L’Impero nel IV sec.

Costantino I e i successori Costanzo II e Giuliano l’Apostata

L’influsso sulle problematiche religiose

 

di   Franco Savelli

 

    

1.  Il ruolo di Costantino: nell’ascesa al potere, nelle dispute teologiche e nell’organizzazione dello Stato

2.  La successione di Costantino e l’affermazione di Costanzo II

3.  Il ruolo di Costanzo II; Il rapporto con i cugini Costanzo Gallo e Claudio Giuliano

4.  Il breve impero di Claudio Giuliano

5.  Le controverse figure di Costanzo II e di Claudio Giuliano “l’Apostata”;

     - Costanzo II e gli interventi nelle dispute religiose;

     - Giuliano l’”Apostata” e le sue scelte

6.  Epilogo

     - Graziano e Teodosio

    

 

 

1.    Il ruolo di Costantino

 


Fig. 1  Costantino I

 

 

1a.             Nell’ascesa al potere

 

La figura di Costantino emerse nelle confuse vicende che seguirono le dimissioni di Diocleziano e del suo omologo Massimiano (305 dC), imperatori rispettivamente dell’Oriente ed Occidente romano.

[1]

Riforma tetrarchica 

La riforma prevedeva l’istituzione di due imperatori, individuati rispettivamente come Iovius ed Herculius e destinati al governo dell’Oriente e dell’Occidente (il secondo in subordine al primo) che assumevano il nome di I e II augusto. Essi sceglievano due collaboratori cui veniva attribuito il titolo di cesare (equivalente a vice imperatore) e con essi dividevano il controllo delle prefetture in ciascun settore. Nel momento in cui l’imperatore veniva meno, subentrava nel ruolo di augusto il relativo cesare che, a sua volta, nominava un nuovo cesare.

Diocleziano si decise a lasciare il potere per l’insuccesso riportato dai sui provvedimenti indirizzati a risollevare la crisi in cui versava l’impero. Aveva infatti avviato riforme sia in campo economico che istituzionale: le prime erano volte al controllo dei prezzi con l’obiettivo di frenare la crescente inflazione determinata delle enormi spese militari sostenute per contenere la pressione barbarica ai confini. Le seconde, ispirate alla conservazione della tradizione pagana, intendevano riformare le istituzioni secondo una visione unitaria di potere e religione che escludeva quella componente cristiana, ritenuta capace di scuotere la compattezza dell’impero e, pertanto, perseguitata con quattro editti (303). Prima di lasciare il potere, Diocleziano aveva proceduto ad una riforma tetrarchica[1] dell’impero che ne prevedeva la ripartizione in quattro settori affidati alla gestione di due augusti e due cesari.

Ai dimissionari Diocleziano (I augusto) e Massimiano (II augusto), succedettero i rispettivi cesari, Galerio e Costanzo Cloro il quale, benché più anziano, non ottenne il titolo di Iovius che andò a Galerio. Causa questa dei primi contrasti. I nuovi augusti designarono i nuovi cesari in Massimino Daia per l’Oriente e Flavio Valerio Severo per l’Occidente.

 

Costantino (280-337) era figlio del cesare Costanzo Cloro e della concubina Elena, una locandiera che Costanzo abbandonò per sposare Teodora (figlia di Massimiano) da cui ebbe tre figli, Dalmazio, Annibaliano e Giulio Costanzo. Costantino, cresciuto in Oriente presso la corte di Diocleziano, dopo l’assunzione del padre al ruolo di augusto, lo raggiunse in Britannia per affiancarlo nelle campagne militari. Da qui, sfruttando il suo fiuto politico e sorretto da una personalità priva di scrupoli, iniziò la scalata al potere favorito dalle circostanze che determinarono il crollo dei suoi colleghi e rivali.

Alla morte di Costanzo Cloro (306) l’esercito acclamò Costantino nuovo augusto d’Occidente, alterando il sistema istituzionale di successione che prevedeva il subentro in quella veste di Flavio Valerio Severo. Da qui nacque una controversia inizialmente sanata coll’intervento di Galerio (I augusto) che stabilì la nuova tetrachia composta dagli augusti Galerio e Severo e dai cesari Costantino e Massimino Daia. In quel periodo convulso, sfruttando il malcontento dei pretoriani e della popolazione romana s’inserì, tra i titolari istituzionali, l’usurpatore Massenzio che, figlio di Massimiano ed escluso dalla successione, si autonominò imperatore, rivelandosi portatore di una visione conservatrice dello Stato.

Si riaccese una controversia che, coinvolgendo tutti i personaggi sopra citati, ebbe un primo aggiustamento con la morte di Flavio Valerio Severo (307), fatto uccidere da Massenzio contro cui era stato inviato da Galerio. Si arrivò così (308) al riconoscimento di quattro augusti: Galerio e Massimino Daia in Oriente, Costantino in Gallia, Britannia e Spagna ed il subentrante Valerio Liciniano Licinio (250-325) nell’Illirico (penisola balcanica) mentre Massenzio continuava ad esercitare il suo potere a Roma.

Nel giro di tre anni scomparve una parte dei protagonisti: Massimiano abbandonò il figlio Massenzio per avvicinarsi al genero Costantino (aveva sposato la figlia Fausta) con cui venne in conflitto e da questi, nel 310, fu imprigionato e costretto al suicidio; dopo la morte di Galerio  nel 311 per cancrena, Costantino mosse contro Massenzio che venne sconfitto prima a Torino e Verona e poi nella battaglia decisiva di Ponte Milvio (312) dove Massenzio morì annegato nel Tevere;  Massimino Daia, nel 313, si suicidò dopo essere stato sconfitto ad Adrianopoli (in Tracia) da Licinio con cui era in lotta per il predominio nella parte orientale dell’impero. Eventi che semplificarono la spartizione del potere fra i sopravvissuti, Valerio Liciniano Licinio (250-325) e Costantino (280-337) che divennero imperatori rispettivamente in Oriente ed in Occidente.

 

La battaglia di Ponte Milvio, combattuta il 22 ottobre del 312 alle porte di Roma presso i Saxa Rubra della via Flaminia, è entrata nella leggenda perché attribuisce a Costantino la visione, prima della vittoria, di un cerchio dorato (signum) tendente a fornire un significato apologetico relativo all’intervento del Dio cristiano quale ispiratore della vittoria (quod istinctu divinitatis). C’è anche chi ha fornito una diversa interpretazione della visione facendola risalire ad un singolare fenomeno celeste determinato dalla congiunzione in cui si sarebbero venuti a trovare i pianeti Saturno, Marte e Giove nella notte del 21 ottobre, precedente il giorno della battaglia. La credenza della visione trovò comunque accoglienza non solo tra cristiani ma anche tra i pagani il cui aspetto polimorfo della loro religione li rendeva disponibili ad accogliere segnali d’ispirazione divina. Ed è anche un fatto che la vittoria conseguita in quella battaglia servì a concentrare nelle mani di Costantino il potere sulle regioni occidentali dell’Impero il cui indebolimento, iniziato fin dal tempo di Marco Aurelio a seguito delle pressioni dei popoli germanici sui confini, aveva causato una disgregazione nel tessuto sociale e necessitava di un rilancio sul piano politico, amministrativo e sociale.

Val la pena sottolineare come gli episodi possano indirizzare i percorsi della storia e, nel caso citato, della civiltà perché se a Ponte Milvio fosse prevalso il pagano Massenzio, il Cristianesimo verosimilmente non avrebbe avuto la misura dell’affermazione favorita da Costantino.

 

Costantino non era un credulo interprete di visioni ma, oltre che un esperto generale, si rivelò un politico di larghe vedute che, nell’intento di superare la crisi e riorganizzare l’impero, analizzò le ragioni dei falliti tentativi dei suoi predecessori.

Le difficoltà che travagliavano quell’inizio di IV sec. erano pregresse e legate ad una crisi di identità conseguente ai mutamenti che la società aveva subito con l’inserimento entro i confini di nuclei tribali, di diversa cultura e tradizione, che avevano operato una costante pressione dall’esterno. Costantino, non volle percorrere le strade improduttive dei suoi predecessori Quinto Decio (249-251), Valeriano (253-260), Aureliano (270-275) e lo stesso Diocleziano (284-305) che, per rinvigorire le strutture decadenti dell’impero si erano mossi contro la comunità cristiana che ritenevano destabilizzante. Così per fronteggiare il dissesto economico avevano perseguitato la comunità dei cristiani per confiscare i loro ingenti beni o, per consolidare l’impero attorno ai valori della tradizione pagana, avevano tentato di risolvere il conflitto religioso esistente tra pagani e cristiani con una fusione di elementi mitologici, culturali e dottrinali che conciliasse il culto per gli déi pagani con quello per il Dio cristiano (sincretismo: tendenza a riunire elementi dottrinali provenienti da diverse culture). In sostanza Costantino comprese che tutti gli sforzi fino allora operati si erano richiamati ad un conservatorismo che, avendo come fulcro una visione unitaria del potere e della religione, si era rifatto a disposizioni tendenti ad epurare coloro che non si allineavano al credo pagano. Cioè la forte componente dei cristiani che, essendo, con il loro proselitismo, penetrati nell’amministrazione ed raggiunto funzioni a carattere culturale ed educativo, erano ritenuti capaci di scuotere la compattezza dell’impero. Il cui superamento della crisi attraverso l’emarginazione della componente cristiana non raggiunse l’obiettivo prefissato. Anzi, paradossalmente, tutti gli editti rivolti contro i cristiani fecero acquisire alla Chiesa il riconoscimento di entità con cui lo Stato doveva contrapporsi.

 

Costantino ritenne pertanto indispensabile l’inserimento, tra le forze vive dell’impero, di quella potente ed avvolgente rappresentata dai cristiani che considerava un eccellente fattore di ordine e stabilità. A tal fine concordò con l’augusto d’Oriente, Valerio Liciniano Licinio l’elaborazione di un editto di tolleranza religiosa verso tutti i culti (editto di Milano, febbraio 313), “…abbiamo posto queste relative al culto della divinità affinché sia consentito ai Cristiani e a tutti gli altri la libertà di seguire la religione che ciascuno crede, affinché la divinità che sta in cielo, qualunque essa sia, a noi e a tutti i nostri sudditi dia pace e prosperità”. Il Cristianesimo così venne riconosciuto religio licita e godette dell’abrogazione di tutte le precedenti misure persecutorie in merito alle quali venivano anche precisate le riparazioni ed i compensi da riconoscere ai cristiani, tra cui la restituzione dei luoghi di culto e dei beni confiscati. Da allora in poi Costantino si ispirò al cristianesimo in buona parte della legislazione, inserì i cristiani nell’organizzazione imperiale e s’accinse ad ordinare economicamente e dogmaticamente la Chiesa. La libertà acquisita dal cristianesimo di poter diffondere il proprio messaggio di salvezza produsse un cambiamento d’identità nel panorama dell’impero.    

 

Benché il rapporto fra i due augusti si fosse rafforzato attraverso il matrimonio di Licinio con la sorella di Costantino, Costanza (da cui nacque, nel 315, il figlio omonimo Valerio Liciniano Licinio), non tardarono i contrasti. Licinio, in Oriente, mosso dal sospetto non infondato che i cristiani fossero sostenitori di Costantino, si rese colpevole di una politica repressiva contro di loro. Tra i due lo scontro si rese quindi inevitabile e Costantino sconfisse il cognato a Mardia (317) costringendolo ad un temporaneo accomodamento che fu cedergli l’Illiria. Il conflitto si riaccese nel 324 allorquando Licinio, malgrado la superiorità numerica delle sue milizie, venne sconfitto da Costantino prima ad Adrianopoli e poi dal figlio di questi, Crispo, in una battaglia navale presso i Dardanelli. Quindi definitivamente a Crisopoli (sul Bosforo) dove Licinio venne catturato.

La sconfitta di Licinio fece di Costantino imperatore unico (sia per l’Occidente che per l’Oriente) spingendolo, prima di dedicarsi allo sviluppo ed all’ordinamento dell’Impero, ad una frenetica smania di potere che lo portò a disfarsi, in una disinvolta e sciagurata purga domestica, di coloro che potevano insidiarlo. In questa sequenza delittuosa rimasero vittime, oltre a Licinio di cui temeva la voglia di rivincita ed il figlio omonimo di questi, il proprio figlio primogenito Crispo che, avuto dalla prima moglie Minervina, fu accusato di complotto dall’imperatrice Fausta e quindi anche su questa si abbatté la condanna allorché Costantino si accorse che le accuse rivolte a Crispo erano strumentali alla eliminazione del concorrente dei propri figli Costanzo II e Costante I.  

