L’Impero nel IV sec.
Costantino I e i successori Costanzo II e Giuliano l’Apostata
L’influsso sulle problematiche religiose
di Franco
Savelli
1. Il
ruolo di Costantino: nell’ascesa al potere, nelle dispute teologiche e nell’organizzazione
dello Stato
2. La
successione di Costantino e l’affermazione di Costanzo II
3. Il
ruolo di Costanzo II; Il rapporto con i cugini Costanzo Gallo e Claudio
Giuliano
4. Il
breve impero di Claudio Giuliano
5. Le
controverse figure di Costanzo II e di Claudio Giuliano “l’Apostata”;
-
Costanzo II e gli interventi nelle dispute religiose;
- Giuliano l’”Apostata” e le sue scelte
6. Epilogo
- Graziano e Teodosio
1a. Nell’ascesa al potere
La
figura di Costantino emerse nelle confuse vicende che seguirono le dimissioni
di Diocleziano e del suo omologo Massimiano (305 dC), imperatori
rispettivamente dell’Oriente ed Occidente romano.
[1] Riforma tetrarchica La
riforma prevedeva l’istituzione di due imperatori, individuati
rispettivamente come Iovius ed Herculius
e destinati al governo dell’Oriente e dell’Occidente (il secondo in
subordine al primo) che assumevano il nome di I e II augusto. Essi sceglievano due
collaboratori cui veniva attribuito il titolo di cesare (equivalente a
vice imperatore) e con essi dividevano il controllo delle prefetture in
ciascun settore. Nel momento in cui l’imperatore veniva meno, subentrava
nel ruolo di augusto il relativo cesare che, a sua volta, nominava un
nuovo cesare.
Ai dimissionari Diocleziano (I augusto) e Massimiano (II
augusto), succedettero i rispettivi cesari,
Galerio e Costanzo Cloro il quale, benché più anziano, non ottenne il titolo di
Iovius che andò a Galerio. Causa
questa dei primi contrasti. I nuovi augusti
designarono i nuovi cesari in Massimino
Daia per l’Oriente e Flavio Valerio Severo per l’Occidente.
Costantino (280-337) era figlio del cesare Costanzo Cloro e della concubina Elena, una locandiera che
Costanzo abbandonò per sposare Teodora (figlia di Massimiano) da cui ebbe tre
figli, Dalmazio, Annibaliano e Giulio Costanzo. Costantino, cresciuto in
Oriente presso la corte di Diocleziano, dopo l’assunzione del padre al ruolo di
augusto, lo raggiunse in Britannia
per affiancarlo nelle campagne militari. Da qui, sfruttando il suo fiuto
politico e sorretto da una personalità priva di scrupoli, iniziò la scalata al
potere favorito dalle circostanze che determinarono il crollo dei suoi colleghi
e rivali.
Alla morte di Costanzo Cloro (306) l’esercito acclamò
Costantino nuovo augusto d’Occidente, alterando il sistema istituzionale di
successione che prevedeva il subentro in quella veste di Flavio Valerio Severo.
Da qui nacque una controversia inizialmente sanata coll’intervento di Galerio (I augusto) che stabilì la nuova tetrachia composta dagli augusti Galerio e Severo e dai cesari Costantino e Massimino Daia. In
quel periodo convulso, sfruttando il malcontento dei pretoriani e della
popolazione romana s’inserì, tra i titolari istituzionali, l’usurpatore
Massenzio che, figlio di Massimiano ed escluso dalla successione, si autonominò
imperatore, rivelandosi portatore di una visione conservatrice dello Stato.
Si riaccese una controversia che, coinvolgendo tutti i
personaggi sopra citati, ebbe un primo aggiustamento con la morte di Flavio
Valerio Severo (307), fatto uccidere da Massenzio contro cui era stato inviato
da Galerio. Si arrivò così (308) al riconoscimento di quattro augusti: Galerio e Massimino Daia in
Oriente, Costantino in Gallia, Britannia e Spagna ed il subentrante Valerio
Liciniano Licinio (250-325) nell’Illirico (penisola balcanica) mentre Massenzio
continuava ad esercitare il suo potere a Roma.
Nel
giro di tre anni scomparve una parte dei protagonisti: Massimiano abbandonò il
figlio Massenzio per avvicinarsi al genero Costantino (aveva sposato la figlia
Fausta) con cui venne in conflitto e da questi, nel 310, fu imprigionato e costretto
al suicidio; dopo la morte di Galerio nel 311 per cancrena, Costantino mosse contro
Massenzio che venne sconfitto prima a Torino e Verona e poi nella battaglia decisiva
di Ponte Milvio (312) dove Massenzio morì annegato nel Tevere; Massimino Daia, nel 313, si suicidò dopo
essere stato sconfitto ad Adrianopoli (in Tracia) da Licinio con cui era in
lotta per il predominio nella parte orientale dell’impero. Eventi che
semplificarono la spartizione del potere fra i sopravvissuti, Valerio Liciniano
Licinio (250-325) e Costantino (280-337) che divennero imperatori
rispettivamente in Oriente ed in Occidente.
La
battaglia di Ponte Milvio, combattuta il 22 ottobre del 312 alle porte di Roma presso i Saxa Rubra della via Flaminia, è entrata nella
leggenda perché attribuisce a Costantino la visione, prima della vittoria, di
un cerchio dorato (signum) tendente a
fornire un significato apologetico relativo all’intervento del Dio cristiano
quale ispiratore della vittoria (quod
istinctu divinitatis). C’è anche chi ha fornito una diversa interpretazione
della visione facendola risalire ad un singolare fenomeno celeste determinato
dalla congiunzione in cui si sarebbero venuti a trovare i pianeti Saturno,
Marte e Giove nella notte del 21 ottobre, precedente il giorno della battaglia.
La credenza della visione trovò comunque accoglienza non solo tra cristiani ma
anche tra i pagani il cui aspetto polimorfo della loro religione li rendeva
disponibili ad accogliere segnali d’ispirazione divina. Ed è anche un fatto che
la vittoria conseguita in quella battaglia servì a concentrare nelle mani di
Costantino il potere sulle regioni occidentali dell’Impero il cui
indebolimento, iniziato fin dal tempo di Marco Aurelio a seguito delle
pressioni dei popoli germanici sui confini, aveva causato una disgregazione nel
tessuto sociale e necessitava di un rilancio sul piano politico, amministrativo
e sociale.
Val
la pena sottolineare come gli episodi possano indirizzare i percorsi della
storia e, nel caso citato, della civiltà perché se a Ponte Milvio fosse
prevalso il pagano Massenzio, il Cristianesimo verosimilmente non avrebbe avuto
la misura dell’affermazione favorita da Costantino.
Costantino
non era un credulo interprete di visioni ma, oltre che un esperto generale, si
rivelò un politico di larghe vedute che, nell’intento di superare la crisi e
riorganizzare l’impero, analizzò le ragioni dei falliti tentativi dei suoi
predecessori.
Le
difficoltà che travagliavano quell’inizio di IV sec. erano pregresse e legate
ad una crisi di identità conseguente ai mutamenti che la società aveva subito
con l’inserimento entro i confini di nuclei tribali, di diversa cultura e
tradizione, che avevano operato una costante pressione dall’esterno. Costantino,
non volle percorrere le strade improduttive dei suoi predecessori Quinto Decio
(249-251), Valeriano (253-260), Aureliano (270-275) e lo stesso Diocleziano
(284-305) che, per rinvigorire le strutture decadenti dell’impero si erano
mossi contro la comunità cristiana che ritenevano destabilizzante. Così per
fronteggiare il dissesto economico avevano perseguitato la comunità dei
cristiani per confiscare i loro ingenti beni o, per consolidare l’impero
attorno ai valori della tradizione pagana, avevano tentato di risolvere il
conflitto religioso esistente tra pagani e cristiani con una fusione di
elementi mitologici, culturali e dottrinali che conciliasse il culto per gli
déi pagani con quello per il Dio cristiano (sincretismo:
tendenza a riunire elementi dottrinali provenienti da diverse culture). In
sostanza Costantino comprese che tutti gli sforzi fino allora operati si erano
richiamati ad un conservatorismo che, avendo come fulcro una visione unitaria
del potere e della religione, si era rifatto a disposizioni tendenti ad epurare
coloro che non si allineavano al credo pagano. Cioè la forte componente dei cristiani
che, essendo, con il loro proselitismo, penetrati nell’amministrazione ed
raggiunto funzioni a carattere culturale ed educativo, erano ritenuti capaci di
scuotere la compattezza dell’impero. Il cui superamento della crisi attraverso
l’emarginazione della componente cristiana non raggiunse l’obiettivo prefissato.
Anzi, paradossalmente, tutti gli editti rivolti contro i cristiani fecero
acquisire alla Chiesa il riconoscimento di entità con cui lo Stato doveva
contrapporsi.
Costantino
ritenne pertanto indispensabile l’inserimento, tra le forze vive dell’impero,
di quella potente ed avvolgente rappresentata dai cristiani che considerava un
eccellente fattore di ordine e stabilità. A tal fine concordò con l’augusto d’Oriente, Valerio Liciniano
Licinio l’elaborazione di un editto di tolleranza religiosa verso tutti i culti
(editto di Milano, febbraio 313), “…abbiamo posto queste relative al culto della
divinità affinché sia consentito ai Cristiani e a tutti gli altri la libertà di seguire la religione
che ciascuno crede, affinché la divinità che sta in cielo, qualunque essa sia,
a noi e a tutti i nostri sudditi dia pace e prosperità”. Il Cristianesimo
così venne riconosciuto religio licita
e godette dell’abrogazione di tutte le precedenti misure persecutorie in merito
alle quali venivano anche precisate le riparazioni ed i compensi da riconoscere
ai cristiani, tra cui la restituzione dei luoghi di culto e dei beni
confiscati. Da allora in poi Costantino si ispirò al cristianesimo in buona
parte della legislazione, inserì i cristiani nell’organizzazione imperiale e
s’accinse ad ordinare economicamente e dogmaticamente la Chiesa. La libertà
acquisita dal cristianesimo di poter diffondere il proprio messaggio di
salvezza produsse un cambiamento d’identità nel panorama dell’impero.
Benché il rapporto
fra i due augusti si fosse rafforzato attraverso il matrimonio di Licinio con
la sorella di Costantino, Costanza (da cui nacque, nel 315, il figlio omonimo
Valerio Liciniano Licinio), non tardarono i contrasti. Licinio, in Oriente, mosso
dal sospetto non infondato che i cristiani fossero sostenitori di Costantino, si
rese colpevole di una politica repressiva contro di loro. Tra i due lo scontro
si rese quindi inevitabile e Costantino sconfisse il cognato a Mardia (317)
costringendolo ad un temporaneo accomodamento che fu cedergli l’Illiria. Il conflitto
si riaccese nel 324 allorquando Licinio, malgrado la superiorità numerica delle
sue milizie, venne sconfitto da Costantino prima ad Adrianopoli e poi dal
figlio di questi, Crispo, in una battaglia navale presso i Dardanelli. Quindi
definitivamente a Crisopoli (sul Bosforo) dove Licinio venne catturato.
