti pisani in Sardegna da parte degli Aragonesi segnarono inevitabilmente il suo declino.

Essa mantenne la sua indipendenza fino all’annessione (1406) da parte della Repubblica fiorentina. 

 


 

 

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