 

 

1b.             Nelle dispute teologiche

[2]

Controversia ariana

I cristiani Ortodossi d’Occidente che sostenevano “identità di natura e sostanza di Cristo con la Divinità suprema” vennero identificati con il termine di omousi (da homoousios: uguale); essi si differenziavano dai cristiani integralisti d’Oriente seguaci del vescovo libico Ario (356-336) che sosteneva “l’assoluta trascendenza del Padre” per cui la “natura del Figlio differente da quella di Dio”: questi vennero identificati con il termine anomei (da anomoios: differente).

Nella convinzione che il responsabile di uno Stato che riconosceva nella religione cristiana il suo carattere più rilevante ne dovesse garantire il più efficace sviluppo, Costantino intervenne nelle controversie che scuotevano il mondo cristiano, travagliato da una serie di controversie dottrinali che ne minavano la struttura. Col fine di ordinare dogmaticamente la Chiesa in maniera da poterla condizionare ed usare per i suoi fini, egli si arrogò il potere di convocare ed indirizzare (primo esempio di cesarepapismo) i parlamenti ecclesiastici (concili e sinodi) per risolvere le dispute teologiche che in quel momento dilaniavano il mondo cristiano, il Donatismo e l’Arianesimo.  

 

-        Intervento sul Donatismo

Costantino si servì del vescovo di Roma, Milziade (311-314), per cercare di sanare la controversia sorta tra i seguaci dell’intransigente e colto vescovo Donato di Casae Nigrae (Donatisti) che avevano resistito alle ingiunzioni degli editti di Diocleziano e subito la persecuzione piuttosto che cedere e coloro che avevano abiurato per aver salva la vita (lapsi). I donatisti esigevano una Chiesa pura e non volevano che coloro che avevano tradito la loro fede potessero somministrare i sacramenti. Inoltre la loro intransigenza che poneva la Chiesa in antitesi con lo Stato non era accettabile da Costantino che, dopo l’insuccesso della mediazione di Miliziade, perseguitò i donatisti, prima di arrendersi alla loro inflessibilità ed emanare un editto di tolleranza.

 

-        Intervento sull’Arianesimo

Un più esteso e divaricante fronte di contrasto era quello che contrapponeva i cristiani integralisti d’Oriente con i cristiani ortodossi Occidente e divideva quel mondo in due contrapposte dottrine[2] La controversia prettamente teologica era nata a seguito della riflessione dell’austero e rigoroso presbitero libico Ario che, sviluppando dottrine del II-III sec. (Modalismo o Sabellianismo, Adozionismo, Monarchianismo, Subordinazionismo) tendenti a limitare la natura del Figlio rispetto a quella del Padre a cui si attribuiva un carattere “assolutamente unico”, si domandava “se Cristo era della stessa natura divina del Padre ovvero inferiore a Lui, anche se superiore ad ogni altra creatura” (cristologia: parte della teologia che si occupa della natura umana-divina di Cristo e dei temi connessi). Una questione che, toccando il tema dell’incarnazione, veniva a compromettere la tesi trinitaria e, di conseguenza, la capacità di redenzione del Figlio. Temi tutti fondamentali nella teologia cristiana perché la negazione della natura divina di Cristo faceva venir meno il collegamento, attraverso i sacramenti, dei credenti con il soprannaturale.

Costantino, attribuendo alle dispute solo una valenza terminologica, cercò dapprima di contenere i contrasti esplosi a seguito della condanna attribuita ad Ario dal Sinodo di Alessandria del 321, quindi decise di convocare a Nicea, nel giugno del 325, il primo Concilio ecumenico della storia della Chiesa a cui parteciparono circa 300 vescovi. Costantino, con un discorso centrato sulla concordia quale auspicio di pace religiosa, avviò i lavori del concilio che si concluse con l’affermazione della tesi trinitaria sostenuta dal vescovo Atanasio di Alessandria rispetto a quella contrapposta ariana sostenuta dal vescovo Eusebio di Nicomedia (-341). Quest’ultima negava la consustanzialità tra Cristo Gesù ed il Padre in quanto vi era stato un tempo in cui Gesù “non era esistito” e pertanto “non uguale” al Padre “sempre esistito” ma di rango inferiore e pertanto differente da Dio. La tesi trinitaria invece asseriva la “consustanzialità del Padre e del Figlio” da intendersi come “identità di natura e sostanza” (“una è la sostanza divina e tre le Entità divine: il Padre ingenerato, il Figlio Gesù generato e lo Spirito Santo che procede dal Padre”), concetti ripresi nella formulazione del “Credo” conclusivo (Simbolo di Nicea), tutt’ora celebrato, con una modifica successiva apportata nel concilio di Costantinopoli del 381. Lo stesso concilio decretava l’esilio nell’Illirico (penisola balcanica) del vescovo Ario e dei suoi seguaci.

Le conclusioni del Concilio di Nicea, accettate in Occidente, trovarono una vivace opposizione in Oriente dove la maggioranza ariana-integralista indusse Costantino, sollecitato da consiglieri e familiari alla convocazione, nel 335, del Sinodo di Tiro. A questo atto era stato convinto dalla considerazione che la dottrina ariana, che riteneva la “Chiesa un organismo di origine terrena”, meglio della concezione emersa a Nicea, di una “Chiesa corpo di origine divina che trovava fondamento solo nell’autorità ecclesiastica”, rispondeva alle esigenze imperiali (mentre la), Il Sinodo, avviato a Tiro e concluso a Gerusalemme, in occasione della consacrazione (settembre 335) della basilica del Santo Sepolcro fatta edificare da Costantino sul luogo presunto della sepoltura di Gesù, ribaltò le conclusioni di Nicea. Allorché si giunse a proclamare “dottrina” quella ariana che prima era stata condannata come “eresia”, a reintegrare i vescovi ariani esiliati e a sconfessare Atanasio di Alessandria.

 

 

1c.             Nell’organizzazione dello Stato

Costantino, rifacendosi all’organizzazione impostata da Diocleziano, articolò l’impero in quattro prefetture (Gallia e Spagna; Italia ed Africa nord-occidentale; l’Africa nord-orientale con basso Danubio e Tracia; penisola balcanica) all’interno delle quali mantenne separato il potere militare da quello civile, affidato al prefetto del pretorio che, coadiuvati dai governatori delle province, amministravano la giustizia, le finanze, la logistica militare e l’applicazione degli editti imperiali; potere controbilanciato dalla breve durata della carica. Impostò la sua funzione imperiale come da monarca assoluto circondato da un’aura sacrale.

La sua attività si svolse soprattutto nei settori orientali, i più nevralgici per la difesa dell’Impero per cui pensò di fondare (326) sul sito in cui sorgeva l’antica Bisanzio, una città concepita sul modello di Roma, Costantinopoli, quale segno della sua grandezza.

L’aspirazione dei suoi trent’anni di regno fu di ridare ordine all’impero riportandolo agli splendori di Traiano e, coll’apporto dei cristiani, rifondarlo su valori etici che cercò di imporre anche alle popolazioni di confine, goti e sarmati, di cui, nel periodo 332-335, controllò le mire espansionistiche. Frattanto aveva affidato il controllo dell’impero ai figli ed al nipote Dalmazio, assegnando al figliastro Costantino II (nato ad Arelate, febbraio 317-340) la Gallia, Britannia e Spagna, a Costanzo II (nato a Sirmio, agosto 317-361) l’Oriente Asiatico e l’Egitto ed  a Costante I (320-350) l’Italia, Illirico e l’Africa nord-occidentale ed al nipote Dalmazio la Grecia, Mesia e Tracia (fig.2).

Consapevole della necessità di stabilire una successione dinastica, non riuscì a formalizzare il progetto perché morì prematuramente (febbraio 337) mentre si preparava ad affrontare i Persiani.

La successione restò pertanto affidata ad una selezione ispirata dalla contrapposizione tra i figli e praticata dall’esercito, con l’eliminazione dei pretendenti non graditi.

 

 

2.    La successione di Costantino

 

Il progetto di successione non attuato da Costantino fu gestito, dopo la sua morte, dai militari che, su mandato del figlio Costanzo II, eliminarono quei parenti che avrebbero potuto vantare pretese ereditarie. Metodi non estranei alla consuetudine familiare perché Costanzo aveva visto comportamenti analoghi applicati dal padre sul figlio primogenito Crispo e sulla moglie Fausta.

La purga attuata dall’esercito, strumento di potere nella politica costantiniana, colpì i discendenti maschi dei nonni, Costanzo Cloro e Teodosia, cioé il cesare Dalmazio ed il re delle genti pontiche Annibaliano, nipoti di Costantino (in quanto figli del fratellastro, il censore Flavio Dalmazio), ed altri otto cugini di cui risparmiò i due più giovani, Flavio Costanzo Gallo e Flavio Claudio Giuliano[3], figli del fratellastro di Costantino, Giulio Costanzo. La strage di famigliari avvenuta a Costantinopoli fu addossata alla responsabilità di Costanzo che là risiedeva e, benché egli abbia cercato di scagionarsi, risulta significativa l’affermazione del retore Eutropio “Costantio sinente potius quam iubente”.

 

[3]

Formazione giovanile dei  fratelli Costanzo Gallo e Claudio Giuliano

Per il ruolo che assumeranno in seguito, Eè opportuno tracciare il periodo giovanile dei due giovani fratelli, Flavio Costanzo Gallo e Flavio Claudio Giuliano che, al momento in cui era stata soppressa la loro famiglia (337) avevano rispettivamente 12 e 6 anni.

Costanzo Gallo era nato in Italia, nel 325, dal primo matrimonio del padre, Giulio Costanzo, con la nobile romana Galla. Rimasto vedovo, Giulio Costanzo si trasferì a Nicomedia accanto alla propria sorella Costanza, vedova dell’imperatore Licinio, e ad una figura di primo piano nel dibattito teologico del tempo, il vescovo Eusebio. Giulio Costanzo sposò in seconde nozze Basilina, una donna di raffinata cultura che morì pochi mesi dopo aver messo al mondo, nel 331, Flavio Claudio Giuliano.

I due ragazzi, Costanzo Gallo e Claudio Giuliano, privati dei beni dolo l’eliminazione del genitore, furono allontanati dalla corte di Costantinopoli e separati: Costanzo Gallo fu inviato ad Efeso dove studiò, mentre Claudio Giuliano rimase a Nicomedia presso la nonna materna, affidato alle cure del vescovo Eusebio da cui ricevette una educazione cristiana. Giuliano seguì, nel 339, il tutore Eusebio nel suo trasferimento a Costantinopoli dove fu istruito dal letterato Mardonio.

Costanzo Gallo, probabilmente nel 341, dopo aver studiato ad Efeso e soggiornato in Asia Minore, si trasferì presso la residenza imperiale di Macello, in Cappadocia, dove fu raggiunto dal fratello Claudio Giuliano, rimasto senza tutore dopo la morte di Eusebio (341). A Macello i due ragazzi vissero assieme fino al 347, in un regime di limitata libertà tra letture e meditazioni, allorché Costanzo, dopo averli incontrati nel corso di una occasionale visita, fece trasferire Costanzo Gallo presso la propria corte di Costantinopoli, dove venne poco dopo raggiunto dal fratello Claudio Giuliano.

Nel 351 Costanzo Gallo venne insignito nel ruolo di cesare ed inviato in Asia Minore (§ 3a), mentre Claudio Giuliano venne trasferito a Nicomedia.

Nell’autunno del 355 mentre era ancora dedito a soddisfare i suoi interessi intellettuali Claudio Giuliano venne chiamato dal cugino Costanzo a Milano per essere insignito del ruolo di cesare ed inviato in Gallia (§ 3b).

 

Dopo l’eliminazione del cesare Dalmazio, destinato dallo zio Costantino all’amministrazione della Grecia, solo i tre figli di Costantino concorsero alla successione. Essi nel settembre 337, s’incontrarono in Pannonia (regione compresa tra le attuali Ungheria, Croazia e Slovenia) per assumere il titolo di augusto e ripartirsi l’impero confermando la ripartizione che aveva stabilito il padre al momento dell’attribuzione del titolo di cesare: a Costantino II regioni occidentali; a Costanzo II le ricche province orientali ed al diciassettenne Costante, posto sotto la tutela del fratellastro Costantino II e privato del diritto di emanare leggi, furono attribuite le regioni centrali. La regione di cui era titolare l’assassinato Dalmazio venne divisa fra Costanzo e Costante, con disappunto di Costantino II che tentò invano di farsi dare da Costante, quale compenso, una parte di territorio africano.

 

Fig. 2  Suddivisione dell’Impero, all’atto della morte di Costantino, tra i quattro cesari Costantino II ██,  Costante I ██ , Costanzo II ██, Dalmazio ██ .  Dopo l’uccisione di quest’ultimo il territorio venne diviso fra Costanzo e Costante.