La sconfitta di Licinio fece di Costantino imperatore unico (sia per l’Occidente che per l’Oriente) spingendolo, prima di dedicarsi allo sviluppo ed all’ordinamento dell’Impero, ad una frenetica smania di potere che lo portò a disfarsi, in una disinvolta e sciagurata purga domestica, di coloro che potevano insidiarlo. In questa sequenza delittuosa rimasero vittime, oltre a Licinio di cui temeva la voglia di rivincita ed il figlio omonimo di questi, il proprio figlio primogenito Crispo che, avuto dalla prima moglie Minervina, fu accusato di complotto dall’imperatrice Fausta e quindi anche su questa si abbatté la condanna allorché Costantino si accorse che le accuse rivolte a Crispo erano strumentali alla eliminazione del concorrente dei propri figli Costanzo II e Costante I.
1b. Nelle dispute teologiche
[2] Controversia ariana I
cristiani Ortodossi d’Occidente che sostenevano “identità di natura e sostanza di Cristo con la Divinità suprema”
vennero identificati con il termine di omousi
(da homoousios: uguale); essi si
differenziavano dai cristiani integralisti d’Oriente seguaci del vescovo
libico Ario (356-336) che sosteneva “l’assoluta
trascendenza del Padre” per cui la “natura
del Figlio differente da quella di Dio”: questi vennero identificati
con il termine anomei (da anomoios: differente).
-
Intervento
sul Donatismo
Costantino si servì del vescovo di Roma, Milziade
(311-314), per cercare di sanare la controversia sorta tra i seguaci
dell’intransigente e colto vescovo Donato di Casae Nigrae (Donatisti) che
avevano resistito alle ingiunzioni degli editti di Diocleziano e subito la
persecuzione piuttosto che cedere e coloro che avevano abiurato per aver salva
la vita (lapsi). I donatisti esigevano una Chiesa pura e non volevano che coloro che avevano
tradito la loro fede potessero somministrare i sacramenti. Inoltre la loro
intransigenza che poneva la Chiesa in antitesi con lo Stato non era accettabile
da Costantino che, dopo l’insuccesso della mediazione di Miliziade, perseguitò
i donatisti, prima di arrendersi alla loro inflessibilità ed emanare un editto
di tolleranza.
-
Intervento
sull’Arianesimo
Un più esteso e divaricante fronte di contrasto era
quello che contrapponeva i cristiani integralisti d’Oriente con i cristiani
ortodossi Occidente e divideva quel mondo in due contrapposte dottrine[2] La controversia
prettamente teologica era nata a seguito della riflessione dell’austero e
rigoroso presbitero libico Ario che, sviluppando dottrine del II-III sec. (Modalismo o Sabellianismo, Adozionismo,
Monarchianismo, Subordinazionismo) tendenti a limitare la natura del Figlio
rispetto a quella del Padre a cui si attribuiva un carattere “assolutamente unico”, si domandava “se Cristo era della stessa natura divina del
Padre ovvero inferiore a Lui, anche se superiore ad ogni altra creatura” (cristologia: parte della teologia che si occupa della natura umana-divina
di Cristo e dei temi connessi). Una questione che, toccando il tema dell’incarnazione, veniva a compromettere la tesi trinitaria e, di conseguenza, la
capacità di redenzione del Figlio.
Temi tutti fondamentali nella teologia cristiana perché la negazione della
natura divina di Cristo faceva venir meno il collegamento, attraverso i
sacramenti, dei credenti con il soprannaturale.
Costantino, attribuendo alle dispute solo una valenza
terminologica, cercò dapprima di contenere i contrasti esplosi a seguito della
condanna attribuita ad Ario dal Sinodo di Alessandria del 321, quindi decise di
convocare a Nicea, nel giugno del 325, il primo Concilio ecumenico della storia
della Chiesa a cui parteciparono circa 300 vescovi. Costantino, con un discorso
centrato sulla concordia quale auspicio di pace religiosa, avviò i lavori del
concilio che si concluse con l’affermazione della tesi trinitaria sostenuta dal vescovo Atanasio di Alessandria
rispetto a quella contrapposta ariana sostenuta dal vescovo Eusebio di
Nicomedia (-341). Quest’ultima negava la consustanzialità
tra Cristo Gesù ed il Padre in quanto vi era stato un tempo in cui Gesù “non era esistito” e pertanto “non uguale” al Padre “sempre esistito” ma di rango inferiore e
pertanto differente da Dio. La tesi trinitaria invece asseriva la “consustanzialità del Padre e del Figlio” da
intendersi come “identità di natura e sostanza” (“una è la sostanza divina e tre le Entità divine: il Padre ingenerato,
il Figlio Gesù generato e lo Spirito Santo che procede dal Padre”),
concetti ripresi nella formulazione del “Credo” conclusivo (Simbolo di Nicea), tutt’ora celebrato,
con una modifica successiva apportata nel concilio di Costantinopoli del 381.
Lo stesso concilio decretava l’esilio nell’Illirico (penisola balcanica) del
vescovo Ario e dei suoi seguaci.
Le conclusioni del
Concilio di Nicea, accettate in Occidente, trovarono una vivace opposizione in
Oriente dove la maggioranza ariana-integralista indusse Costantino, sollecitato
da consiglieri e familiari alla convocazione, nel 335, del Sinodo di Tiro. A
questo atto era stato convinto dalla considerazione che la dottrina ariana, che
riteneva la “Chiesa un organismo di origine terrena”, meglio della concezione
emersa a Nicea, di una “Chiesa corpo di origine divina che trovava fondamento
solo nell’autorità ecclesiastica”, rispondeva alle esigenze imperiali (mentre
la), Il Sinodo, avviato a Tiro e concluso a Gerusalemme, in occasione della
consacrazione (settembre 335) della basilica del Santo Sepolcro fatta edificare
da Costantino sul luogo presunto della sepoltura di Gesù, ribaltò le
conclusioni di Nicea. Allorché si giunse a proclamare “dottrina” quella ariana
che prima era stata condannata come “eresia”, a reintegrare i vescovi ariani
esiliati e a sconfessare Atanasio di Alessandria.
1c. Nell’organizzazione
dello Stato
Costantino,
rifacendosi all’organizzazione impostata da Diocleziano, articolò l’impero in
quattro prefetture (Gallia e Spagna; Italia ed Africa nord-occidentale;
l’Africa nord-orientale con basso Danubio e Tracia; penisola balcanica)
all’interno delle quali mantenne separato il potere militare da quello civile,
affidato al prefetto del pretorio
che, coadiuvati dai governatori delle
province, amministravano la giustizia, le finanze, la logistica militare e
l’applicazione degli editti imperiali; potere controbilanciato dalla breve
durata della carica. Impostò la sua funzione imperiale come da monarca assoluto
circondato da un’aura sacrale.
La sua attività si
svolse soprattutto nei settori orientali, i più nevralgici per la difesa
dell’Impero per cui pensò di fondare (326) sul sito in cui sorgeva l’antica
Bisanzio, una città concepita sul modello di Roma, Costantinopoli, quale segno
della sua grandezza.
L’aspirazione dei suoi trent’anni di regno fu di ridare
ordine all’impero riportandolo agli splendori di Traiano e, coll’apporto dei cristiani,
rifondarlo su valori etici che cercò di imporre anche alle popolazioni di confine,
goti e sarmati, di cui, nel periodo 332-335, controllò le mire espansionistiche.
Frattanto aveva affidato il controllo dell’impero ai figli ed al nipote
Dalmazio, assegnando al figliastro Costantino II (nato ad Arelate, febbraio 317-340) la Gallia, Britannia e Spagna,
a Costanzo II (nato a Sirmio, agosto 317-361) l’Oriente Asiatico e l’Egitto
ed a Costante I (320-350) l’Italia,
Illirico e l’Africa nord-occidentale ed al nipote Dalmazio la Grecia, Mesia e
Tracia (fig.2).
Consapevole della
necessità di stabilire una successione dinastica, non riuscì a formalizzare il
progetto perché morì prematuramente (febbraio 337) mentre si preparava ad
affrontare i Persiani.
La successione restò pertanto
affidata ad una selezione ispirata dalla contrapposizione tra i figli e
praticata dall’esercito, con l’eliminazione dei pretendenti non graditi.
Il progetto di
successione non attuato da Costantino fu gestito, dopo la sua morte, dai
militari che, su mandato del figlio Costanzo II, eliminarono quei parenti che
avrebbero potuto vantare pretese ereditarie. Metodi non estranei alla
consuetudine familiare perché Costanzo aveva visto comportamenti analoghi
applicati dal padre sul figlio primogenito Crispo e sulla moglie Fausta.
La purga attuata dall’esercito, strumento di
potere nella politica costantiniana, colpì i discendenti maschi dei nonni, Costanzo
Cloro e Teodosia, cioé il cesare
Dalmazio ed il re delle genti pontiche
Annibaliano, nipoti di Costantino (in quanto figli del fratellastro, il censore
Flavio Dalmazio), ed altri otto cugini di cui risparmiò i due più giovani,
Flavio Costanzo Gallo e Flavio Claudio Giuliano[3], figli del fratellastro di Costantino, Giulio
Costanzo. La strage di famigliari avvenuta a Costantinopoli fu addossata alla
responsabilità di Costanzo che là risiedeva e, benché egli abbia cercato di scagionarsi,
risulta significativa l’affermazione del retore Eutropio “Costantio sinente potius quam iubente”.
[3]
Formazione giovanile dei fratelli Costanzo Gallo e Claudio Giuliano
Per il ruolo che assumeranno in seguito, Eè
opportuno tracciare il periodo giovanile dei due giovani fratelli, Flavio
Costanzo Gallo e Flavio Claudio Giuliano che, al momento in cui era stata
soppressa la loro famiglia (337) avevano rispettivamente 12 e 6 anni.
Costanzo Gallo era nato
in Italia, nel 325, dal primo matrimonio del padre, Giulio Costanzo, con la
nobile romana Galla. Rimasto vedovo, Giulio Costanzo si trasferì a Nicomedia
accanto alla propria sorella Costanza, vedova dell’imperatore Licinio, e ad una
figura di primo piano nel dibattito teologico del tempo, il vescovo Eusebio. Giulio
Costanzo sposò in seconde nozze Basilina, una donna di raffinata cultura che
morì pochi mesi dopo aver messo al mondo, nel 331, Flavio Claudio Giuliano.