 

2a.    L’affermazione di Costanzo II

L’intento di Costantino II, che nutriva una certa gelosia nei confronti dei fratelli, era quello di far valere il suo ruolo di fratello maggiore, augusto senior, che cercò di realizzare interferendo nell’amministrazione dei territori di Costante, di cui intese condizionare le scelte, e di Costanzo II, nelle cui città amministrate di Alessandria e di Ancyra (attuale Ankara) fece rientrare propri uomini di fiducia, i vescovi ortodossi Atanasio e Marcello allontanati dalle loro sedi, nel 335, allorché era prevalsa la tesi integralista della dottrina ariana. Costantino II era seguace della dottrina ortodossa trinitaria prevalente nelle regioni da lui amministrate. L’inserimento dei due religiosi, non avversato da Costanzo, impegnato nella difesa dei confini orientali, portò ad un temporaneo risultato. Mentre non altrettanta indifferenza rispetto alle ingerenze di Costantino II mostrò il giovane Costante che si ribellò alla tutela del fratellastro. Questi, per ricondurre alla ragione Costante, assunse l’iniziativa di dirigersi con il suo esercito verso i territori italiani governati dal fratello che si trovava in Pannonia. Costante, informato dell’iniziativa di Costantino, gli inviò contro una guarnigione per rallentarne la marcia prima che egli stesso potesse giungere con il grosso dell’esercito ed attaccarlo ad Aquileia. Costante, dopo un primo assalto, si ritirò per tendere al fratello una serie d’imboscate nel corso delle quali (aprile 340) Costantino II fu ucciso, nei pressi di Cervenianum (Cervignano del Friuli), dichiarato “nemico pubblico” (damnatio memoriae) ed il suo corpo gettato nel fiume Elsa.

Costante così poté aggiungere alle regioni centrali da lui amministrate anche il controllo di quelle occidentali lasciate da Costantino. Operazione che Costante completò senza entrare in conflitto con il fratello Costanzo II da cui lo dividevano scelte di natura religiosa in quanto questi aveva abbracciato la dottrina ariana diffusa in Oriente.

[4]

 

Il “vescovo” di Roma

Al tempo di Giulio I, il vescovo di Roma non aveva ancora assunto la denominazione di “papa”, benché, fin dal concilio di Nicea gli fosse riconosciuta una posizione di preminenza rispetto alle sedi patriarcali di Antiochia ed Alessandria cui si aggiunse (330) quella di Costantinopoli.  Siricio (384-389) fu il primo vescovo di Roma ad assumere ufficialmente il titolo di “papa” (pàpas) (I° decreto papale: 10 febbraio 386) anche se esso era stato adottato fin dal III sec., contestualmente ad un analogo uso del vescovo di Alessandria d’Egitto. Da allora, riprendendo i tratti essenziali della figura dell’imperatore (assolutismo e universalismo), il papa, in Occidente, unì, al potere pastorale e spirituale, l’autorità istituzionale e giuridica.

Il tentativo di comporre le divergenze fra la dottrina ortodossa diffusa in Occidente e quella ariana diffusa in Oriente indusse Costante I, sollecitato da Atanasio di Alessandria e dal vescovo di Roma, Giulio I (337-352)[4], a concordare con il fratello Costanzo II l’iniziativa di tentare la composizione in un Credo comune. A tal fine fu convocato, nel 343, un concilio generale a Sardica (odierna Sofia, ai confini fra i due imperi) esteso sia ai vescovi occidentali che a quelli orientali. Questi ultimi, la cui partecipazione era stata esigua, rifiutandosi di discutere, abbandonarono la seduta e si riunirono separatamente fornendo la misura della contrapposizione che divideva le due dottrine cristiane. Il concilio, in cui era rimasta soltanto la componente occidentale che rappresentava la tesi ortodossa, ribadì le conclusioni assunte dal concilio di Nicea, confermando Atanasio alla sede vescovile di Alessandria ed attribuì al vescovo di Roma il potere giudiziario di appello per i vescovi che venivano deposti dai concili provinciali. Potere non accettato dai vescovi orientali che, nel frattempo riunitisi a Filippopoli (città della Tracia), ribaltarono le conclusioni del concilio di Sardica decretando la scomunica del vescovo di Roma Giulio I, cui negarono l’autorità di intervenire negli affari della Chiesa orientale, e rinnovando la condanna di Atanasio. I contrasti dottrinali fra le due Chiese territoriali non coinvolsero i due fratelli che convennero nel proibire i sacrifici pagani e le pratiche di magia e nel salvaguardare i templi pagani.

Mentre l’attenzione di Costanzo (fig.3) era rivolta a difendere il suo territorio dalla pressione dei Persiani, Costante intervenne nelle controversie tra cristiani tentando anche ciò che non era riuscito al padre e cioè l’avvicinamento dei Donatisti (§1b) ai cattolici ortodossi d’Occidente. Ma la modalità usata, quella di inviare ingenti somme di denaro per temperare il rigido Donato di Casae Nigrae, venne sdegnosamente rifiutata.

 

In Britannia e Gallia, dopo che le milizie di Costantino II avevano lasciato i presidi gallici per contrapporsi al fratello, le tribù barbare che avevano ripreso la pressione sui territori imperiali. Costante dovette di conseguenza provvedere a potenziare le fortificazioni e ad esercitare sul territorio una diretta amministrazione che si caratterizzò da marcata inefficienza e dilagante corruzione, unite agli eccessi sessuali che Costante usava con i giovani ostaggi barbari. Un complesso di attività che aveva suscitato nel popolo e nell’esercito una diffusa indignazione esplosa, all’inizio del 350 in Gallia, in una rivolta che depose Costante. L’esercito nominò augusto il proprio comandante militare, Flavio Magnenzio, un franco di origine celtica mentre Costante cercava di sottrarsi alla furia popolare fuggendo verso sud. Inseguito, venne raggiunto ed ucciso in Spagna, la quale si associò alla Gallia nel riconoscere Magnenzio nuovo imperatore.

 

Costanzo, che sui confini orientali era impegnato nella guerra contro i Persiani della dinastia sassanide, non ebbe modo di reagire alla proclamazione di Magnenzio. E, per prevenire eventuali iniziative di questi, non disdegnò, o addirittura sollecitò tramite la sorella Costantina, l’iniziativa dell’esercito danubiano che proclamò imperatore il magister militum Vetranione. La disponibilità di Costanzo, che si trovava nella lontana Persia, nel favorire la proclamazione di Vetranione era dettata dalla considerazione che, trovandosi questi sui confini occidentali, avrebbe potuto meglio controllare le eventuali iniziative di Magnezio. Ma nella mente del sospettoso Costanzo non tardò a farsi strada il timore di un’intesa tra i due che lo spinse ad affrettare la conclusione delle operazioni militari in Oriente e concordare con il re sassanide Sapore I una pace (350) utile ad entrambi, perché mentre consentiva a quest’ultimo di volgersi al controllo delle frontiere orientali del suo regno dagli attacchi delle tribù nomadi, permetteva a Costanzo di rivolgere la sua attenzione a ridimensionare le aspirazioni degli usurpatori Magnenzio e Vetranione. Costanzo assunse pertanto una posizione d’intransigenza contro il più temibile Magnenzio, rifiutando sdegnosamente di ricevere gli ambasciatori che questi gli aveva inviato per proporgli un’alleanza. Quindi, confidando sul sostegno degli eserciti, provvide ad incontrare Vetranione per costringerlo ad un atto di sottomissione e ad imporgli il ritiro a vita privata.

Prima di rivolgersi contro Magnenzio in un’azione che lo avrebbe costretto ad allontanarsi dall’Oriente, Costanzo, nell’intendo di lasciare giustamente presidiato questo settore, pensò di affidarne la gestione ad un esponente della sua famiglia, il maggiore dei due cugini che erano stati risparmiati dalla purga del 337, Costanzo Gallo che viveva presso la sua corte di Costantinopoli.

 

Costanzo, diffidente per natura e guastato da cortigiani che aspiravano a guadagnarsene la fiducia, dopo avere nominato cesare (marzo 351) il cugino Costanzo Gallo, al fine di poterlo condizionare lo fece affiancare da ministri di sua fiducia, il prefetto del pretorio Tallasio e il questore Monzio Magno. Inoltre gli diede in moglie la propria sorella maggiore Costantina, abbastanza più vecchia di Gallo. Un matrimonio che, nell’ottica di Costanzo, gli avrebbe consentito di controllare non solo Gallo ma anche Costantina che, essendo stata moglie del fratellastro di Costantino, Annibaliano, ucciso nel corso della purga del 337, manteneva un rapporto diffidente nei confronti del fratello.

Risolta la copertura delle regioni orientali, Costanzo con le sue milizie risalì la penisola balcanica per affrontare Magnenzio che, penetrato con le sue truppe in Slovenia, ebbe la meglio in uno scontro ad Atrans. Costanzo, sorpreso dall’imprevista sconfitta, cercò un compromesso ed inviò presso Magnenzio il prefetto Flavio Filippo per offrirgli la pace a fronte del suo ritiro in Gallia. Offerta che Magnenzio, rassicurato dal recente successo, rifiutò proseguendo col suo esercito verso Mursa, in Pannonia. Qui avvenne uno scontro con le milizie di Costanzo (settembre 351) che conseguì un successo parziale, favorito dalla mancata partecipazione alla battaglia della cavalleria di Magnenzio che, invocata dal prefetto Flavio Filippo alla fedeltà verso la dinastia costantiniana, aveva defezionato. Dopo aver trascorso l’inverno a Sirmio, nella primavera del 352, Costanzo iniziò a premere sulle milizie di Magnenzio fino a costringerlo a rientrare in Gallia. Risultato che, col consenso dell’aristocrazia senatoriale romana, offrì a Costanzo l’opportunità di riprendere il controllo dei territori italiani ed africani, domini di Costante usurpati da Magnenzio, attraverso l’affidamento al senatore Vitrasio Orfito del comando delle flotte stanziate a Miseno e Ravenna. Magnezio, ormai abbandonato dalle strutture che si riconoscevano nell’eredità costantiniana e dal suo generale Claudio Silvano che si era legato a Costanzo, dopo essere stato sconfitto a Mons Seleucus (Provenza), si suicidò a Lugdunum (agosto 353). Costanzo divenne così imperatore unico d’Oriente ed Occidente e, per il controllo delle frontiere della Gallia, si affidò al magister miltum Claudio Silvano, benché questi fosse inviso agli ambienti di corte.

 

 

 

3.    Il ruolo di Costanzo II

 

3a.  Il rapporto con il cugino Costanzo Gallo

Fig.3  Costanzo II

 

Il cesare Costanzo Gallo, sulla via per raggiungere la sua sede di Antiochia, si fermò a Macellum per salutare il fratello Claudio Giuliano. Il suo insediamento ad Antiochia (maggio 351) coincise con una ribellione ebraica contro i romani che, guidata da Isacco di Diocesarea, causò strage tra i componenti di diverse etnie (Elleni e Samaritani), prima che  fosse sedata nel sangue dall’intervento del magister militum Ursicino che procurò la distruzione di Tiberiade e Diospoli, città coinvolte nella sollevazione. L’azione rese popolare Gallo che divenne oggetto di un complotto, probabilmente ispirato da Magnenzio (in quella fine del 351 stava affrontando Costanzo) nell’intento di distogliere Costanzo dall’azione contro di lui. Il complotto fu sventato con la cattura ed il massacro dei cospiratori.

Non risulta che Gallo, nei primi due anni del suo mandato, sia stato impegnato a controllare i confini con sassanidi, costretti essi stessi a difendere i propri confini orientali, né sia direttamente intervenuto a sedare altre ribellioni. Tuttavia il successo riportato nel sedare la rivolta iniziale lo aveva inorgoglito e l’accresciuta considerazione nelle sue possibilità lo spinse a cercare di svincolarsi dal controllo cui lo sottoponevano i funzionari istallati da Costanzo nei posti nevralgici dell’amministrazione e dal condizionamento della classe senatoriale di Antiochia. Per realizzare tale intento colse due occasioni. La prima gli venne fornita dal processo verso un inquisito per la cui condanna a morte, al fine di affermare la sua autorità, egli premette sul comes orientis, Onorato; episodio che indusse il prefetto del pretorio d’Oriente, Tallasio, ad inviare una nota di protesta a Costanzo. L’altra occasione si verificò allorché si verificò un aumento del prezzo del grano causato  da una carestia o dalla sottrazione di una grande quantità destinata al rifornimento delle truppe. Gallo intervenne con provvedimenti che, a parte l’inefficacia, provocarono un conflitto con i produttori tra cui vi erano molti senatori, che Gallo pretendeva venissero condannati a morte. Imposizione che il comes Onorato si rifiutò si applicare, dando occasione a Tallasio di riconfermare l’indipendenza del prefetto rispetto ai voleri del vice imperatore Gallo.