I due ragazzi, Costanzo Gallo e Claudio
Giuliano, privati dei beni dolo l’eliminazione del genitore, furono allontanati
dalla corte di Costantinopoli e separati: Costanzo Gallo fu inviato ad Efeso
dove studiò, mentre Claudio Giuliano rimase a Nicomedia presso la nonna
materna, affidato alle cure del vescovo Eusebio da cui ricevette una educazione
cristiana. Giuliano seguì, nel 339, il tutore Eusebio nel suo trasferimento a
Costantinopoli dove fu istruito dal letterato Mardonio.
Costanzo Gallo, probabilmente nel 341, dopo aver
studiato ad Efeso e soggiornato in Asia Minore, si trasferì presso la residenza
imperiale di Macello, in Cappadocia, dove fu raggiunto dal fratello Claudio
Giuliano, rimasto senza tutore dopo la morte di Eusebio (341). A Macello i due
ragazzi vissero assieme fino al 347, in un regime di limitata libertà tra
letture e meditazioni, allorché Costanzo, dopo averli incontrati nel corso di una
occasionale visita, fece trasferire Costanzo Gallo presso la propria corte di
Costantinopoli, dove venne poco dopo raggiunto dal fratello Claudio Giuliano.
Nel 351 Costanzo Gallo venne insignito nel ruolo
di cesare ed inviato in Asia Minore (§ 3a), mentre Claudio Giuliano venne
trasferito a Nicomedia.
Nell’autunno del 355
mentre era ancora dedito a soddisfare i suoi interessi intellettuali Claudio
Giuliano venne chiamato dal cugino Costanzo a Milano per essere insignito del
ruolo di cesare ed inviato in Gallia
(§ 3b).
Dopo l’eliminazione del cesare Dalmazio, destinato dallo zio Costantino all’amministrazione
della Grecia, solo i tre figli di Costantino concorsero alla successione. Essi
nel settembre 337, s’incontrarono
in Pannonia (regione compresa tra le attuali Ungheria, Croazia e Slovenia) per assumere
il titolo di augusto e ripartirsi
l’impero confermando la ripartizione che aveva stabilito il padre al momento dell’attribuzione del titolo di cesare:
a Costantino
II regioni occidentali; a Costanzo II le ricche province orientali ed
al diciassettenne Costante, posto sotto la tutela del fratellastro Costantino II e
privato del diritto di emanare leggi, furono attribuite le regioni centrali. La
regione di cui era titolare l’assassinato Dalmazio venne divisa fra Costanzo e
Costante, con disappunto di Costantino II che tentò invano di farsi dare da
Costante, quale compenso, una parte di territorio africano.
Fig. 2 Suddivisione dell’Impero, all’atto della
morte di Costantino, tra i quattro cesari
Costantino II ██, Costante I ██ , Costanzo II ██, Dalmazio ██ . Dopo l’uccisione di quest’ultimo il
territorio venne diviso fra Costanzo e Costante.
L’intento di Costantino
II, che nutriva una certa gelosia nei confronti dei fratelli, era quello di far
valere il suo ruolo di fratello maggiore, augusto
senior, che cercò di realizzare interferendo nell’amministrazione dei
territori di Costante, di cui intese condizionare le scelte, e di Costanzo II, nelle
cui città amministrate di Alessandria e di Ancyra (attuale Ankara) fece
rientrare propri uomini di fiducia, i vescovi ortodossi Atanasio e Marcello allontanati
dalle loro sedi, nel 335, allorché era prevalsa la tesi integralista della
dottrina ariana. Costantino II era seguace della dottrina ortodossa trinitaria
prevalente nelle regioni da lui amministrate. L’inserimento dei due religiosi, non
avversato da Costanzo, impegnato nella difesa dei confini orientali, portò ad
un temporaneo risultato. Mentre non altrettanta indifferenza rispetto alle
ingerenze di Costantino II mostrò il giovane Costante che si ribellò alla
tutela del fratellastro. Questi, per ricondurre alla ragione Costante, assunse
l’iniziativa di dirigersi con il suo esercito verso i territori italiani
governati dal fratello che si trovava in Pannonia. Costante, informato
dell’iniziativa di Costantino, gli inviò contro una guarnigione per rallentarne
la marcia prima che egli stesso potesse giungere con il grosso dell’esercito ed
attaccarlo ad Aquileia. Costante, dopo un primo assalto, si ritirò per tendere
al fratello una serie d’imboscate nel corso delle quali (aprile 340) Costantino
II fu ucciso, nei pressi di Cervenianum
(Cervignano del Friuli), dichiarato “nemico pubblico” (damnatio memoriae) ed il suo corpo gettato nel fiume Elsa.
Costante così
poté aggiungere alle regioni centrali da lui amministrate anche il controllo di
quelle occidentali lasciate da Costantino. Operazione che Costante completò senza
entrare in conflitto con il fratello Costanzo II da cui lo dividevano scelte di
natura religiosa in quanto questi aveva abbracciato la dottrina ariana diffusa
in Oriente.
[4] Il “vescovo” di Roma Al
tempo di Giulio I, il vescovo di Roma non aveva ancora assunto la
denominazione di “papa”, benché, fin dal concilio di Nicea gli fosse
riconosciuta una posizione di preminenza rispetto alle sedi patriarcali di
Antiochia ed Alessandria cui si aggiunse (330) quella di Costantinopoli. Siricio (384-389) fu il primo vescovo di
Roma ad assumere ufficialmente il titolo di “papa” (pàpas) (I° decreto papale: 10 febbraio 386) anche se esso era
stato adottato fin dal III sec., contestualmente ad un analogo uso del
vescovo di Alessandria d’Egitto. Da allora, riprendendo i tratti essenziali
della figura dell’imperatore (assolutismo e universalismo), il papa, in
Occidente, unì, al potere pastorale e spirituale, l’autorità istituzionale
e giuridica.
Mentre l’attenzione di Costanzo (fig.3) era rivolta a difendere il suo territorio dalla pressione
dei Persiani, Costante intervenne nelle controversie tra cristiani tentando
anche ciò che non era riuscito al padre e cioè l’avvicinamento dei Donatisti (§1b)
ai cattolici ortodossi d’Occidente. Ma la modalità usata, quella di inviare ingenti
somme di denaro per temperare il rigido Donato di Casae Nigrae, venne
sdegnosamente rifiutata.
In Britannia e Gallia, dopo che le milizie di Costantino
II avevano lasciato i presidi gallici per contrapporsi al fratello, le tribù
barbare che avevano ripreso la pressione sui territori imperiali. Costante
dovette di conseguenza provvedere a potenziare le fortificazioni e ad
esercitare sul territorio una diretta amministrazione che si caratterizzò da marcata
inefficienza e dilagante corruzione, unite agli eccessi sessuali che Costante
usava con i giovani ostaggi barbari. Un complesso di attività che aveva
suscitato nel popolo e nell’esercito una diffusa indignazione esplosa,
all’inizio del 350 in Gallia, in una rivolta che depose Costante. L’esercito nominò
augusto il proprio comandante
militare, Flavio Magnenzio, un franco di origine celtica mentre Costante
cercava di sottrarsi alla furia popolare fuggendo verso sud. Inseguito, venne raggiunto
ed ucciso in Spagna, la quale si associò alla Gallia nel riconoscere Magnenzio
nuovo imperatore.
Costanzo, che sui confini orientali era impegnato nella
guerra contro i Persiani della dinastia sassanide, non ebbe modo di reagire alla
proclamazione di Magnenzio. E, per prevenire eventuali iniziative di questi,
non disdegnò, o addirittura sollecitò tramite la sorella Costantina, l’iniziativa
dell’esercito danubiano che proclamò imperatore il magister militum Vetranione. La disponibilità di Costanzo, che si
trovava nella lontana Persia, nel favorire la proclamazione di Vetranione era
dettata dalla considerazione che, trovandosi questi sui confini occidentali, avrebbe
potuto meglio controllare le eventuali iniziative di Magnezio. Ma nella mente
del sospettoso Costanzo non tardò a farsi strada il timore di un’intesa tra i
due che lo spinse ad affrettare la conclusione delle operazioni militari in
Oriente e concordare con il re sassanide Sapore I una pace (350) utile ad
entrambi, perché mentre consentiva a quest’ultimo di volgersi al controllo delle
frontiere orientali del suo regno dagli attacchi delle tribù nomadi, permetteva
a Costanzo di rivolgere la sua attenzione a ridimensionare le aspirazioni degli
usurpatori Magnenzio e Vetranione. Costanzo assunse pertanto una posizione
d’intransigenza contro il più temibile Magnenzio, rifiutando sdegnosamente di
ricevere gli ambasciatori che questi gli aveva inviato per proporgli
un’alleanza. Quindi, confidando sul sostegno degli eserciti, provvide ad
incontrare Vetranione per costringerlo ad un atto di sottomissione e ad
imporgli il ritiro a vita privata.
Prima di rivolgersi contro Magnenzio in un’azione che lo avrebbe
costretto ad allontanarsi dall’Oriente, Costanzo, nell’intendo di lasciare giustamente
presidiato questo settore, pensò di affidarne la gestione ad un esponente della
sua famiglia, il maggiore dei due cugini che erano stati risparmiati dalla
purga del 337, Costanzo Gallo che viveva presso la sua corte di Costantinopoli.
Costanzo, diffidente per natura e guastato da cortigiani
che aspiravano a guadagnarsene la fiducia, dopo avere nominato cesare (marzo 351) il cugino Costanzo
Gallo, al fine di poterlo condizionare lo fece affiancare da ministri di sua
fiducia, il prefetto del
pretorio Tallasio
e il questore Monzio Magno.
Inoltre gli diede in moglie la propria sorella maggiore Costantina, abbastanza
più vecchia di Gallo. Un matrimonio che, nell’ottica di Costanzo, gli avrebbe
consentito di controllare non solo Gallo ma anche Costantina che, essendo stata
moglie del fratellastro di Costantino, Annibaliano, ucciso nel corso della
purga del 337, manteneva un rapporto diffidente nei confronti del fratello.
Risolta la copertura delle regioni orientali, Costanzo
con le sue milizie risalì la penisola balcanica per affrontare Magnenzio che, penetrato
con le sue truppe in Slovenia, ebbe la meglio in uno scontro ad Atrans.
Costanzo, sorpreso dall’imprevista sconfitta, cercò un compromesso ed inviò
presso Magnenzio il prefetto Flavio Filippo per offrirgli la pace a fronte del
suo ritiro in Gallia. Offerta che Magnenzio, rassicurato dal recente successo,
rifiutò proseguendo col suo esercito verso Mursa, in Pannonia. Qui avvenne uno
scontro con le milizie di Costanzo (settembre 351) che conseguì un successo
parziale, favorito dalla mancata partecipazione alla battaglia della cavalleria
di Magnenzio che, invocata dal prefetto Flavio Filippo alla fedeltà verso la
dinastia costantiniana, aveva defezionato. Dopo aver trascorso l’inverno a
Sirmio, nella primavera del 352, Costanzo iniziò a premere sulle milizie di
Magnenzio fino a costringerlo a rientrare in Gallia. Risultato che, col
consenso dell’aristocrazia senatoriale romana, offrì a Costanzo l’opportunità
di riprendere il controllo dei territori italiani ed africani, domini di
Costante usurpati da Magnenzio, attraverso l’affidamento al senatore Vitrasio
Orfito del comando delle flotte stanziate a Miseno e Ravenna. Magnezio, ormai
abbandonato dalle strutture che si riconoscevano nell’eredità costantiniana e
dal suo generale Claudio Silvano che si era legato a Costanzo, dopo essere
stato sconfitto a Mons Seleucus (Provenza), si suicidò a Lugdunum (agosto 353).
Costanzo divenne così imperatore unico d’Oriente ed
Occidente e, per il controllo delle frontiere della Gallia, si affidò al magister miltum Claudio Silvano, benché questi
fosse inviso agli ambienti di corte.
3a. Il
rapporto con il cugino Costanzo Gallo
Fig.3 Costanzo
II
Il cesare
Costanzo Gallo, sulla via per raggiungere la sua sede di Antiochia, si fermò a Macellum
per salutare il fratello Claudio Giuliano. Il suo insediamento ad Antiochia
(maggio 351) coincise con una ribellione ebraica contro i romani che, guidata
da Isacco di Diocesarea,
causò strage tra i componenti di diverse etnie (Elleni e Samaritani), prima che
fosse sedata nel sangue dall’intervento
del magister militum Ursicino che procurò
la distruzione di Tiberiade e Diospoli, città coinvolte nella sollevazione. L’azione
rese popolare Gallo che divenne oggetto di un complotto, probabilmente ispirato
da Magnenzio (in quella fine del 351 stava affrontando Costanzo) nell’intento
di distogliere Costanzo dall’azione contro di lui. Il complotto fu sventato con
la cattura ed il massacro dei cospiratori.
Non risulta che Gallo, nei primi due anni del suo
mandato, sia stato impegnato a controllare i confini con sassanidi, costretti
essi stessi a difendere i propri confini orientali, né sia direttamente intervenuto
a sedare altre ribellioni. Tuttavia il successo riportato nel sedare la rivolta
iniziale lo aveva inorgoglito e l’accresciuta considerazione nelle sue
possibilità lo spinse a cercare di svincolarsi dal controllo cui lo
sottoponevano i funzionari istallati da Costanzo nei posti nevralgici dell’amministrazione
e dal condizionamento della classe senatoriale di Antiochia. Per realizzare tale
intento colse due occasioni. La prima gli venne fornita dal processo verso un
inquisito per la cui condanna a morte, al fine di affermare la sua autorità, egli
premette sul comes orientis, Onorato;
episodio che indusse il prefetto del
pretorio d’Oriente, Tallasio, ad inviare una nota di protesta a Costanzo. L’altra
occasione si verificò allorché si verificò un aumento del prezzo del grano causato
da una carestia o dalla sottrazione di
una grande quantità destinata al rifornimento delle truppe. Gallo intervenne
con provvedimenti che, a parte l’inefficacia, provocarono un conflitto con i
produttori tra cui vi erano molti senatori, che Gallo pretendeva venissero
condannati a morte. Imposizione che il comes
Onorato si rifiutò si applicare, dando occasione a Tallasio di riconfermare l’indipendenza
del prefetto rispetto ai voleri del vice imperatore Gallo.
Costanzo, informato presso la sua corte di Milano delle
insofferenze del cugino e del diffuso malcontento verso il suo governo, mentre
era ancora impegnato contro Magnenzio, aveva richiamato una parte delle milizie
affidate a Gallo per ridurne, quale misura precauzionale, la capacità
offensiva. Alla morte di Tallasio (253; Onorato era già stato sostituito da
Nebridio), Costanzo (aveva ormai risolto la controversia con Magnezio) nominò a
sostituirlo Domiziano cui affidò un atto di convocazione da recapitare a Gallo.
Domiziano, giunto ad Antiochia, manifestò platealmente la sua indipendenza da
Gallo, che andò a trovare solo dopo aver svolto le formalità del suo
insediamento ed unicamente per consegnargli la convocazione di Costanzo che gli
intimava di presentarsi immediatamente presso la sua sede di Milano, pena la
sospensione dei rifornimenti alla corte. Non sono chiare le iniziative del
prefetto del pretorio Domiziano e del questore Monzio Magno, comunque, essendo
funzionari che rispondevano direttamente a Costanzo, non è inverosimile
ritenere che il loro atti fossero volti a destabilizzare Gallo. Fatto è che
questi reagì alle loro iniziative facendoli arrestare e massacrare dalla sua
guardia, e con essi, quanti erano a loro collegati. La foga vendicativa di
Gallo, supportato della moglie Costantina, non si fermò e continuò con una repressione
affidata al magister militum
Ursicino, che, sulla base di generiche accuse di cospirazione e pratiche
magiche, giustiziò rilevanti personaggi dell’amministrazione quali il filosofo
Epigono di Cilicia, l’oratore Eusebio di Emesa, il rettore della Fenicia,
Apollinare, il console della Siria, Teofilo, ed altri cittadini incolpevoli. Un
regime repressivo che spinse alcuni funzionari, interessati a conseguire
vantaggi personali da un cambiamento di amministrazione, a coalizzarsi e sollecitare
Costanzo ad allontanare Gallo ed i collaboratori su cui poggiava il suo potere.
Fu così che Costanzo, da Milano dove si trovava dopo una campagna contro gli
Alemanni, non avendo avuto esito la convocazione di Gallo, chiamò l’uomo su cui
questi fondava il suo potere, Ursicino, col pretesto di organizzare la ripresa
delle attività contro i Persiani. Ursicino, giunto a Milano venne imprigionato
ed analoga sorte toccò allo zio di Gallo, Vulcacio Rufino, fratellastro della
madre.
Costanzo invitò quindi a Milano la sorella Costantina ed
il marito Gallo il quale, temendo ritorsioni da parte del cugino, si fece
precedere dalla moglie cui aveva affidato il compito di sondare le intenzioni
del fratello. Costantina morì nel corso del viaggio (poi venne santificata
malgrado i numerosi delitti che le erano stati addebitati e inumata in un
mausoleo accanto alla sorella Elena, moglie di Claudio Giuliano) e Gallo,
riluttante a muoversi da Antiochia, fu invogliato a recarsi a Milano dal
tribuno Scudilo, il quale gli prospettò l’intenzione di Costanzo di elevarlo al
ruolo di augusto volendo contare di un
maggiore supporto nel controllo delle province occidentali. Durante il viaggio
Gallo si fermò a Costantinopoli dove, nel corso dei giochi da lui indetti,
assunse atteggiamenti propri dell’imperatore, cosa che indispettì Costanzo. Gli
umori trapelavano e le truppe ed i consiglieri fedeli cercarono di dissuadere
Gallo dal proposito di incontrare Costanzo e lo invitavano a trascorrere l’inverno
del 353 sotto la loro protezione. Costanzo, costantemente informato delle mosse
di Gallo, inviò suoi messaggeri col compito di indurlo a lasciare le sue
milizie ad Adrianopoli per proseguire il viaggio con una scorta leggera. Giunto
a Poetovio, Gallo venne arrestato da Barbazione e condotto a Pola dove fu processato
per le repressioni ordinate ad Antiochia ed, in particolare, per le uccisioni
del pretorio Domiziano e del questore Monzio Magno. Il fatto che Gallo abbia
cercato di attribuire la responsabilità alla moglie Costantina fece irritare ancor
più Costanzo che ne ordinò l’esecuzione. Gallo, a ventinove anni e dopo soli
quattro anni nella funzione di cesare,
venne decapitato alla fine del 354, nello stesso carcere dove Crispo era stato
ucciso su mandato del padre Costantino.
Lo storico pagano del tempo Ammiano Marcellino avvalora
la tesi di un Gallo effettivamente macchiatosi di atti di repressione
sanguinaria, anche se tale giudizio non trova unanime consenso e lo storico pagano
Zozimo lo indica vittima di una congiura. Se poi i giudizi negativi degli
scrittori pagani contrastano con quelli positivi degli esponenti cristiani
(quali il patriarca di Costantinopoli, Giovanni Crisostomo, il padre della Chiesa,
Gregorio Nazianzieno, il teologo e vescovo di Ciro, Teodoreto, il vescovo di
Antiochia, Eudosio ed il vescovo di Celesiria, Ezio) si deve attribuire a
scelte di campo molto radicali in quel tempo ed al desiderio di voler esaltare
la sua fede cristiana di Gallo da contrapporre alle scelte pagane del
fratellastro Claudio Giuliano (§ 5b).
3b. Costanzo II ricorre al cugino Flavio Claudio Giuliano
Gli interventi di Costanzo per salvaguardare la sua
posizione non erano finite perché macchinazioni di corte posero il magister militum Claudio Silvano,
inviato a controllare la Gallia, probabilmente al di là delle sue
effettive intenzioni, in conflitto con l’imperatore che lo mise sotto processo.
Le milizie galliche, per reazione, proclamarono (355) Silvano imperatore. Costanzo,
simulando di non essere a conoscenza della proclamazione, utilizzò la sua
abituale strategia di inviargli una delegazione col mandato di convocarlo a
Milano perché gli fosse affidato un nuovo e più importante incarico. A capo
della delegazione e col mandato di catturare Silvano, era stato posto Ursicino
che, mirando a riabilitarsi nella considerazione di Costanzo, non mancò di
trarre Silvano in un agguato ed ucciderlo.
Dopo l’eliminazione di Claudio Silvano, la Gallia era
rimasta esposta alle incursioni delle tribù gotiche dei Franchi e degli
Alemanni al cui contenimento Costanzo non poteva direttamente provvedere
dovendo presidiare anche le frontiere nord- e sud-orientali, pressate
rispettivamente dalle tribù dei Quadi (tribù germanica stanziata oltre il
Danubio) e dei Parti (popolo nord-iraniano). Pertanto Costanzo, benché
sconsigliato dai cortigiani che gli ricordavano la recente esperienza avuta con
Gallo ma allevato alla politica dinastica del padre, nel momento in cui gli
urgeva affidare la gestione di un settore delicato come quello gallico, pensò di
sottrarre ai suoi studi il cugino Claudio Giuliano, fratello di Gallo. Una
scelta favorita dall’imperatrice Eusebia che ne apprezzava la cultura e, se pur
maturata fra sospetto e fiducia, era confortata dalla considerazione che il
mandato di controllare la Gallia era altamente pericoloso per chiunque, tanto
più per chi si era dedicato unicamente agli studi.