Costanzo, informato presso la sua corte di Milano delle insofferenze del cugino e del diffuso malcontento verso il suo governo, mentre era ancora impegnato contro Magnenzio, aveva richiamato una parte delle milizie affidate a Gallo per ridurne, quale misura precauzionale, la capacità offensiva. Alla morte di Tallasio (253; Onorato era già stato sostituito da Nebridio), Costanzo (aveva ormai risolto la controversia con Magnezio) nominò a sostituirlo Domiziano cui affidò un atto di convocazione da recapitare a Gallo. Domiziano, giunto ad Antiochia, manifestò platealmente la sua indipendenza da Gallo, che andò a trovare solo dopo aver svolto le formalità del suo insediamento ed unicamente per consegnargli la convocazione di Costanzo che gli intimava di presentarsi immediatamente presso la sua sede di Milano, pena la sospensione dei rifornimenti alla corte. Non sono chiare le iniziative del prefetto del pretorio Domiziano e del questore Monzio Magno, comunque, essendo funzionari che rispondevano direttamente a Costanzo, non è inverosimile ritenere che il loro atti fossero volti a destabilizzare Gallo. Fatto è che questi reagì alle loro iniziative facendoli arrestare e massacrare dalla sua guardia, e con essi, quanti erano a loro collegati. La foga vendicativa di Gallo, supportato della moglie Costantina, non si fermò e continuò con una repressione affidata al magister militum Ursicino, che, sulla base di generiche accuse di cospirazione e pratiche magiche, giustiziò rilevanti personaggi dell’amministrazione quali il filosofo Epigono di Cilicia, l’oratore Eusebio di Emesa, il rettore della Fenicia, Apollinare, il console della Siria, Teofilo, ed altri cittadini incolpevoli. Un regime repressivo che spinse alcuni funzionari, interessati a conseguire vantaggi personali da un cambiamento di amministrazione, a coalizzarsi e sollecitare Costanzo ad allontanare Gallo ed i collaboratori su cui poggiava il suo potere. Fu così che Costanzo, da Milano dove si trovava dopo una campagna contro gli Alemanni, non avendo avuto esito la convocazione di Gallo, chiamò l’uomo su cui questi fondava il suo potere, Ursicino, col pretesto di organizzare la ripresa delle attività contro i Persiani. Ursicino, giunto a Milano venne imprigionato ed analoga sorte toccò allo zio di Gallo, Vulcacio Rufino, fratellastro della madre.

Costanzo invitò quindi a Milano la sorella Costantina ed il marito Gallo il quale, temendo ritorsioni da parte del cugino, si fece precedere dalla moglie cui aveva affidato il compito di sondare le intenzioni del fratello. Costantina morì nel corso del viaggio (poi venne santificata malgrado i numerosi delitti che le erano stati addebitati e inumata in un mausoleo accanto alla sorella Elena, moglie di Claudio Giuliano) e Gallo, riluttante a muoversi da Antiochia, fu invogliato a recarsi a Milano dal tribuno Scudilo, il quale gli prospettò l’intenzione di Costanzo di elevarlo al ruolo di augusto volendo contare di un maggiore supporto nel controllo delle province occidentali. Durante il viaggio Gallo si fermò a Costantinopoli dove, nel corso dei giochi da lui indetti, assunse atteggiamenti propri dell’imperatore, cosa che indispettì Costanzo. Gli umori trapelavano e le truppe ed i consiglieri fedeli cercarono di dissuadere Gallo dal proposito di incontrare Costanzo e lo invitavano a trascorrere l’inverno del 353 sotto la loro protezione. Costanzo, costantemente informato delle mosse di Gallo, inviò suoi messaggeri col compito di indurlo a lasciare le sue milizie ad Adrianopoli per proseguire il viaggio con una scorta leggera. Giunto a Poetovio, Gallo venne arrestato da Barbazione e condotto a Pola dove fu processato per le repressioni ordinate ad Antiochia ed, in particolare, per le uccisioni del pretorio Domiziano e del questore Monzio Magno. Il fatto che Gallo abbia cercato di attribuire la responsabilità alla moglie Costantina fece irritare ancor più Costanzo che ne ordinò l’esecuzione. Gallo, a ventinove anni e dopo soli quattro anni nella funzione di cesare, venne decapitato alla fine del 354, nello stesso carcere dove Crispo era stato ucciso su mandato del padre Costantino.

Lo storico pagano del tempo Ammiano Marcellino avvalora la tesi di un Gallo effettivamente macchiatosi di atti di repressione sanguinaria, anche se tale giudizio non trova unanime consenso e lo storico pagano Zozimo lo indica vittima di una congiura. Se poi i giudizi negativi degli scrittori pagani contrastano con quelli positivi degli esponenti cristiani (quali il patriarca di Costantinopoli, Giovanni Crisostomo, il padre della Chiesa, Gregorio Nazianzieno, il teologo e vescovo di Ciro, Teodoreto, il vescovo di Antiochia, Eudosio ed il vescovo di Celesiria, Ezio) si deve attribuire a scelte di campo molto radicali in quel tempo ed al desiderio di voler esaltare la sua fede cristiana di Gallo da contrapporre alle scelte pagane del fratellastro Claudio Giuliano (§ 5b).  

 

 

3b.  Costanzo II ricorre al cugino Flavio Claudio Giuliano

Gli interventi di Costanzo per salvaguardare la sua posizione non erano finite perché macchinazioni di corte posero il magister militum Claudio Silvano, inviato a controllare la Gallia, probabilmente al di là delle sue effettive intenzioni, in conflitto con l’imperatore che lo mise sotto processo. Le milizie galliche, per reazione, proclamarono (355) Silvano imperatore. Costanzo, simulando di non essere a conoscenza della proclamazione, utilizzò la sua abituale strategia di inviargli una delegazione col mandato di convocarlo a Milano perché gli fosse affidato un nuovo e più importante incarico. A capo della delegazione e col mandato di catturare Silvano, era stato posto Ursicino che, mirando a riabilitarsi nella considerazione di Costanzo, non mancò di trarre Silvano in un agguato ed ucciderlo.

Dopo l’eliminazione di Claudio Silvano, la Gallia era rimasta esposta alle incursioni delle tribù gotiche dei Franchi e degli Alemanni al cui contenimento Costanzo non poteva direttamente provvedere dovendo presidiare anche le frontiere nord- e sud-orientali, pressate rispettivamente dalle tribù dei Quadi (tribù germanica stanziata oltre il Danubio) e dei Parti (popolo nord-iraniano). Pertanto Costanzo, benché sconsigliato dai cortigiani che gli ricordavano la recente esperienza avuta con Gallo ma allevato alla politica dinastica del padre, nel momento in cui gli urgeva affidare la gestione di un settore delicato come quello gallico, pensò di sottrarre ai suoi studi il cugino Claudio Giuliano, fratello di Gallo. Una scelta favorita dall’imperatrice Eusebia che ne apprezzava la cultura e, se pur maturata fra sospetto e fiducia, era confortata dalla considerazione che il mandato di controllare la Gallia era altamente pericoloso per chiunque, tanto più per chi si era dedicato unicamente agli studi.

 

Nel tracciare in [3] gli anni giovanili di Claudio Giuliano lo avevamo lasciato alle cure del vescovo Eusebio e poi all’insegnamento dell’eunuco Mardonio, un ex schiavo goto dotato di un’eccellente cultura e già educatore della madre Basilina. Giuliano coltivò così profondamente Mardonio da assimilarne il linguaggio “.. egli (Mardonio) elaborava e quasi scolpiva nel mio animo ciò che allora non era affatto di mio gusto ma che, a forza di insistere, finì per farmi parer gradito ..” e da convincersi che la cultura greca fosse la vera maestra di virtù ed insuperabile modello del bello e del buono fino al punto da ritenere che la causa della decadenza che avvertiva risiedesse nel  prevalere del mondo ecclesiastico e cortigiano del momento. Dopo la morte del vescovo Eusebio (341), istitutore del giovane principe che doveva sorvegliare con una certa superficialità, tale da non accorgersi dell’indirizzo culturale che riceveva, Giuliano, su disposizione di Costanzo II che temeva che egli potesse essere utilizzato dal fratello Costante I, raggiunse il fratellastro a Macellum. Dove, addolorato per il distacco da Mardonio, rimase sei anni isolato dall’esterno e vicino a un fratello che, diverso per maniere e cultura, non lo sollevava dalla solitudine. E, pur se viveva tra gli agi del palazzo imperiale, si sentiva controllato dai cortigiani di Costanzo e condizionato dai sacerdoti che assimilava a carcerieri. A Macello, indirizzato dal colto vescovo ariano Giorgio di Cappadocia, custode di una biblioteca ricca di volumi cristiani da cui poteva attingere, Giuliano si dedicò alla lettura delle sacre scritture che non attrassero il suo interesse. Anzi ne marcarono il distacco, benché a quel tempo egli aderisse ancora, non si sa con quanta convinzione, al cristianesimo, interrogandosi su cosa rappresentasse per lui questa religione abbracciata da viziosi e turpi frequentatori di una corte scellerata e corrosa da lotte fratricide.

Nel 347 trasferendosi a Costantinopoli si affidò alla dottrina del grammatico e filosofo pagano Nicocle di Sparta che lo avviò alla conoscenza della metrica, semantica, critica letteraria, mitologia, storia, geografia. Giuliano, a sedici anni, aveva già acquisito un pregevole livello culturale e cominciava ad essere apprezzato e ad avere un certo seguito. La cosa suscitò in Costanzo il timore che il giovane Giuliano potesse acquisire eccessiva popolarità, ragion per cui lo fece trasferire (351) a Nicomedia, principale focolare del neoplatonismo. Qui recuperò piena liberta e si accostò al nuovo maestro di retorica, il sofista Ecelobio, un disinvolto personaggio che, oscillante a seconda delle convenienze tra Cristianesimo ed Ellenismo (periodo della civiltà greca compresa tra il IV-I sec. aC), gli vietò di assistere alle lezioni del retore rivale, il pagano Libanio di Antiochia, delle cui lezioni Giuliano si procurò gli appunti e li studiò così puntualmente da improntare lo stile dei suoi futuri scritti e da spingerlo ad una riflessione profonda, senza la quale probabilmente la sua avversione al cristianesimo sarebbe rimasta latente.

Giuliano, che mostrava un fisico atletico, di media ed armoniosa statura, capelli lisci e barba, occhi lampeggianti e sopraciglia ben marcate, privo di alterigia ma estroverso e semplice nell’approccio, si

[5]

 

Giamblico di Calcide (245-325), teologo e filosofo neoplatonico ritenuto dai pagani suoi contemporanei uomo di grande sapienza e virtù, formulò una propria interpretazione del platonismo che accentuava la separazione tra anima e corpo. Egli si proponeva di guidare l'uomo all'unione mistica con i principi immateriali, attraverso la pratica della teurgia (termine coniato dal filosofo Giuliano il Teurgo che significa “agire con Dio”; si differenzia dalla teologia perché non si limita a discutere del “divino” ma ne indica anche le pratiche per evocarlo). Essa, propria della religione greco-romana pre-cristiana, consentiva all’uomo di accedere al divino per mezzo di rituali magico-religiosi (azioni, parole e suoni) che consentivano all’anima di purificarsi per unirsi alla divinità.

mostrava spesso in compagnia dei suoi maestri con cui esplorava nuove esperienze intellettuali. Per completare la sua formazione filosofica individuò in Massimo di Efeso, il maestro idoneo ad introdurlo alla teurgia del filosofo neoplatonico Giamblico[5] di cui lesse il commentario e ne rimase tanto affascinato da definirlo in uno dei suoi scritti (A Helios Re) “divino e perfezione di ogni umana saggezza” e a seguirne l’insegnamento mirante a guidarlo alla pratica del paganesimo. Un’esperienza che fece sviluppare i germi dell’insegnamento di Mardonio e maturare nella mente del giovane principe una chiara ed irresistibile vocazione verso il culto degli déi.

 

Nello stesso anno (351) Giuliano ricevette la visita del fratellastro Gallo che, nominato cesare era in viaggio per raggiungere la sede di Antiochia. Gallo che aveva carattere ed impostazione religiosa diversa da Giuliano, rimase sorpreso per i nuovi interessi filosofici del fratello e, per comprenderne meglio i contenuti, inviò subito dopo presso il fratello il teologo Aezio di Celesiria, un cristiano della corrente degli anomei (§ 5a), il quale, entrato in un rapporto di reciproco apprezzamento con Giuliano e benché avesse compreso che le scelte spirituali di questi erano rivolte al paganesimo, inviò a Gallo rapporti rassicuranti. Del resto Giuliano, per non incorrere nelle ritorsioni dei suoi potenti congiunti, cercava di occultare la sua scelta di fede al punto da farsi nominare lettore della chiesa di Nicomedia, ma non poteva sottrarre alla curiosità i suoi dibattiti con numerosi esponenti del mondo pagano (tra cui i retori Libanio ed Evagrio ed il sommo sacerdote Seleuco). In essi emergeva vivo il rimpianto per “i templi rovinati, le cerimonie proibite, gli altari rovesciati, i sacrifici soppressi, i sacerdoti esiliati, le ricchezze dei santuari distribuite a persone miserabili” e si progettava, nell’eventualità di un’ascesa di Giuliano alla responsabilità imperiale, di “dare ai popoli la loro prospettiva perduta e soprattutto il culto degli déi” (Orazione XVIII).