Nel tracciare in [3] gli anni giovanili di Claudio Giuliano
lo avevamo lasciato alle cure del vescovo Eusebio e poi all’insegnamento dell’eunuco Mardonio, un ex schiavo goto dotato di un’eccellente
cultura e già educatore della madre Basilina. Giuliano coltivò così profondamente Mardonio da
assimilarne il linguaggio “.. egli (Mardonio)
elaborava e quasi scolpiva nel mio animo
ciò che allora non era affatto di mio gusto ma che, a forza di insistere, finì
per farmi parer gradito ..” e da convincersi che la cultura greca fosse la
vera maestra di virtù ed insuperabile modello del bello e del buono fino al
punto da ritenere che la causa della decadenza che avvertiva risiedesse nel prevalere del mondo ecclesiastico e cortigiano
del momento. Dopo la morte del vescovo Eusebio (341), istitutore del giovane
principe che doveva sorvegliare con una certa superficialità, tale da non
accorgersi dell’indirizzo culturale che riceveva, Giuliano, su disposizione di
Costanzo II che temeva che egli potesse essere utilizzato dal fratello Costante
I, raggiunse il fratellastro a Macellum. Dove, addolorato per il distacco da
Mardonio, rimase sei anni isolato dall’esterno
e vicino a un fratello che, diverso per maniere e cultura, non lo sollevava dalla
solitudine. E, pur se viveva tra gli agi del palazzo imperiale, si sentiva
controllato dai cortigiani di Costanzo e condizionato dai sacerdoti che
assimilava a carcerieri. A Macello, indirizzato dal colto vescovo ariano
Giorgio di Cappadocia, custode di una biblioteca ricca di volumi cristiani da
cui poteva attingere, Giuliano si dedicò alla lettura delle sacre scritture che
non attrassero il suo interesse. Anzi ne marcarono il distacco, benché a quel
tempo egli aderisse ancora, non si sa con quanta convinzione, al cristianesimo,
interrogandosi su cosa rappresentasse per lui questa religione abbracciata da
viziosi e turpi frequentatori di una corte scellerata e corrosa da lotte
fratricide.
Nel 347 trasferendosi
a Costantinopoli si affidò alla dottrina del grammatico e filosofo pagano
Nicocle di Sparta che lo avviò alla conoscenza della metrica, semantica,
critica letteraria, mitologia, storia, geografia. Giuliano, a sedici anni,
aveva già acquisito un pregevole livello culturale e cominciava ad essere
apprezzato e ad avere un certo seguito. La cosa suscitò in Costanzo il timore
che il giovane Giuliano potesse acquisire eccessiva popolarità, ragion per cui
lo fece trasferire (351) a Nicomedia, principale focolare del neoplatonismo. Qui recuperò piena
liberta e si accostò al nuovo maestro di retorica, il sofista Ecelobio, un
disinvolto personaggio che, oscillante a seconda delle convenienze tra
Cristianesimo ed Ellenismo (periodo della civiltà greca compresa tra il IV-I
sec. aC), gli vietò di assistere alle lezioni del retore rivale, il pagano
Libanio di Antiochia, delle cui lezioni Giuliano si procurò gli appunti e li
studiò così puntualmente da improntare lo stile dei suoi futuri scritti e da spingerlo
ad una riflessione profonda, senza la quale probabilmente la sua avversione al
cristianesimo sarebbe rimasta latente.
Giuliano, che
mostrava un fisico atletico, di media ed armoniosa statura, capelli lisci e
barba, occhi lampeggianti e sopraciglia ben marcate, privo di alterigia ma
estroverso e semplice nell’approccio, si [5] Giamblico di Calcide (245-325),
teologo e filosofo neoplatonico ritenuto dai pagani suoi contemporanei uomo
di grande sapienza e virtù, formulò una propria interpretazione del platonismo che accentuava la
separazione tra anima e corpo. Egli si
proponeva di guidare l'uomo all'unione mistica con i principi
immateriali, attraverso la pratica della teurgia (termine coniato dal filosofo Giuliano il Teurgo che significa
“agire con Dio”; si differenzia dalla teologia
perché non si limita a discutere del “divino” ma ne indica anche le
pratiche per evocarlo). Essa, propria della religione greco-romana
pre-cristiana, consentiva all’uomo di accedere al divino per mezzo di
rituali magico-religiosi (azioni, parole e suoni) che consentivano
all’anima di purificarsi per unirsi alla divinità.
Nello stesso anno (351) Giuliano ricevette la visita del
fratellastro Gallo che, nominato cesare
era in viaggio per raggiungere la sede di Antiochia. Gallo che aveva carattere
ed impostazione religiosa diversa da Giuliano, rimase sorpreso per i nuovi
interessi filosofici del fratello e, per comprenderne meglio i contenuti, inviò
subito dopo presso il fratello il teologo Aezio di Celesiria, un cristiano
della corrente degli anomei (§ 5a),
il quale, entrato in un rapporto di reciproco apprezzamento con Giuliano e
benché avesse compreso che le scelte spirituali di questi erano rivolte al
paganesimo, inviò a Gallo rapporti rassicuranti. Del resto Giuliano, per non
incorrere nelle ritorsioni dei suoi potenti congiunti, cercava di occultare la
sua scelta di fede al punto da farsi nominare lettore della chiesa di Nicomedia,
ma non poteva sottrarre alla curiosità i suoi dibattiti con numerosi esponenti
del mondo pagano (tra cui i retori Libanio ed Evagrio ed il sommo sacerdote
Seleuco). In essi emergeva vivo il rimpianto per “i templi rovinati, le cerimonie proibite, gli altari rovesciati, i
sacrifici soppressi, i sacerdoti esiliati, le ricchezze dei santuari
distribuite a persone miserabili” e si progettava, nell’eventualità di un’ascesa
di Giuliano alla responsabilità imperiale, di “dare ai popoli la loro prospettiva perduta e soprattutto il culto degli
déi” (Orazione XVIII).
Nell’autunno
del 355 mentre era ancora dedito a soddisfare le sue curiosità si verificò la
svolta decisiva nella vita di Giuliano che, ancora scosso per il trattamento
che aveva subito il fratello Gallo, venne convocato dal cugino Costanzo a
Milano. Era prevedibile che Costanzo, responsabile della morte di Gallo,
temesse le possibili reazioni del fratello. L’amalgama di sospetto e vendetta
che affliggeva Costanzo era nota a Giuliano che rimase turbato della
convocazione nel timore che il cugino, informato delle sue scelte di culto,
volesse sottoporlo ad una requisitoria ancor peggiore di quella subita dal fratello. Nell’attesa
di trovarsi al cospetto di Costanzo, egli cercò di controllare la sua angoscia
ricorrendo agli déi. Il timore di essere inquisito si realizzò effettivamente,
ma non per le scelte di culto bensì per l’accusa di essere stato coinvolto
nelle trame del fratello Gallo. Motivo per cui Giuliano venne imprigionato
finché l’inconsistenza delle accuse ed il benevolo intervento della colta
imperatrice Eusebia gli fecero ottenere la libertà con l’imposizione di
risiedere nel domicilio coatto di Atene. Nulla di più gratificante per lui che
sentiva la Grecia come la sua vera patria e dove poté frequentare l’austero
filosofo neoplatonico Prisco, di cui seguì i dibattiti di retorica e si accostò
ai misteri eleusini [6] al cui
complicato significato simbolico fu introdotto da un famoso sacerdote. Ad Atene
ebbe occasione di seguire le lezioni di arte oratoria assieme al futuro teologo
e padre della Chiesa, Gregorio di Nazienzo, che ne scrutò l’animo e lo avversò
per le sue scelte, lasciando di lui (Orazione
V) un ritratto particolarmente negativo sia dal punto di vista
intellettuale che personale: “la parola
esitante, le domande poste senza ordine né intelligenza e le risposte che si
accavallavano le une con le altre come quelle di un uomo senza cultura … il suo collo sempre in movimento, le spalle
sobbalzanti come piatti di una bilancia, gli occhi dallo sguardo esaltato,
l’andatura incerta, il naso insolente, il riso sguaiato e convulso, i movimenti
della testa senza ragion d’essere..”. Un commento malevolo che, pur
valutato con ragionevole riserva, fornisce comunque l’immagine di un uomo
timido, alquanto goffo ed impacciato in cui lo sguardo doveva suscitare
particolare attrazione se all’“esaltato”
di Gregorio Nazianzeno si abbinano gli “occhi
terribili ed affascinanti” di Ammiano Marcellino e lo “sguardo lampeggiante, segno di viva intelligenza” del
filosofo siriano Libanio, (Orazione XVIII).
Durante quel soggiorno ad Atene giunse inattesa una nuova
convocazione da parte del cugino ed il ventiquattrenne Giuliano lasciò Atene
con sofferenza “Quale torrente di lacrime
io versassi e quali gemiti” per raggiungere Milano. Qui, malgrado le sue diffidenze
nei riguardi di Costanzo da cui lo divideva una istintiva avversione, ricevette
il mandato di amministrare la Gallia che accolse con perplessità, sedata dalle
sollecitazioni dei suoi consiglieri che vedevano l’occasione della sua
affermazione. Egli era confortato dal suo segretario africano Evemero, unico ad
essere al corrente della sua fede pagana con cui la praticava segretamente, ed
il suo medico Oribasio a cui era stata affidata la cura della biblioteca
regatata dall’imperatrice Eusebia. Costanzo, lo elevò al rango di cesare (6 novembre 355) con
un’investitura davanti alle truppe schierate “Una giusta ammirazione accolse il giovane Cesare, raggiante di splendore
nella porpora imperiale, non si cessava di contemplare quegli occhi terribili e
affascinanti al tempo stesso e quella fisionomia alla quale l'emozione dava
grazia” (Ammiano Marcellino) celebrata nella ragia di Milano. Egli rimase
poche settimane presso la corte di Milano in una condizione d’isolamento, quasi
da sorvegliato, senza ricevere particolare apprezzamento da Costanzo che lo
definiva “greco pedante”. La situazione di emarginazione in cui era costretto non
si protrasse più di qualche settimana perché Costanzo, rispondendo alla sua
abituale inclinazione ad esercitare un controllo sui suoi amministratori, prima
di inviarlo in quel focolaio d’incursioni barbariche che era la Gallia, dispose
di condizionare Giuliano affiancandogli i suoi fidati collaboratori Marcello,
Florenzio e Salustio a cui riservò rispettivamente gli incarichi più rilevanti,
il comando dell’esercito, prefettura e questura. Dopo avergli dato in moglie la
sorella Elena che, accanto a Giuliano, non assunse mai alcun rilievo, Costanzo
avvertì Giuliano, senza averlo dotato delle idonee coperture e strumenti
decisionali, che era tempo di raggiungere la Gallia. Una destinazione che nascondeva
l’intenzione di immergerlo in una situazione da cui difficilmente ne sarebbe
venuto a capo.