 

Nell’autunno del 355 mentre era ancora dedito a soddisfare le sue curiosità si verificò la svolta decisiva nella vita di Giuliano che, ancora scosso per il trattamento che aveva subito il fratello Gallo, venne convocato dal cugino Costanzo a Milano. Era prevedibile che Costanzo, responsabile della morte di Gallo, temesse le possibili reazioni del fratello. L’amalgama di sospetto e vendetta che affliggeva Costanzo era nota a Giuliano che rimase turbato della convocazione nel timore che il cugino, informato delle sue scelte di culto, volesse sottoporlo ad una requisitoria ancor peggiore di quella subita dal fratello. Nell’attesa di trovarsi al cospetto di Costanzo, egli cercò di controllare la sua angoscia ricorrendo agli déi. Il timore di essere inquisito si realizzò effettivamente, ma non per le scelte di culto bensì per l’accusa di essere stato coinvolto nelle trame del fratello Gallo. Motivo per cui Giuliano venne imprigionato finché l’inconsistenza delle accuse ed il benevolo intervento della colta imperatrice Eusebia gli fecero ottenere la libertà con l’imposizione di risiedere nel domicilio coatto di Atene. Nulla di più gratificante per lui che sentiva la Grecia come la sua vera patria e dove poté frequentare l’austero filosofo neoplatonico Prisco, di cui seguì i dibattiti di retorica e si accostò ai misteri eleusini [6] al cui complicato significato simbolico fu introdotto da un famoso sacerdote. Ad Atene ebbe occasione di seguire le lezioni di arte oratoria assieme al futuro teologo e padre della Chiesa, Gregorio di Nazienzo, che ne scrutò l’animo e lo avversò per le sue scelte, lasciando di lui (Orazione V) un ritratto particolarmente negativo sia dal punto di vista intellettuale che personale: “la parola esitante, le domande poste senza ordine né intelligenza e le risposte che si accavallavano le une con le altre come quelle di un uomo senza culturail suo collo sempre in movimento, le spalle sobbalzanti come piatti di una bilancia, gli occhi dallo sguardo esaltato, l’andatura incerta, il naso insolente, il riso sguaiato e convulso, i movimenti della testa senza ragion d’essere..”. Un commento malevolo che, pur valutato con ragionevole riserva, fornisce comunque l’immagine di un uomo timido, alquanto goffo ed impacciato in cui lo sguardo doveva suscitare particolare attrazione se all’“esaltato” di Gregorio Nazianzeno si abbinano gli “occhi terribili ed affascinanti” di Ammiano Marcellino e lo “sguardo lampeggiante, segno di viva intelligenza del filosofo siriano Libanio, (Orazione XVIII).

 

Durante quel soggiorno ad Atene giunse inattesa una nuova convocazione da parte del cugino ed il ventiquattrenne Giuliano lasciò Atene con sofferenza “Quale torrente di lacrime io versassi e quali gemiti” per raggiungere Milano. Qui, malgrado le sue diffidenze nei riguardi di Costanzo da cui lo divideva una istintiva avversione, ricevette il mandato di amministrare la Gallia che accolse con perplessità, sedata dalle sollecitazioni dei suoi consiglieri che vedevano l’occasione della sua affermazione. Egli era confortato dal suo segretario africano Evemero, unico ad essere al corrente della sua fede pagana con cui la praticava segretamente, ed il suo medico Oribasio a cui era stata affidata la cura della biblioteca regatata dall’imperatrice Eusebia. Costanzo, lo elevò al rango di cesare (6 novembre 355) con un’investitura davanti alle truppe schierate “Una giusta ammirazione accolse il giovane Cesare, raggiante di splendore nella porpora imperiale, non si cessava di contemplare quegli occhi terribili e affascinanti al tempo stesso e quella fisionomia alla quale l'emozione dava grazia” (Ammiano Marcellino) celebrata nella ragia di Milano. Egli rimase poche settimane presso la corte di Milano in una condizione d’isolamento, quasi da sorvegliato, senza ricevere particolare apprezzamento da Costanzo che lo definiva “greco pedante”. La situazione di emarginazione in cui era costretto non si protrasse più di qualche settimana perché Costanzo, rispondendo alla sua abituale inclinazione ad esercitare un controllo sui suoi amministratori, prima di inviarlo in quel focolaio d’incursioni barbariche che era la Gallia, dispose di condizionare Giuliano affiancandogli i suoi fidati collaboratori Marcello, Florenzio e Salustio a cui riservò rispettivamente gli incarichi più rilevanti, il comando dell’esercito, prefettura e questura. Dopo avergli dato in moglie la sorella Elena che, accanto a Giuliano, non assunse mai alcun rilievo, Costanzo avvertì Giuliano, senza averlo dotato delle idonee coperture e strumenti decisionali, che era tempo di raggiungere la Gallia. Una destinazione che nascondeva l’intenzione di immergerlo in una situazione da cui difficilmente ne sarebbe venuto a capo.

 

Giuliano diede avvio in quell’occasione al breve ed intenso ciclo della vita pubblica durato otto anni. Privo di qualsiasi esperienza amministrativa e di alcuna preparazione militare, egli si dedicò a colmare le lacune di più immediata urgenza ricorrendo alle letture degli scritti di Cesare ed alle Vite parallele di Plutarco per apprendere  i fondamenti delle strategie militari.

Giuliano con un esiguo contingente di poche centinaia di soldati passò l’inverno a Vienne (nei pressi di Lione), sede del governo della Gallia, dove fu entusiasticamente accolto dalla popolazione. Nella primavera del 356 si mosse ad affrontare qualche drappello barbaro e, congiuntosi al grosso dell’esercito comandato da Marcello, affrontò gli Alemanni con risultati alterni. Subì quindi un assedio nel campo invernale di Sens (Borgogna) senza ricevere aiuto da Marcello che aveva l’incarico di controllarlo più che di sostenerlo. Giuliano reagì deponendo Marcello e prima che questi potesse contattare Costanzo, mandò presso di questi il fidato consigliere Euterio ad informarlo dell’evento. Iniziativa coronata da successo perché Costanzo, nel timore dei problemi che sarebbero potuti sorgere con un comando frazionato delle milizie e nonostante le contrarie sollecitazioni dei cortigiani, affidò a Giuliano il comando generale dell’esercito in Gallia. E non solo, perché nell’estate del 357, dopo aver celebrato i vent’anni di regno a Roma, evento che volle ricordare con l’omaggio dell’obelisco (oggi davanti alla basilica di S.Giovanni in Laterano) proveniente da Alessandria d’Egitto, Costanzo inviò in appoggio a Giuliano, un consistente esercito comandato da Barbazio. Questo, prima ancora di congiungersi con le milizie di Giuliano, venne sconfitto dagli Alemanni che, numericamente prevalenti, proseguirono l’azione attaccando Giuliano nei pressi di Strasburgo. Fu questa occasione a rivelare le qualità militari di Giuliano che, dopo l’assalto subito, riuscì a riordinare la propria fanteria e a condurla in un’azione che spinse oltre il Reno l’esercito barbaro, consentendo il recupero di presidi acquisiti dagli Alemanni. Giuliano completò l’azione superando il Reno e inoltrandosi nel cuore della Germania per costringere alla resa le tribù che razziavano nei territori romani. L’azione venne coronata dalla cattura del comandante barbaro Conodomario che fu inviato come trofeo a Milano, suscitando in Costanzo maggiore invidia che soddisfazione.

Giuliano si ritirò a trascorrere l’inverno nei suoi accampamenti di Lutetia Parisiorum (attuale Parigi) e progettare le riforme di cui aveva bisogno la Gallia per risollevarsi dalla crisi prodotta dalle incursioni barbariche. La controffensiva ripresa nella primavera del 358 e proseguita nell’anno successivo si concluse con il recupero di tutti i territori occupati dalle tribù franche oltre il Reno e consentì il rientro nelle proprie sedi delle popolazioni che le devastanti scorrerie barbariche avevano allontanato. A campagna ultimata l’intera nazione gallica risultava pacificata e messa in sicurezza.

 

Giuliano utilizzo il prestigio acquisito con i successi militari per procedere alla riorganizzazione dell’amministrazione con riforme improntate a quei principi di giustizia ed equità assimilati nel corso delle sue meditazioni filosofiche. Il fine era di risollevare le condizioni della popolazione che viveva una profonda crisi economica. Questa era stata prodotta non solo dall’abbandono dei territori dalle popolazioni in fuga che aveva causato la scomparsa della piccola proprietà, poi assorbita dai latifondi, ma anche dalla depressione delle attività artigianali che aveva contribuito al crollo della raccolta impositiva (capitazio), in larga misura attribuibile all’evasione delle classi benestanti. Il rimedio proposto dal prefetto Florenzio di un’imposta supplementare venne rifiutato da Giuliano che provvide a colmare il minor gettito impositivo attraverso la persecuzione degli evasori ed il condono delle tasse inevase. Misura che si rivelò di tale efficacia da consentirgli di ridurre di due terzi la capitazio. All’amministrazione della giustizia pose scrupolosa attenzione presiedendo, come da tradizione imperiale, i processi d’appello in cui esigeva che i querelanti fornissero prova delle loro accuse. Ma non volendo essere coinvolto in merito di una controversia che riguardava il prefetto Florenzio, indicò il questore Sallustio per la direzione del processo. Florenzio però prevenne il processo riuscendo a destituire Sallustio con un intervento imperiale e privando Giuliano di un fidato collaboratore a cui successivamente dedicò uno dei suoi panegirici (discorsi o scritti con fini celebrativi).

 

All’inizio del 360, a Costanzo si presentò la necessità di dover contrastare l’invasione del persiano Sapore II che sulle frontiere orientali aveva conquistato due fortezze. Costanzo, geloso del consenso di cui in Gallia godeva Giuliano e timoroso che egli, sorretto dalle qualità dimostrate sul campo, potesse avanzare aspirazioni imperiali, utilizzò quell’occasione per cercare di circoscriverne il potere ed, istigato da Florenzio, dispose di utilizzare, per la guerra contro i persiani, la parte migliore del contingente dislocato in Gallia e composto da truppe ausiliare arruolate tra i barbari. Un’utilizzazione non dettata da necessità in quanto Costanzo non soffriva di carenze militari, difettava piuttosto di una accorta strategia di guerra. Tuttavia l’inattesa disposizione causò in Gallia manifestazioni di protesta sia nell’esercito che nella popolazione mosse da motivi diversi. I miliziani perché avevano ricevuto da Giuliano la promessa che non sarebbero stati utilizzati lontano dal proprio paese e la popolazione, appagata dal periodo di pace e benessere che viveva, perché temeva il riesplodere delle incursioni barbariche in seguito alla riduzione dei presidi militari. Giuliano, coll’intento di evitare una guerra civile, inviò una delegazione a Costanzo per declinare ogni responsabilità nelle manifestazioni e dichiararsi disponibile ad inviare un limitato contingente da utilizzare nella guerra contro i Parti a fronte del riconoscimento della sua autonomia nel governo della Gallia. Costanzo non accettò alcun compromesso e respinse i messaggeri di Giuliano.  

Giuliano conosceva le maniere di Costanzo ed intuiva che la partenza dell’esercito avrebbe fatto di lui un uomo alla mercé delle rivalse del cugino. Ragione per cui riceveva dai suoi più fidati collaboratori, il medico Oribasio ed il segretario Evemero, la sollecitazione a respingere la disposizione di Costanzo, proprio per non vanificare le attese del popolo e dell’esercito che, acclamandolo imperatore e portandolo in trionfo, spinsero l’esitante Giuliano ad assumere apertamente l’investitura imperiale e a resistere a Costanzo.

Mentre gli amministratori legati a Costanzo lasciavano la Gallia per non restare coinvolti nelle scelte di Giuliano, nell’animo di questi riaffiorava il conflitto fra la fedeltà all’imperatore ed il rancore verso il cugino contro cui emergeva il ricordo della responsabilità nel massacro della sua famiglia per mano di cristiani fanatici ed esaltati “Con quale bontà ci ha trattati questo imperatore clemente! I miei sei cugini, che erano anche i suoi, mio padre che era suo zio… li assassinò tutti senza processo”.

 

Giuliano, alla fine del 360, dopo aver contenuto gli attacchi portatigli dalle tribù franche, rientrò nella sua sede di Vienne dove festeggiò il quinto anniversario del suo governo della Gallia, durante cui si verificò la morte della moglie Elena. Essendo scomparsa anche l’imperatrice Eusebia (361), Giuliano si sentì libero da ogni legame con Costanzo contro cui prevalse l’antico sentimento di ripulsa, che aveva segnato la sua vita e le sue scelte. A questo si aggiunse l’informazione, occasionalmente intercettata, che Costanzo congiurava a suo danno spingendo le tribù barbare a muovergli contro. Eventualità che lo avrebbe posto nella pericolosa coincidenza di doversi difendere sia dalle milizie germaniche che da quelle imperiali. E, prima di disporsi a gestire lo scontro risolutivo con Costanzo che aveva sposato Faustina ed, al momento, era impegnato nella campagna contro i Sasanidi, volle rendere ancor più palese il distacco dal cugino imperatore facendo coniare una moneta con la sua effige e l’aquila imperiale.

 

Giuliano, nell’arco di cinque anni aveva fatto della Gallia una provincia felice nel panorama decadente dell’Impero e voleva evitare che, dopo la sua partenza, ricadesse nel disordine. Affidò pertanto al fidato Sallustio il grosso dell’esercito per la difesa della Gallia e divise le restanti forze in tre contingenti che affidò rispettivamente a Gioviano (gli succederà in qualità d’imperatore) con l’incarico di dirigersi verso l’Italia, al barbaro pagano Nevitta perché raggiungesse le regioni orientali d’oltralpi e riservò a se il contingente più esiguo e più selezionato per dirigersi verso la Pannonia. Qui costrinse alla resa la sede imperiale di Sirmio dove trovò una guarnigione che, non ritenendola affidabile, indirizzò verso la Gallia. Destinazione che la milizia non gradì e, ad  Aquileia, sollevò una ribellione che venne controllata da Gioviano, stanziato nei pressi con le sue truppe. Le milizie di Nevitta si disposero a sbarrare il passo alle truppe di Costanzo.

Costanzo si trovava ad Edessa (Mesopotamia) e, allorché apprese dell’arrivo di Giuliano in Tracia, preparò la controffensiva affidando ad Arbizione e a Gomoario, un nemico personale di Giuliano, due contingenti d’avanguardia per intercettare Giuliano.

Giuliano, intanto, inviava messaggi distensivi sia a Roma che ad Atene, Sparta e Corinto per spiegare le sue scelte e la voglia, ritenendosi appagato del suo ruolo, di pervenire ad un compromesso con Costanzo che, ove lo negasse, lo vedrebbe costretto a proseguire nelle operazioni di guerra. Cosa che non fu necessaria poiché a Giuliano giunse la notizia che Costanzo, muovendogli incontro da Tirso, era morto (3 novembre 361) a Mopsucreme in Cilicia (costa rivolta a Cipro) e che i capi dell’esercito di Costanzo lo invitavano ad assumere la signoria su tutto l’impero.

L’immediato passaggio dalle ansie della guerra alla consacrazione imperiale aveva la connotazione del miracolo.

Sembra perfino che Costanzo in punto di morte abbia designato Giuliano suo successore, scelta la cui veridicità è dubbia ma non inverosimile, data la fedeltà di Costanzo alla dinastia costantiniana.   

 

 

 

4.        Il breve impero di Giuliano

 

 

Fig.4   Giuliano l’Apostata

 

Giuliano (fig.4), divenuto unico imperatore dopo l’inattesa morte di Costanzo che gli aveva evitato di cercare con la forza la legittimazione al potere, raggiunse Costantinopoli (dicembre 361) per far ratificare dal senato la propria nomina e rendere omaggio alla salma del “beatissimo Costanzo” cui augurò “che la terra fosse leggera” benché poco tempo prima lo avesse definito “assassino della mia famiglia”.

Egli, cresciuto nell’austerità ed insofferente verso il servilismo, volle eliminare tutte le scorie della precedente amministrazione ed inserire i suoi collaboratori nel controllo dei vari settori di cui intese ridusse al minimo le spese. A tal fine ripulì la corte dalla presenza di spie, delatori ed eunuchi ed individuò i consiglieri di Costanzo ritenuti colpevoli di vari reati e soprattutto della morte del fratello Gallo. Iniziativa in cui Giuliano, uomo mite e saggio, si lasciò condurre dalle abitudini del tempo e dal sentimento di vendetta, che lo storico Ammiano Marcellino cerca di giustificare attribuendone la responsabilità alla sollecitazione ricevuta da personaggi della precedente amministrazione che, ammessi da Giuliano alla sua corte, cercavano di guadagnarsi i favori del nuovo padrone. Giuliano, benché ritenesse il fratello rozzo, violento ed afflitto della scelleratezza comune ai membri della famiglia di Costantino, era altrettanto convinto del malanimo che aveva mosso Costanzo ed i suoi consiglieri contro Gallo. E per individuare i colpevoli volle istituire a Calcedonia un collegio inquisitorio affidato al magister militum Arbizione, passato al servizio di Giuliano, ed uno giudicante presieduto dal leale pretorio Sallustio. Quei consiglieri che, alla corte di Costanzo regolavano le loro manipolazioni secondo quanto dettava l’interesse del momento, furono identificati nel praepositus sacri cubiculi Eusebio, nel tribunus scutariorum Scudilone, nel comes domestocorum Barbazione, nell’agens in rebus Apodemio, nel notarius Pentadio, nel comes largitiorum Ursulo, in Paolo Catena e nel prefetto Florenzio che si sottrasse al processo con la fuga. Cinque di essi, coinvolti nell’arresto ed esecuzione di Gallo, vennero condannati a morte, tuttavia quella di Pentadio non appare sufficientemente giustificata e quella di Ursulo sembra il frutto di una vendetta di Arbizione, contro cui Giuliano colpevolmente non ebbe l’animo di intervenire.

 

Nel breve periodo della gestione di Giuliano (ventun mesi), i suoi interventi legislativi, improntati da rigore ed equità, avviarono nel corso dell’impero una svolta che si sarebbe potuta consolidare solo a seguito di una sua lunga permanenza al potere. In quel periodo vennero stroncati in buona misura la corruzione e gli abusi, avviando quel decentramento amministrativo che condusse alla rivalutazione delle autonomie dei centri urbani attraverso il ripristino dell’autorità decisionale dei consigli municipali. Questi che erano garanti dello sviluppo sociale e culturale locale, in diversi periodi dell’impero e per motivi dettati dalla situazione del tempo (crisi economica, fiscalità, ecc.), erano stati spogliati delle loro prerogative causando il declino delle province. Per il loro rilancio egli, nel marzo 362, emanò una serie di norme che stabilirono: la restituzione, con indennizzo, alle comunità delle terre confiscate dallo Stato; la cancellazione dell’imposta che i funzionari periferici (decurioni) dovevano versare allo Stato ad eccezione della collatio lustralis (imposta diretta dovuta dai commercianti, ideata da Alessandro Severo e regolarizzata da Costantino); il trasferimento ai possessores della gestione delle stazioni di posta e della cura delle strade dalle municipalità; l’abbreviazione dei tempi processuali onde evitare illeciti compromessi. Infine lo sforzo volto a debellare la corruzione che aveva inquinato i contabili municipali soggetti a vendere le cariche pubbliche non diede risultati soddisfacenti. Era anche giunto il momento di dare esecuzione al desiderio nutrito con più ardore, quello di aprire i templi pagani e restaurare il culto degli dei (§ 5b).   

Giuliano si predisponeva a proseguire nelle sue innovazioni fra cui l’impostazione di nuove norme volte alla designazione del successore che, nell’interesse del bene pubblico,  doveva essere scelto al di fuori del principio dinastico, allorché fu costretto a sospendere la sua attività legislativa per intervenire militarmente contro i persiani di re Shapur II che avevano ripreso a minacciare i confini dell’Impero.

 

Per preparare la controffensiva contro i persiani, nell’agosto del 362, si trasferì ad Antiochia, città cristiana, insofferente del paganesimo e dedita alle mollezze orientali, che lo accolse con diffidenza. E l’incendio del tempio di Apollo, verificatosi durante il suo soggiorno e che egli attribuì ai cristiani, non dovette essere solo una casualità.

Da Antiochia, spinto da mistica fiducia nel proprio successo e dal desiderio di emulare Alessandro e Traiano, nel marzo 363 con un esercito di 65000, uomini attraversò l’Eufrate in direzione di Seleucia per muovere guerra ai Persiani di cui, ostinatamente infervorato, rifiutò l’offerta di una trattativa per avventurarsi in una impresa da cui l’amico Sallustio dalla Gallia cercava di dissuaderlo. Dopo aver riportato iniziali successi con la conquista delle fortezze di Pirisabora e Maiozamalca, costringendo i Persiani ad asserragliarsi nella loro capitale, Ctesifonte che non volle porre sotto assedio perché attratto dalle grandi prospettive che avevano arriso ad Alessandro Magno. Risalì il fiume Tigri muovendosi in direzione dell’Armenia lungo un tragitto in cui fu sottoposto a continui assalti dalle milizie avversarie che lo seguivano da presso. Esse vennero più volte respinte e penalizzate con gravi perdite ma nel corso di un improvviso attacco venne colpito da un giavellotto che gli perforò il petto. Ai suoi maestri Prisco e Massimo di Efeso che lo assistevano rivolse le sue ultime parole “Non ho da pentirmi di quanto ho fatto, né mi tormenta il ricordo di qualche grave delitto. Sia nel periodo in cui ero relegato in ombra e in povertà, sia dopo aver assunto il principato, ho conservato immacolata la mia anima che discende dagli dei celesti per parentela”.

Scomparve così, a trentadue anni, quel personaggio affascinante che dal punto di vista della formazione intellettuale viene considerato il più greco degli imperatori.

Ammiano Marcellino ne pianse la scomparsa “Per la prudenza era considerato il nuovo Tito, per i gloriosi risultati delle campagne militari simile a Traiano, clemente al pari di Antonino i Pio, mentre nella ricerca della ragione vera e perfetta fu come Marco Aurelio, sul cui esempio modellò il suo carattere e il suo comportamento”. E Voltaire, vedendo in Giuliano il sostenitore della libertà contro l’oscurantismo della Chiesa, scrisse di lui che “..in ogni cosa fu pari a Marco Aurelio, il primo degli uomini”.

 

 

 

5.        Le controverse figure di  Costanzo II e di Giuliano l’Apostata

 

5a. Costanzo II

Come si è potuto dedurre dai fatti che caratterizzarono la vita di Costanzo II, le trame di corte furono una componente determinante nella gestione del suo potere perché, non mantenendo egli diretti contatti con gli amministrati, ogni informazione che gli giungeva era filtrata e distorta dai suoi collaboratori.

L’eredità che Costanzo ricevette dal padre si presentò complessa, sia sul piano politico che religioso e, com’era costume della sua dinastia, egli non ebbe riluttanza ad avvallare la strage dei congiunti nel 337 e ad assumere successivamente iniziative severe contro il cugino Gallo a cui rimproverò gli stessi comportamenti a lui abituali e così l’uso della crudeltà nel reprimere le rivolte. Altrettanto deciso fu nel troncare ogni tipo di opposizione per mantenere il controllo dell’impero, rafforzando l’apparato burocratico con l’inserimento di suoi uomini fidati (agentes in rebus) in quei servizi da cui si poteva raccogliere ogni sussurro che potesse far sospettare la nascita di un complotto.

Militarmente non poté vantare rilevanti successi, a meno di quelli conseguiti nella campagna contro i Sarmati (358) e le rivalse sui competitori furono in buona parte conseguite sfruttando la popolarità della sua dinastia o affidate agli esiti di ambigue missioni diplomatiche.

 

Nel settore religioso, seguì la politica paterna a favore della Chiesa cattolica ai cui vescovi confermò il potere giurisdizionale e le esenzioni fiscali. Tuttavia si venne a trovare di fronte alle stesse inconciliabilità che la potente figura del padre non era riuscito a rimuovere e dovette districarsi non solo tra conflitti teologici difficilmente governabili all’interno di un Cristianesimo la cui corruzione aveva invaso la corte imperiale, ma anche muoversi nell’antagonismo tra un Cristianesimo in espansione ed il mondo pagano sostenuto da una vasta componente sociale (aristocrazia, intellettuali, militari e masse rurali). E se sulla via di un paganesimo tollerato ed un cristianesimo accettato, assecondò quest’ultimo favorendo la chiusura dei templi pagani e la proibizione dei sacrifici al fine di reprimere pratiche magiche ed esorcismi, cercò anche di governare, sull’esempio del padre ma senza averne l’autorevolezza, le dispute religiose che continuavano a dividere le correnti dottrinarie sulle tematiche relative alla cristologia (§ 1b).