Giuliano diede avvio in quell’occasione al breve ed
intenso ciclo della vita pubblica durato otto anni. Privo di qualsiasi
esperienza amministrativa e di alcuna preparazione militare, egli si dedicò a
colmare le lacune di più immediata urgenza ricorrendo alle letture degli
scritti di Cesare ed alle Vite parallele
di Plutarco per apprendere i fondamenti
delle strategie militari.
Giuliano con un esiguo contingente di poche centinaia di
soldati passò l’inverno a Vienne (nei pressi di Lione), sede del governo della
Gallia, dove fu entusiasticamente accolto dalla popolazione. Nella primavera del
356 si mosse ad affrontare qualche drappello barbaro e, congiuntosi al grosso
dell’esercito comandato da Marcello, affrontò gli Alemanni con risultati
alterni. Subì quindi un assedio nel campo invernale di Sens (Borgogna) senza
ricevere aiuto da Marcello che aveva l’incarico di controllarlo più che di
sostenerlo. Giuliano reagì deponendo Marcello e prima che questi potesse
contattare Costanzo, mandò presso di questi il fidato consigliere Euterio ad
informarlo dell’evento. Iniziativa coronata da successo perché Costanzo, nel
timore dei problemi che sarebbero potuti sorgere con un comando frazionato
delle milizie e nonostante le contrarie sollecitazioni dei cortigiani, affidò a
Giuliano il comando generale dell’esercito in Gallia. E non solo, perché nell’estate
del 357, dopo aver celebrato i vent’anni di regno a Roma, evento che volle
ricordare con l’omaggio dell’obelisco (oggi davanti alla basilica di S.Giovanni
in Laterano) proveniente da Alessandria d’Egitto, Costanzo inviò in appoggio a
Giuliano, un consistente esercito comandato da Barbazio. Questo, prima ancora di
congiungersi con le milizie di Giuliano, venne sconfitto dagli Alemanni che,
numericamente prevalenti, proseguirono l’azione attaccando Giuliano nei pressi
di Strasburgo. Fu questa occasione a rivelare le qualità militari di Giuliano
che, dopo l’assalto subito, riuscì a riordinare la propria fanteria e a
condurla in un’azione che spinse oltre il Reno l’esercito barbaro, consentendo il
recupero di presidi acquisiti dagli Alemanni. Giuliano completò l’azione superando
il Reno e inoltrandosi nel cuore della Germania per costringere alla resa le
tribù che razziavano nei territori romani. L’azione venne coronata dalla
cattura del comandante barbaro Conodomario che fu inviato come trofeo a Milano,
suscitando in Costanzo maggiore invidia che soddisfazione.
Giuliano si ritirò a trascorrere l’inverno nei suoi
accampamenti di Lutetia Parisiorum
(attuale Parigi) e progettare le riforme di cui aveva bisogno la Gallia per
risollevarsi dalla crisi prodotta dalle incursioni barbariche. La controffensiva
ripresa nella primavera del 358 e proseguita nell’anno successivo si concluse
con il recupero di tutti i territori occupati dalle tribù franche oltre il Reno
e consentì il rientro nelle proprie sedi delle popolazioni che le devastanti
scorrerie barbariche avevano allontanato. A campagna ultimata l’intera nazione
gallica risultava pacificata e messa in sicurezza.
Giuliano utilizzo il prestigio acquisito con i successi
militari per procedere alla riorganizzazione dell’amministrazione con riforme
improntate a quei principi di giustizia ed equità assimilati nel corso delle
sue meditazioni filosofiche. Il fine era di risollevare le condizioni della
popolazione che viveva una profonda crisi economica. Questa era stata prodotta non
solo dall’abbandono dei territori dalle popolazioni in fuga che aveva causato
la scomparsa della piccola proprietà, poi assorbita dai latifondi, ma anche dalla
depressione delle attività artigianali che aveva contribuito al crollo della
raccolta impositiva (capitazio), in
larga misura attribuibile all’evasione delle classi benestanti. Il rimedio proposto
dal prefetto Florenzio di un’imposta supplementare venne rifiutato da Giuliano
che provvide a colmare il minor gettito impositivo attraverso la persecuzione
degli evasori ed il condono delle tasse inevase. Misura che si rivelò di tale
efficacia da consentirgli di ridurre di due terzi la capitazio. All’amministrazione della giustizia pose scrupolosa
attenzione presiedendo, come da tradizione imperiale, i processi d’appello in
cui esigeva che i querelanti fornissero prova delle loro accuse. Ma non volendo
essere coinvolto in merito di una controversia che riguardava il prefetto
Florenzio, indicò il questore Sallustio per la direzione del processo. Florenzio
però prevenne il processo riuscendo a destituire Sallustio con un intervento
imperiale e privando Giuliano di un fidato collaboratore a cui successivamente
dedicò uno dei suoi panegirici (discorsi o scritti con fini celebrativi).
All’inizio del 360, a Costanzo si presentò la necessità
di dover contrastare l’invasione del persiano Sapore II che sulle frontiere
orientali aveva conquistato due fortezze. Costanzo, geloso del consenso di cui
in Gallia godeva Giuliano e timoroso che egli, sorretto dalle qualità
dimostrate sul campo, potesse avanzare aspirazioni imperiali, utilizzò
quell’occasione per cercare di circoscriverne il potere ed, istigato da
Florenzio, dispose di utilizzare, per la guerra contro i persiani, la parte
migliore del contingente dislocato in Gallia e composto da truppe ausiliare arruolate
tra i barbari. Un’utilizzazione non dettata da necessità in quanto Costanzo non
soffriva di carenze militari, difettava piuttosto di una accorta strategia di
guerra. Tuttavia l’inattesa disposizione causò in Gallia manifestazioni di
protesta sia nell’esercito che nella popolazione mosse da motivi diversi. I
miliziani perché avevano ricevuto da Giuliano la promessa che non sarebbero
stati utilizzati lontano dal proprio paese e la popolazione, appagata dal periodo
di pace e benessere che viveva, perché temeva il riesplodere delle incursioni
barbariche in seguito alla riduzione dei presidi militari. Giuliano,
coll’intento di evitare una guerra civile, inviò una delegazione a Costanzo per
declinare ogni responsabilità nelle manifestazioni e dichiararsi disponibile ad
inviare un limitato contingente da utilizzare nella guerra contro i Parti a
fronte del riconoscimento della sua autonomia nel governo della Gallia. Costanzo
non accettò alcun compromesso e respinse i messaggeri di Giuliano.
Giuliano conosceva le maniere di Costanzo ed intuiva che
la partenza dell’esercito avrebbe fatto di lui un uomo alla mercé delle rivalse
del cugino. Ragione per cui riceveva dai suoi più fidati collaboratori, il
medico Oribasio ed il segretario Evemero, la sollecitazione a respingere la
disposizione di Costanzo, proprio per non vanificare le attese del popolo e
dell’esercito che, acclamandolo imperatore e portandolo in trionfo, spinsero
l’esitante Giuliano ad assumere apertamente l’investitura imperiale e a resistere
a Costanzo.
Mentre gli amministratori legati a Costanzo lasciavano la
Gallia per non restare coinvolti nelle scelte di Giuliano, nell’animo di questi
riaffiorava il conflitto fra la fedeltà all’imperatore ed il rancore verso il
cugino contro cui emergeva il ricordo della responsabilità nel massacro della sua
famiglia per mano di cristiani fanatici ed esaltati “Con quale bontà ci ha trattati questo imperatore clemente! I miei sei
cugini, che erano anche i suoi, mio padre che era suo zio… li assassinò tutti
senza processo”.
Giuliano, alla fine del 360, dopo aver contenuto gli
attacchi portatigli dalle tribù franche, rientrò nella sua sede di Vienne dove
festeggiò il quinto anniversario del suo governo della Gallia, durante cui si
verificò la morte della moglie Elena. Essendo scomparsa anche l’imperatrice
Eusebia (361), Giuliano si sentì libero da ogni legame con Costanzo contro cui
prevalse l’antico sentimento di ripulsa, che aveva segnato la sua vita e le sue
scelte. A questo si aggiunse l’informazione, occasionalmente intercettata, che
Costanzo congiurava a suo danno spingendo le tribù barbare a muovergli contro.
Eventualità che lo avrebbe posto nella pericolosa coincidenza di doversi
difendere sia dalle milizie germaniche che da quelle imperiali. E, prima di
disporsi a gestire lo scontro risolutivo con Costanzo che aveva sposato
Faustina ed, al momento, era impegnato nella campagna contro i Sasanidi, volle rendere
ancor più palese il distacco dal cugino imperatore facendo coniare una moneta
con la sua effige e l’aquila imperiale.
Giuliano, nell’arco di cinque anni aveva fatto della
Gallia una provincia felice nel panorama decadente dell’Impero e voleva evitare
che, dopo la sua partenza, ricadesse nel disordine. Affidò pertanto al fidato
Sallustio il grosso dell’esercito per la difesa della Gallia e divise le restanti
forze in tre contingenti che affidò rispettivamente a Gioviano (gli succederà
in qualità d’imperatore) con l’incarico di dirigersi verso l’Italia, al barbaro
pagano Nevitta perché raggiungesse le regioni orientali d’oltralpi e riservò a
se il contingente più esiguo e più selezionato per dirigersi verso la Pannonia.
Qui costrinse alla resa la sede imperiale di Sirmio dove trovò una guarnigione
che, non ritenendola affidabile, indirizzò verso la Gallia. Destinazione che la
milizia non gradì e, ad Aquileia, sollevò
una ribellione che venne controllata da Gioviano, stanziato nei pressi con le
sue truppe. Le milizie di Nevitta si disposero a sbarrare il passo alle truppe
di Costanzo.
Costanzo si trovava ad Edessa (Mesopotamia) e, allorché
apprese dell’arrivo di Giuliano in Tracia, preparò la controffensiva affidando ad
Arbizione e a Gomoario, un nemico personale di Giuliano, due contingenti
d’avanguardia per intercettare Giuliano.
Giuliano, intanto, inviava messaggi distensivi sia a Roma
che ad Atene, Sparta e Corinto per spiegare le sue scelte e la voglia,
ritenendosi appagato del suo ruolo, di pervenire ad un compromesso con Costanzo
che, ove lo negasse, lo vedrebbe costretto a proseguire nelle operazioni di
guerra. Cosa che non fu necessaria poiché a Giuliano giunse la notizia che
Costanzo, muovendogli incontro da Tirso, era morto (3 novembre 361) a
Mopsucreme in Cilicia (costa rivolta a Cipro) e che i capi dell’esercito di
Costanzo lo invitavano ad assumere la signoria su tutto l’impero.
L’immediato passaggio dalle ansie della guerra alla
consacrazione imperiale aveva la connotazione del miracolo.
Sembra perfino che Costanzo in punto di morte abbia
designato Giuliano suo successore, scelta la cui veridicità è dubbia ma non
inverosimile, data la fedeltà di Costanzo alla dinastia costantiniana.
Fig.4 Giuliano l’Apostata
Giuliano (fig.4),
divenuto unico imperatore dopo l’inattesa morte di Costanzo che gli aveva evitato
di cercare con la forza la legittimazione al potere, raggiunse Costantinopoli
(dicembre 361) per far ratificare dal senato la propria nomina e rendere
omaggio alla salma del “beatissimo
Costanzo” cui augurò “che la terra
fosse leggera” benché poco tempo prima lo avesse definito “assassino della mia famiglia”.
Egli, cresciuto nell’austerità ed insofferente verso il
servilismo, volle eliminare tutte le scorie della precedente amministrazione ed
inserire i suoi collaboratori nel controllo dei vari settori di cui intese ridusse
al minimo le spese. A tal fine ripulì la corte dalla presenza di spie, delatori
ed eunuchi ed individuò i consiglieri di Costanzo ritenuti colpevoli di vari
reati e soprattutto della morte del fratello Gallo. Iniziativa in cui Giuliano,
uomo mite e saggio, si lasciò condurre dalle abitudini del tempo e dal
sentimento di vendetta, che lo storico Ammiano Marcellino cerca di giustificare
attribuendone la responsabilità alla sollecitazione ricevuta da personaggi
della precedente amministrazione che, ammessi da Giuliano alla sua corte,
cercavano di guadagnarsi i favori del nuovo padrone. Giuliano, benché ritenesse
il fratello rozzo, violento ed afflitto della scelleratezza comune ai membri della
famiglia di Costantino, era altrettanto convinto del malanimo che aveva mosso
Costanzo ed i suoi consiglieri contro Gallo. E per individuare i colpevoli volle
istituire a Calcedonia un collegio inquisitorio affidato al magister militum Arbizione, passato al
servizio di Giuliano, ed uno giudicante presieduto dal leale pretorio Sallustio.
Quei consiglieri che, alla corte di Costanzo regolavano le
loro manipolazioni secondo quanto dettava l’interesse del momento, furono identificati
nel praepositus sacri cubiculi
Eusebio, nel tribunus scutariorum Scudilone,
nel comes domestocorum Barbazione, nell’agens in rebus Apodemio, nel notarius Pentadio, nel comes largitiorum Ursulo, in Paolo
Catena e nel prefetto
Florenzio che si sottrasse al processo con la fuga. Cinque di essi, coinvolti
nell’arresto ed esecuzione di Gallo, vennero condannati a morte, tuttavia
quella di Pentadio non appare sufficientemente giustificata e quella di Ursulo
sembra il frutto di una vendetta di Arbizione, contro cui Giuliano
colpevolmente non ebbe l’animo di intervenire.
Nel breve periodo della gestione di Giuliano (ventun
mesi), i suoi interventi legislativi, improntati da rigore ed equità, avviarono
nel corso dell’impero una svolta che si sarebbe potuta consolidare solo a
seguito di una sua lunga permanenza al potere. In quel periodo vennero
stroncati in buona misura la corruzione e gli abusi, avviando quel decentramento
amministrativo che condusse alla rivalutazione delle autonomie dei centri
urbani attraverso il ripristino dell’autorità decisionale dei consigli
municipali. Questi che erano garanti dello sviluppo sociale e culturale locale,
in diversi periodi dell’impero e per motivi dettati dalla situazione del tempo
(crisi economica, fiscalità, ecc.), erano stati spogliati delle loro
prerogative causando il declino delle province. Per il loro rilancio egli, nel
marzo 362, emanò una serie di norme che stabilirono: la restituzione, con indennizzo,
alle comunità delle terre confiscate dallo Stato; la cancellazione dell’imposta
che i funzionari periferici (decurioni)
dovevano versare allo Stato ad eccezione della collatio lustralis (imposta
diretta dovuta dai commercianti, ideata da Alessandro Severo e regolarizzata da
Costantino); il trasferimento ai possessores della gestione delle
stazioni di posta e della cura delle strade dalle municipalità; l’abbreviazione
dei tempi processuali onde evitare illeciti compromessi. Infine lo sforzo volto
a debellare la corruzione che aveva inquinato i contabili municipali soggetti a
vendere le cariche pubbliche non diede risultati soddisfacenti. Era anche giunto
il momento di dare esecuzione al desiderio nutrito con più ardore, quello di
aprire i templi pagani e restaurare il culto degli dei (§ 5b).
Giuliano si predisponeva a proseguire nelle sue
innovazioni fra cui l’impostazione di nuove norme volte alla designazione del
successore che, nell’interesse del bene pubblico, doveva essere scelto al di fuori del principio
dinastico, allorché fu costretto a sospendere la sua attività legislativa per
intervenire militarmente contro i persiani di re Shapur II che avevano ripreso
a minacciare i confini dell’Impero.
Per preparare la controffensiva contro i persiani,
nell’agosto del 362, si trasferì ad Antiochia, città cristiana, insofferente
del paganesimo e dedita alle mollezze orientali, che lo accolse con diffidenza.
E l’incendio del tempio di Apollo, verificatosi durante il suo soggiorno e che
egli attribuì ai cristiani, non dovette essere solo una casualità.
Da Antiochia, spinto da mistica fiducia nel proprio
successo e dal desiderio di emulare Alessandro e Traiano, nel marzo 363 con un
esercito di 65000, uomini attraversò l’Eufrate in direzione di Seleucia per
muovere guerra ai Persiani di cui, ostinatamente infervorato, rifiutò l’offerta
di una trattativa per avventurarsi in una impresa da cui l’amico Sallustio
dalla Gallia cercava di dissuaderlo. Dopo aver riportato iniziali successi con
la conquista delle fortezze di Pirisabora e Maiozamalca, costringendo i
Persiani ad asserragliarsi nella loro capitale, Ctesifonte che non volle porre
sotto assedio perché attratto dalle grandi prospettive che avevano arriso ad
Alessandro Magno. Risalì il fiume Tigri muovendosi in direzione dell’Armenia
lungo un tragitto in cui fu sottoposto a continui assalti dalle milizie avversarie
che lo seguivano da presso. Esse vennero più volte respinte e penalizzate con
gravi perdite ma nel corso di un improvviso attacco venne colpito da un
giavellotto che gli perforò il petto. Ai suoi maestri Prisco e Massimo di Efeso
che lo assistevano rivolse le sue ultime parole “Non ho da pentirmi di quanto ho fatto, né mi tormenta il ricordo di
qualche grave delitto. Sia nel periodo in cui ero relegato in ombra e in
povertà, sia dopo aver assunto il principato, ho conservato immacolata la mia
anima che discende dagli dei celesti per parentela”.
Scomparve così, a trentadue anni, quel personaggio
affascinante che dal punto di vista della formazione intellettuale viene
considerato il più greco degli imperatori.
Ammiano Marcellino ne pianse la scomparsa “Per la prudenza era considerato il nuovo
Tito, per i gloriosi risultati delle campagne militari simile a Traiano,
clemente al pari di Antonino i Pio, mentre nella ricerca della ragione vera e
perfetta fu come Marco Aurelio, sul cui esempio modellò il suo carattere e il
suo comportamento”. E Voltaire, vedendo in Giuliano il sostenitore della
libertà contro l’oscurantismo della Chiesa, scrisse di lui che “..in ogni cosa fu pari a Marco Aurelio, il primo
degli uomini”.
5a. Costanzo II
Come si è
potuto dedurre dai fatti che caratterizzarono la vita di Costanzo II, le trame
di corte furono una componente determinante nella gestione del suo potere
perché, non mantenendo egli diretti contatti con gli amministrati, ogni
informazione che gli giungeva era filtrata e distorta dai suoi collaboratori.
L’eredità
che Costanzo ricevette dal padre si presentò complessa, sia sul piano politico
che religioso e, com’era costume della sua dinastia, egli non ebbe riluttanza
ad avvallare la strage dei congiunti nel 337 e ad assumere successivamente
iniziative severe contro il cugino Gallo a cui rimproverò gli stessi
comportamenti a lui abituali e così l’uso della crudeltà nel reprimere le
rivolte. Altrettanto deciso fu nel troncare ogni tipo di opposizione per mantenere
il controllo dell’impero, rafforzando l’apparato burocratico con l’inserimento
di suoi uomini fidati (agentes in rebus)
in quei servizi da cui si poteva raccogliere ogni sussurro che potesse far
sospettare la nascita di un complotto.
Militarmente
non poté vantare rilevanti successi, a meno di quelli conseguiti nella campagna
contro i Sarmati (358) e le rivalse sui competitori furono in buona parte
conseguite sfruttando la popolarità della sua dinastia o affidate agli esiti di
ambigue missioni diplomatiche.
Nel settore religioso, seguì la politica paterna a favore
della Chiesa cattolica ai cui vescovi confermò il potere giurisdizionale e le
esenzioni fiscali. Tuttavia si venne a trovare di fronte alle stesse inconciliabilità
che la potente figura del padre non era riuscito a rimuovere e dovette districarsi
non solo tra conflitti teologici difficilmente governabili all’interno di un
Cristianesimo la cui corruzione aveva invaso la corte imperiale, ma anche
muoversi nell’antagonismo tra un Cristianesimo in espansione ed il mondo pagano
sostenuto da una vasta componente sociale (aristocrazia, intellettuali,
militari e masse rurali). E se sulla via di un paganesimo tollerato ed un
cristianesimo accettato, assecondò quest’ultimo favorendo la chiusura dei
templi pagani e la proibizione dei sacrifici al fine di reprimere pratiche
magiche ed esorcismi, cercò anche di governare, sull’esempio del padre ma senza
averne l’autorevolezza, le dispute religiose che continuavano a dividere le
correnti dottrinarie sulle tematiche relative alla cristologia (§ 1b).
I suoi
interventi in ambito dottrinale, dettate dall’influente teologo Eusebio di
Nicomedia, il vero animatore dell’arianesimo, non contribuirono a risolvere le
controversie né portarono sostanziali vantaggi all’affermazione della dottrina
ariana che aveva abbracciato.
Si è già detto dell’iniziativa di Costanzo, concordata
con il fratello Costante per la convocazione del concilio di Sardica del 343 (§ 2).
Nel 350, di fronte alla palese divisione
fra la Chiesa d’Oriente, sostenitrice della dottrina integralista ariana, da
quella ortodossa diffusa in Occidente, allineata alle conclusioni trinitarie
del Concilio di Nicea (§ 1a), Costanzo
che era rimasto unico imperatore di Oriente ed Occidente, volle imporre nel
dibattito teologico la propria linea (“la
mia volontà è canone”) per poter tenere sotto controllo le contrapposte
entità ecclesiastiche, attraverso cui egli intendeva diffondere il proprio
potere, gestito dalla sua regia di Sirmio (l'attuale Sremska Mitrovica
in Serbia).