 

I suoi interventi in ambito dottrinale, dettate dall’influente teologo Eusebio di Nicomedia, il vero animatore dell’arianesimo, non contribuirono a risolvere le controversie né portarono sostanziali vantaggi all’affermazione della dottrina ariana che aveva abbracciato.

Si è già detto dell’iniziativa di Costanzo, concordata con il fratello Costante per la convocazione del concilio di Sardica del 343 (§ 2).

       Nel 350, di fronte alla palese divisione fra la Chiesa d’Oriente, sostenitrice della dottrina integralista ariana, da quella ortodossa diffusa in Occidente, allineata alle conclusioni trinitarie del Concilio di Nicea (§ 1a), Costanzo che era rimasto unico imperatore di Oriente ed Occidente, volle imporre nel dibattito teologico la propria linea (“la mia volontà è canone”) per poter tenere sotto controllo le contrapposte entità ecclesiastiche, attraverso cui egli intendeva diffondere il proprio potere, gestito dalla sua regia di Sirmio (l'attuale Sremska Mitrovica in Serbia).

Convocò a tal fine i sinodi di Arles (353) e di Milano (355). Nel primo vennero ribaltate le conclusioni dei concili favorevoli alle scelte ortodosse della Chiesa d’Occidente ed in seguito ad esse il vescovo di Arles, Saturnino, cercò di imporre l’arianesimo in tutte le chiese galliche ponendosi in contrastato con Ilario di Poitiers (315-368), una delle figure emergenti tra i vescovi europei. A Milano parteciparono i vescovi occidentali che si riunirono nella Chiesa principale (Basilica major) assieme agli orientali. Questi, entrati in conflitto con gli occidentali guidati dal vescovo trinitario Eusebio di Vercelli, abbandonarono il dibattito per trasferirsi nella cappella del palazzo imperiale. Costanzo, senza assumere specifica posizione rispetto al Credo niceno, con un intervento intimidatorio, impose la condanna di Atanasio e l’esilio dei suoi seguaci sostenitori delle tesi ortodosse (Eusebio di Vercelli esiliato a Scitopoli in Palestina, Lucifero di Cagliari esiliato in Siria, Dionigi di Milano esiliato in Cappadocia e sostituito dall’ariano Aussenzio, Ilario di Poitiers fu esiliato in Frigia) e non riconobbe il primato del vescovo di Roma e la sua indipendenza dal potere imperiale sancito dal concilio di Roma del 341. Lo stesso vescovo di Roma, Liberio, non accettando le conclusioni emerse, venne esiliato in Tracia, finché, assunta  una posizione apparentemente più conciliante (358), poté rientrare a Roma per essere reintegrato.

Questo momento storico del Cristianesimo fu ben descritto da S. Girolamo nella sua frase: ”Il mondo, gemendo, stupì di trovarsi ariano”.   

Gli interventi di Costanzo si ripeterono, tra il 357 ed il 359, allorché dopo la scomparsa dei principali teorici della dottrina ariana (Ario ed Eusebio di Nicomedia), su sollecitazione del vescovo Acacio di Cesarea allievo e successore di Eusebio, egli pensò di ribaltare le conclusioni favorevoli alla tesi trinitaria di Nicea legando i partecipanti al vincolo del ripudio della dottrina ortodossa in alternativa all’esilio. Si tenne così una serie frenetica di concili, sia nella residenza imperiale di Sirmio che in diverse sedi d’Occidente, imperniate sulla contrapposizione fra l’ariano Acacio di Cesarea e l’ortodosso Cirillo di Gerusalemme e movimentate dall’intervento dei teologi più rappresentativi del momento (Basilio di Ancira, Eustazio Sebaste e Giorgio di Laudicea, Macedonio di Costantinopoli, Ilario di Poitiers).

Nel concilio di Sirmio (o Ancyra) del 359 (il terzo della serie) Basilio di Ancyra (336-360, succeduto al vescovo ortodosso Marcello di Ancyra, 285-374) assieme a Giorgio di Laudicea e ad Eustachio di Sebaste assunse una posizione compromissoria fra gli anomei (ariani) e gli omousi (antiariani) (§ 1a) con la proposizione della formula del “Cristo simile nella sostanza a Dio” ed Acacio di Cesarea propose la più generica del “Cristo somigliante” i cui seguaci furono chiamati omeisti (da homoiousios: somigliante). La proposta indusse Costanzo II, nella convinzione che questa interpretazione potesse trovare un generale consenso, a convocare il sinodo di Rimini (359) per imporla a tutto il clero occidentale. Questo, ampiamente rappresentato, si allineò invece al Simbolo Niceno, respingendo la nuova formula compromissoria (definita “blasfemia” da Ilario di Poitiers) che non trovò consenso nemmeno fra gli ariani integralisti riuniti (361) a Seleucia (di Antiochia) cui prese parte anche Costanzo.

Dopo la morte di Costanzo ed il breve periodo di paganesimo (361-363) imposto dall’imperatore Giuliano l’Apostata, l’animato contrasto cristologico non si interruppe e permise agli ortodossi omousi di serrare le fila e di consentire ad Atanasio e ad altri vescovi esiliati di ritornare nelle loro sedi.

 

 

5b.  Giuliano l’Apostata e le sue scelte

Si è detto più volte come Giuliano avesse impressa nella mente la sgradevole sensazione vissuta all’atto del massacro subito dai membri della sua famiglia che più volte riportò nei suoi scritti “Tutto quel giorno fu una carneficina e per intervento divino la maledizione tragica si avverò. Si divisero il patrimonio dei miei avi a fil di spada e tutto fu messo a soqquadro” ad opera di cristiani fanatici ispirati dai figli di Costantino (“..ignorante com’era..”)  che non si era preoccupato “..che i figli fossero educati da persone sagge”. Man mano che l’indelebile ricordo del massacro e l’apprezzamento della cultura ellenistica lo diversificava dalla fede cristiana, lo spettacolo della corruzione di cui il cristianesimo si era contaminato lo avvicinava sempre più al paganesimo. Una considerazione, quella della corruzione, avvallata dallo stesso padre della Chiesa, Gregorio di Nazienzo, il quale conveniva che i cristiani nella prosperità perdettero la gloria acquisita nel periodo delle persecuzioni (250-305).  Giuliano maturava il convincimento che dal dio Helios gli venisse l’ispirazione di allontanarsi “dal sangue, dal tumulto, dalle grida e dai morti” che aveva steso un velo d’ombra e di tristezza sulla sua fanciullezza.

[7]

Il culto di Mithra

Mitra era una divinità indoiranica a carattere solare: Sol invictus (equivalente ad Helios della mitologia greca). Era rappresentato con il berretto frigio (pileus) o con i capelli ricci circondati da un’aureola. Intorno a Mitra nacque una religione misterica (mitraismo) praticata da più di un millennio prima di diffondersi nel mondo romano (67 aC) importato da prigionieri cilici e dai legionari provenienti dall’Oriente.

Il culto di Mitra divenne la religione misterica più diffusa tra il I sec. aC ed il V sec. dC. Esso mirava alla ricerca della perfezione spirituale e morale da raggiungere attraverso una pratica che doveva riunire l’anima alla completa salvezza.

 

(I manoscritti che illustrano i caratteri del culto sono posteriori al cristianesimo e le somiglianze appaiono tanto maggiori quanto più recenti sono gli scritti)

Fu nel suo soggiorno a Nicomedia, successivo al 351 che egli, fino allora allevato alla fede cristiana secondo la dottrina ariana, trovò la consacrazione definitiva delle tendenze cui lo aveva iniziato il suo primo maestro Mardonio. In quel periodo vi fu il suo avvicinamento alla teurgia del neoplatonico Giamblico[5] che, attraverso Massimo di Efeso, infervorato da ritualismo mistico, esercitò su Giuliano un’azione tale da conferirgli un indirizzo speculativo verso quella forma di religione che guidava l’individuo all’unione mistica con i principi immateriali. Scelta che lo portò ad abbracciare segretamente la pratica del paganesimo ed essere iniziato al culto di Mitra[7], antica religione diffusa nel mondo ellenistico.

Con l’iniziazione al culto di Mitra, Giuliano realizzò quello cui “.. fin da fanciullo fu insito in me un immenso amore per il raggi del dio, e alla luce eterea indirizzavo il pensiero tanto che, non stanco di guardare sempre al Sole, se uscivo di notte con un cielo puro e senza nubi, subito, dimentico di tutto, mi volgevo alle bellezze celesti ...” (Orazione IV) e insieme credette di cogliere nella propria esistenza la necessità di renderla parte essenziale del tutto “chi non sa trasformare, ispirato da divina frenesia, la pluralità di questa vita nell'essenza unitaria di Dioniso ... corre il rischio di vedere la propria vita scorrere via in molteplici direzioni, e con ciò sfrangiarsi e svanire ... verrà per sempre privato della conoscenza degli dèi che io giudico più preziosa del dominio del mondo intero”. Nel “Inno al re Sole” il primo dei suoi scritti religiosi, Giuliano descrive come Helios sia l’ipostasi[8] intelligibile del Bene, assimilando la luce del Sole all’energia intellettuale che illumina gli spiriti e gli dèi visibili, cioè gli “astri”, che presiedono alle funzioni più alte del cosmo.

 

 Giuliano aveva

[8]

Ipostasi (hypo-stasis: sotto-sta) è un concetto che assume diversi significati in diverse discipline:

- Nella filosofia neoplatonica essa designa le tre sostanze spirituali costituenti il mondo intellegibile (Uno, Intelletto, Anima) ed appartenenti alla stessa sostanza divina, dalla quale tutto viene creato per emanazione;

- Nel Cristianesimo, essa svolse un ruolo fondamentale nella formulazione della dottrina trinitaria per cui fu coniato il termine unione ipostatica specifica per indicare la compresenza in Cristo di entrambe le nature, umana e divina, in un'unica ipostasi.

assimilato quel complesso di dottrine con cui era stato a contatto per organizzare il suo miso-cristianesimo in un sistema filosofico che, accettando a priori l’esistenza dell’universo senza l’intervento di una causa soprannaturale e creatrice, intendeva piuttosto determinare il rapporto fra quest’ultima e l’universo esistente. Per cui egli, non ponendo eccessiva fiducia sulla effettiva carica vitale del paganesimo in quanto era consapevole che questo non sarebbe riuscito a prevalere su una organizzazione strutturata come quella cristiana, tentò la ristrutturazione del paganesimo. Per la cui realizzazione, pur ispirandosi al neoplatonismo (indirizzo filosofico del II sec. dC in cui confluivano correnti filosofiche e dottrine religiose nate in Oriente) che non riprendeva il paganesimo politeistico e naturalistico degli antichi e, non volendo egli allinearsi al Cristianesimo il cui monoteismo negava le tendenze panteistiche (Dio identificato con la natura del mondo) della cultura filosofica, egli combinò una elaborazione filosofica in cui modificò un politeismo simbolico e mistico con l’inserimento di concetti ripresi dal cristianesimo (laddove il Dio supremo e soprannaturale crea il mondo attraverso un mediatore divino che si rivela agli uomini, il logos-Cristo per i cristianesimo ed il dio-Sole per il neoplatonismo). Realizzò una sorta di sincretismo religioso (fusione di elementi mitologici culturali e dottrinali per conciliare il culto per gli déi pagani con il Dio) incentrato sul culto solare ispiratore delle più alte idealità rivolte al supremo bene (che aveva affascinato imperatori suoi predecessori, Marco Aurelio Antonino, noto Eliogabalo ed Aureliano). In esso inserì gerarchie, pratica dei sermoni e delle attività di sostegno, secondo modelli cristiani. Con il culto solare egli intendeva recuperare il genuino spirito romano perché “è un grandissimo crimine rimettere in questione quel che una volta è stato stabilito e definito dagli antichi”.

La considerazione che il Cristianesimo si era diffuso ed entrato profondamente nelle abitudini sociali spinse Giuliano ad un ardore nella preghiera in cui, pur se mancava l’estasi del neoplatonico Plotino che si sprofondava e si annegava in Dio o lo slancio vibrante di S. Agostino rapito in divina contemplazione, permaneva un sentimento religioso più profondo di quello che animava i cultori del politeismo.

 

Il suo tentativo di arginare l’avanzata del Cristianesimo e di ricondurre lo Stato al culto politeista era certamente ispirato sia da una credenza filosofica installatasi su rancori personali ma, secondo alcune interpretazioni, anche da una esigenza politica di potere che riteneva più governabile una società eticamente divisa. Non si può, tuttavia, semplicemente ritenere che uno spirito ingegnoso, acuto e virtuoso, come generalmente Giuliano era ritenuto, abbia fatto una scelta ispirata soltanto da un sentimento irrazionale, non valutando nella giusta misura la situazione etico-religiosa del tempo che vedeva un Cristianesimo affermato ed in continua espansione. E’ piuttosto pensabile che egli, in contrasto con la valutazione dello zio, l’imperatore Costantino, che aveva scelto il Cristianesimo quale fattore etico di ordine e stabilità, abbia ponderatamente ritenuto che quanto meno andassero cancellati quegli aspetti eticamente negativi manifestati dai cristiani attraverso il recupero della gloriosa civiltà ellenista.

Tuttavia gli sforzi di Giuliano e dei suoi ispiratori, Giamblico e Massimo, non potevano attecchire in un mondo che, con l’avvento dell’Impero ed il culto della patria, aveva perso la tendenza periferica di identificare con divinità i fenomeni naturali. Inoltre Giuliano, col fine di impedire il diffondersi della religione cristiana che ormai aveva vinto ogni resistenza, cadde nell’errore di cercare di dimostrarne l’irragionevolezza e la mancanza di base storica. Cosa che la Chiesa dominante ritenne offensiva e non poté perdonargli. Perché, nel momento in cui essa era impegnata ad elaborare una sintesi teorica, egli tentava di tenere i cristiani legati al mondo giudaico e all'Antico Testamento  e, malgrado egli non abbia fatto versare sangue cristiano, fu condannato all’oblio più spietatamente di quanto non sia stato fatto con i suoi predecessori, responsabili di efferate persecuzioni.

 

Nel momento in cui, nel febbraio 362, divenne imperatore e si affrancò dall’obbligo di dover praticare in clandestinità le ritualità della fede su cui si era incamminato, decise ad attuare un programma di ripristino di un governo imperiale ispirato a principi del passato sul modello di grandi imperatori quali erano stati Augusto, Traiano e quello che gli era per cultura più vicino, Marco Aurelio. Egli, con la restaurazione del paganesimo, voleva riaffermare il principio di equità e giustizia, assimilati dalle dottrine filosofiche cui si era formato, per stroncare gli abusi legati alla corruzione ed abolite i privilegi.

Emanò pertanto un proclama di tolleranza verso i culti di tutte le religioni che consentì l’apertura dei templi pagani per la celebrazione dei relativi riti e restituì i beni confiscati estendendo ai pagani i privilegi che Costantino e Costanzo avevano concesso al culto cristiano.

Riconoscendo al paganesimo le stesse prerogative di cui godeva il cristianesimo, egli fu designato pontifex maximus della religione pagana e si dedicò alla redazione di scritti ispirati dalla sua cultura neoplatonica, richiamando accanto a se i suoi maestri pagani perché ne promuovessero il culto. A tal fine ordinò la costruzione di un mitreo (cavità di modeste dimensioni, priva di finestre dove si celebrava il culto ad Helios-Mitra) all’interno del palazzo imperiale.

Nello spirito di tolleranza verso i cristiani, consentì il rientro nelle proprie sedi a tutti i vescovi cristiani esiliati dai proclami ariani, non tanto per liberalità quanto per la convinzione che questo avrebbe favorito il loro reciproco disfacimento, ritenendo che non vi fossero “belve più pericolose per gli uomini di quanto non siano stati i cristiani nei confronti dei loro correligionari”. Però precluse loro l’insegnamento di retorica e grammatica, non ritenendoli in grado, per la loro formazione ideologica, di servire la cultura secondo la tradizione classica, la paideia (modello ateniese che educava i giovani secondo la cura del corpo e la socializzazione dell’individuo), e pose un limite al loro impiego nell’amministrazione. Decisione che mise in disagio le famiglie cristiane costrette ad educare i figlioli secondo l’insegnamento pagano e coloro che, inseriti nell’amministrazione statale, furono obbligati all’abiura allarmando le autorità ecclesiastiche e causando disordini contestuali al processo di ripristino dei valori pagani. Questi interventi contro i cristiani, non condivisi nemmeno dal suo maggior ammiratore, Ammiano Marcellino, gli valse l’appellativo di “Apostata” che, attribuitogli dal vescovo Gregorio Nazianzeno (Orazione IV) scritta dopo la morte di Giuliano e ripreso da Sant’Agostino nella Città di Dio, rimase associato per sempre alla figura di Giuliano. L’appellativo circolava già quando Giuliano era in vita e ad esso replicò ritorcendolo contro i cristiani “noi non ci siamo abbandonati allo spirito dell’apostasia” e “quelli che non sono né Greci né Ebrei, ma appartengono all'eresia galilea ... apostatando hanno preso una via loro propria” (Contro i Galilei, 297 e 164).

Il malcontento della componente cristiana si stava organizzando contro Giuliano che non ebbe modo di considerare la ripresa di una persecuzione contro di loro perché venne distolto dall’intervento contro i persiani durante cui trovò la morte, evento che segnò la fine del progetto di ritorno al paganesimo e la spinta si afflosciò perché il cristianesimo era ormai penetrato in profondità nelle coscienze della maggior parte della  società e nelle istituzioni e, come era accaduto nel secolo precedente, ogni tentativo per reprimerlo infondeva maggior impulso alla sua diffusione.

 

Giuliano lasciò un patrimonio di scritti (epistole, orazioni, satire e trattati teologico-filosofici) per argomentare la restaurazione del paganesimo. Tra essi i più significativi dl punto di vista religioso sono “Contro i Galilei” e “Inno a Helios re”.

In “Contro i Galilei” esamina la religione ebraica, partendo dalla Genesi, per dimostrare come il Cristianesimo fosse una derivazione irrazionale dell’ebraismo, attribuendo al Dio una funzione di organizzatore e non di creatore. Al Dio ebraico contesta il “divieto di adorare altri déi” come se tale affermazione fosse il riconoscimento di una pluralità e non di un’unicità ed una ammissione di “mancanza di onnipotenza” in quanto incapace di distogliere gli uomini da altri dèi. Ed in qualche maniera misura il Dio ebraico con il “demiurgo platonico” “artefice e padre dell’universo” in quanto “forza ordinatrice” che trasforma e non crea perché mediatore tra il mondo delle “idee” e la “materia” a cui trasmette il modello ideale già esistente. Giuliano mette in risalto gli episodi biblici in cui il Dio si è mostrato despota (costringere il popolo a vivere in schiavitù) o tollerante (con Davide per l’uccisione di Uria l’Ittita, marito di Betsabea) per evidenziare come il cristianesimo invece di sanare queste scelleratezze le ha “lavate” con il “battesimo” facendo affermare a Gesù (Matteo), circa la legge mosaica, “Non sono venuto per abolirla ma per rinnovarla”.

L’“Inno a Helios re” e “Madre degli Dei” contengono l’impostazione del suo sistema teologico che, in una ispirazione poetica piuttosto che dottrinaria, vede nel re Sole il dio attorno al quale l’universo si organizza,

 

 

 

6.        Epilogo

 

Per la scelta del nuovo imperatore, non avendo Giuliano completato il progetto per una nomina che si ponesse in funzione del bene comune e non essendovi diretti discendenti in linea maschile della dinastia costantiniana, la componente civile e militare indicò imperatore (giugno 363) il più influente comandante dell’esercito, Gioviano, cristiano ed originario della Pannonia. Egli ebbe solo il tempo di annullare i provvedimenti anticristiani di Giuliano e di concludere una discutibile pace con i persiani a cui concesse il controllo dell'Armenia e dei territori conquistati dagli imperatori suoi predecessori in Mesopotamia, motivo che indusse lo storico Marcellino a definirlo debole, succube del Cristianesimo e politicamente incapace. Morì accidentalmente in Galizia (febbraio 364).

Gli succedette un altro militare originario della Pannonia, Valentiniano I (364-375), energico, austero e cristiano che avviò un evento di portata storica perché, associandosi in qualità di augusto il fratello Valente (375-378) diede avvio alla divisione dell’Impero. Infatti assegnò a Valente il controllo delle province orientali, Impero d’Oriente costituito da Egitto, Medioriente, Turchia, e parte meridionale della penisola balcanica, e mantenne per se il controllo dei territori nordafricani, Spagna, Francia, Britannia, Italia, Svizzera, Austria e parte settentrionale della penisola balcanica, Impero d’Occidente. Due settori legati da nominale unità in cui si poteva legiferare in maniera differente e le cui rispettive capitali Costantinopoli e Roma divennero rivali inconciliabili.

Nel concilio di Lampsaco (attuale Lapseki sullo stretto dei Dardanelli) indetto nel 364 da Valentiniano, furono rigettate le tesi ariane pur se la parte orientale dell'impero, sotto l'imperatore Valente di fede ariana, rimase a questa ancorata. Divenne fondamentale, in quel tempo l'azione dei tre grandi padri Cappadoci (Basilio di Cesarea, Gregorio di Nissa e Gregorio di Nazianzo), strenui difensori del Credo niceno che iniziò a fare breccia nel blocco ariano.

 

 

6a.  Graziano e Teodosio

Graziano (375-383) che, alla morte padre Valentiniano I, aveva affiancato il fratello Valentiniano II di quattro anni (375-392), nominò, dopo la morte di Valente (378), imperatore in Oriente il comandante spagnolo Teodosio (379-395). Questi, insediatosi a Costantinopoli, cercò subito di rinvigorire l’esercito con larghi arruolamenti di Goti per meglio fronteggiare le orde barbariche di Alemanni e Franchi che premevano nelle regioni del Reno, e quelle di Ostrogoti, Visigoti e Vandali che premevano sul Danubio. Alla guerra frontale, Graziano e Teodosio preferirono il patteggiamento, accogliendo i barbari come “federati” (alleati in appoggio all’esercito) ed istituendo, al di qua del Danubio, un vero e proprio stato germanico cuscinetto che rappresentò la prima unità politica barbarica, presupposto della seguente frantumazione dell’Impero d’Occidente.

Successivamente Teodosio, assunta una posizione di preminenza e ritenendo che l’imperatore dovesse mantenere una supervisione sulle attività della Chiesa, nel 380, con l’editto di Tessalonica (attuale Salonicco), fece del Cristianesimo la religione ufficiale dello Stato e nel 381 convocò, su sollecitazione del vescovo di Milano, Ambrogio (339-387) il 1° Concilio di Costantinopoli in cui vennero gettate le basi per la definitiva affermazione del credo niceno-costantinopolitano. L’abolizione del “Mitraismo” (391) gli procurò l’appellativo “il Grande” da parte degli scrittori cristiani ed, in Oriente, venne commemorato come santo il 17 gennaio.

Nel 383 Graziano morì assassinato mentre si apprestava ad affrontare Magno Massimo proclamato imperatore dalle legioni britanniche. Magno Massimo propose un trattato di amicizia a Teodosio che accettò mentre segretamente si preparava ad affrontarlo. Lo scontro si concluse nel 388 ad Aquileia con la sconfitta definitiva di Magno Massimo. Valentiniano II divenne imperatore in Occidente dove l’effettivo potere era gestito dal magister militum Arbogaste. Dopo la morte misteriosa di Valentiniano II (392), Teodosio rimase signore di tutto l’impero e fu l'ultimo imperatore a regnare su un impero unificato.

 

A Teodosio successero i figli, Onorio (395-423) ed Arcadio (395-408), il primo in Occidente, insediato a Milano (dove Teodosio aveva installato la corte) ed affiancato da un prode generale dell’esercito, Stilicone (semibarbarus, di padre vandalo e madre romana); il secondo in Oriente, affiancato dal prefetto Flavio Rufino.

 

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Nota

Le notizie riportate si riferiscono in buona parte a quanto ha scritto lo storico Amminano Marcellino (330-391) in Rerum gestarum libri XXXI (Res gestae) in cui vengono descritti gli anni tra il 96 ed il 378 (da Nerva a Valente), continuando l'opera di Cornelio Tacito. Quelli giunti a noi riguardano solo il periodo 353-378. Pur essendo nato in Medioriente si sentì profondamente Romano ed entrò nell’esercito di Costanzo II a fianco di Ursicino che seguì anche nella spedizione contro Claudio Silvano di cui ne condivise la caduta in disgrazia. Riprese quota con Giuliano a cui rimase sempre a fianco.

La esposizione storica del suo tempo fatta da Ammiano Marcellino, nato da nobile famiglia di Antiochia è estremamente importante perché serena, imparziale e completa “guida esatta e degna di fede, che ha composto la storia del suo tempo senza indulgere nei pregiudizi e nelle passioni che affliggono solitamente la mente di un contemporaneo” (Edward Gibbon) e, benché pagano, si deve rilevare la testimonianza sulla persecuzione dei cattolici da parte dell'imperatore Costanzo, cristiano ma di confessione ariana, che ha contrapposto a Giuliano di cui forse eccede in esaltazione “è l’esemplare di una vita migliore” ma ne rivela anche i difetti e ne stigmatizza l’intolleranza nei riguardi dei cristiani di cui ammira l’eroismo con cui affrontavano il martirio e ne loda le virtù mentre irride l’intolleranza verso il vescovo di Roma (a quel tempo Liborio) che ritiene la somma autorità della Chiesa.