Convocò a tal fine i
sinodi di Arles (353) e di Milano (355). Nel primo vennero ribaltate le
conclusioni dei concili favorevoli alle scelte ortodosse della Chiesa
d’Occidente ed in seguito ad esse il vescovo di Arles, Saturnino, cercò di
imporre l’arianesimo in tutte le chiese galliche ponendosi in contrastato con Ilario di Poitiers
(315-368), una delle figure emergenti tra i vescovi europei. A Milano
parteciparono i vescovi occidentali che si riunirono nella Chiesa principale (Basilica
major) assieme agli orientali. Questi, entrati in conflitto con gli
occidentali guidati dal vescovo trinitario Eusebio di Vercelli, abbandonarono
il dibattito per trasferirsi nella cappella del palazzo imperiale. Costanzo, senza
assumere specifica posizione rispetto al Credo niceno, con un intervento
intimidatorio, impose la condanna di Atanasio e l’esilio dei suoi seguaci sostenitori
delle tesi ortodosse (Eusebio di Vercelli esiliato a Scitopoli in Palestina,
Lucifero di Cagliari esiliato in Siria, Dionigi di Milano esiliato in
Cappadocia e sostituito dall’ariano Aussenzio, Ilario di Poitiers fu esiliato
in Frigia) e non riconobbe il primato del vescovo di Roma e la sua indipendenza
dal potere imperiale sancito dal concilio di Roma del 341. Lo stesso vescovo di
Roma, Liberio, non accettando le conclusioni emerse, venne esiliato in Tracia,
finché, assunta una posizione
apparentemente più conciliante (358), poté rientrare a Roma per essere
reintegrato.
Questo momento storico del Cristianesimo fu
ben descritto da S. Girolamo nella sua frase: ”Il mondo, gemendo, stupì di
trovarsi ariano”.
Gli interventi di
Costanzo si ripeterono, tra il 357 ed il 359, allorché dopo la scomparsa dei
principali teorici della dottrina ariana (Ario ed Eusebio di Nicomedia), su
sollecitazione del vescovo Acacio di Cesarea allievo e successore
di Eusebio, egli pensò di ribaltare le conclusioni favorevoli alla tesi
trinitaria di Nicea legando i partecipanti al vincolo del ripudio della
dottrina ortodossa in alternativa all’esilio. Si tenne così una serie frenetica
di concili, sia nella residenza imperiale di Sirmio che in diverse sedi
d’Occidente, imperniate sulla contrapposizione fra l’ariano Acacio di Cesarea e
l’ortodosso Cirillo di Gerusalemme e movimentate dall’intervento dei teologi
più rappresentativi del momento (Basilio di Ancira, Eustazio Sebaste
e Giorgio di
Laudicea, Macedonio di Costantinopoli, Ilario di Poitiers).
Nel concilio di Sirmio (o Ancyra) del 359 (il terzo della
serie) Basilio di Ancyra (336-360, succeduto al vescovo ortodosso Marcello di
Ancyra, 285-374) assieme a Giorgio di Laudicea e ad Eustachio di Sebaste
assunse una posizione compromissoria fra gli anomei (ariani) e gli omousi
(antiariani) (§ 1a) con la
proposizione della formula del “Cristo simile
nella sostanza a Dio” ed Acacio di Cesarea propose la più generica del “Cristo somigliante” i cui seguaci furono
chiamati omeisti (da homoiousios: somigliante). La proposta
indusse Costanzo II, nella convinzione che questa interpretazione potesse
trovare un generale consenso, a convocare il sinodo di Rimini (359) per imporla a tutto il clero occidentale. Questo,
ampiamente rappresentato, si allineò invece al Simbolo Niceno, respingendo la nuova
formula compromissoria (definita “blasfemia” da Ilario di Poitiers) che non
trovò consenso nemmeno fra gli ariani integralisti riuniti (361) a Seleucia (di
Antiochia) cui prese parte anche Costanzo.
Dopo la morte di Costanzo ed il breve periodo di
paganesimo (361-363) imposto dall’imperatore Giuliano l’Apostata, l’animato
contrasto cristologico non si interruppe e permise agli ortodossi omousi di serrare le fila e di
consentire ad Atanasio e ad altri vescovi esiliati di ritornare nelle loro sedi.
5b. Giuliano l’Apostata e le sue scelte
Si è detto più volte come Giuliano avesse impressa nella mente
la sgradevole sensazione vissuta all’atto del massacro subito dai membri della
sua famiglia che più volte riportò nei suoi scritti “Tutto quel giorno fu una carneficina e per intervento divino la
maledizione tragica si avverò. Si divisero il patrimonio dei miei avi a fil di
spada e tutto fu messo a soqquadro” ad opera di cristiani fanatici ispirati
dai figli di Costantino (“..ignorante
com’era..”) che non si era
preoccupato “..che i figli fossero
educati da persone sagge”. Man mano che l’indelebile ricordo del massacro e
l’apprezzamento della cultura ellenistica lo diversificava dalla fede cristiana,
lo spettacolo della corruzione di cui il cristianesimo si era contaminato lo avvicinava
sempre più al paganesimo. Una considerazione, quella della corruzione,
avvallata dallo stesso padre della Chiesa, Gregorio di Nazienzo, il quale conveniva
che i cristiani nella prosperità perdettero la gloria acquisita nel periodo
delle persecuzioni (250-305). Giuliano maturava
il convincimento che dal dio Helios
gli venisse l’ispirazione di allontanarsi “dal
sangue, dal tumulto, dalle grida e dai morti” che aveva steso un velo
d’ombra e di tristezza sulla sua fanciullezza.
[7] Il culto di Mithra Mitra era una divinità indoiranica
a carattere solare: Sol invictus (equivalente
ad Helios della mitologia greca).
Era rappresentato con il berretto frigio (pileus) o con i capelli ricci circondati da un’aureola. Intorno a Mitra nacque una religione
misterica (mitraismo) praticata da più di un millennio prima di diffondersi
nel mondo romano (67 aC) importato da prigionieri cilici e dai legionari
provenienti dall’Oriente. Il culto di Mitra divenne la religione
misterica più diffusa tra il I sec. aC ed il V sec. dC. Esso mirava alla
ricerca della perfezione spirituale e morale da raggiungere attraverso una
pratica che doveva riunire l’anima alla completa salvezza. (I manoscritti che illustrano i caratteri
del culto sono posteriori al cristianesimo e le somiglianze appaiono tanto
maggiori quanto più recenti sono gli scritti)
Con l’iniziazione al culto di Mitra, Giuliano realizzò
quello cui “.. fin da fanciullo fu insito
in me un immenso amore per il raggi del dio, e alla luce eterea indirizzavo il
pensiero tanto che, non stanco di guardare sempre al Sole, se uscivo di notte
con un cielo puro e senza nubi, subito, dimentico di tutto, mi volgevo alle
bellezze celesti ...” (Orazione IV)
e insieme credette di cogliere nella propria esistenza la necessità di renderla
parte essenziale del tutto “chi non sa
trasformare, ispirato da divina frenesia, la pluralità di questa vita
nell'essenza unitaria di Dioniso ... corre il rischio di vedere la propria vita
scorrere via in molteplici direzioni, e con ciò sfrangiarsi e svanire ... verrà
per sempre privato della conoscenza degli dèi che io giudico più preziosa del
dominio del mondo intero”. Nel “Inno
al re Sole” il primo dei suoi scritti religiosi, Giuliano descrive come
Helios sia l’ipostasi[8] intelligibile del Bene, assimilando la luce del Sole
all’energia intellettuale che illumina gli spiriti e gli dèi visibili, cioè gli
“astri”, che presiedono alle funzioni più alte del cosmo.
Giuliano aveva [8] Ipostasi (hypo-stasis: sotto-sta) è un
concetto che assume diversi significati in diverse discipline: - Nella filosofia
neoplatonica
essa designa le tre sostanze spirituali costituenti il mondo intellegibile
(Uno, Intelletto, Anima) ed appartenenti
alla stessa sostanza
divina, dalla quale tutto viene creato per emanazione; -
Nel Cristianesimo, essa svolse un ruolo
fondamentale nella formulazione della dottrina trinitaria per cui fu
coniato il termine unione ipostatica specifica per
indicare la compresenza in Cristo di entrambe le
nature, umana e divina, in un'unica ipostasi.
La considerazione che
il Cristianesimo si era diffuso ed entrato profondamente nelle abitudini
sociali spinse Giuliano ad un ardore nella preghiera in cui, pur se mancava
l’estasi del neoplatonico Plotino che si sprofondava e si annegava in Dio o lo
slancio vibrante di S. Agostino rapito in divina contemplazione, permaneva un
sentimento religioso più profondo di quello che animava i cultori del
politeismo.
Il suo tentativo di arginare l’avanzata del Cristianesimo
e di ricondurre lo Stato al culto politeista era certamente ispirato sia da una
credenza filosofica installatasi su rancori personali ma, secondo alcune
interpretazioni, anche da una esigenza politica di potere che riteneva più
governabile una società eticamente divisa. Non si può, tuttavia, semplicemente
ritenere che uno spirito ingegnoso, acuto e virtuoso, come generalmente
Giuliano era ritenuto, abbia fatto una scelta ispirata soltanto da un
sentimento irrazionale, non valutando nella giusta misura la situazione
etico-religiosa del tempo che vedeva un Cristianesimo affermato ed in continua
espansione. E’ piuttosto pensabile che egli, in contrasto con la valutazione
dello zio, l’imperatore Costantino, che aveva scelto il Cristianesimo quale
fattore etico di ordine e stabilità, abbia ponderatamente ritenuto che quanto
meno andassero cancellati quegli aspetti eticamente negativi manifestati dai
cristiani attraverso il recupero della gloriosa civiltà ellenista.
Tuttavia gli sforzi
di Giuliano e dei suoi ispiratori, Giamblico e Massimo, non potevano attecchire
in un mondo che, con l’avvento dell’Impero ed il culto della patria, aveva
perso la tendenza periferica di identificare con divinità i fenomeni naturali.
Inoltre Giuliano, col fine di impedire il diffondersi della religione cristiana
che ormai aveva vinto ogni resistenza, cadde nell’errore di cercare di
dimostrarne l’irragionevolezza e la mancanza di base storica. Cosa che la
Chiesa dominante ritenne offensiva e non poté perdonargli. Perché, nel momento
in cui essa era impegnata ad elaborare una sintesi teorica, egli tentava di
tenere i cristiani legati al mondo giudaico e all'Antico Testamento e, malgrado egli non abbia fatto versare
sangue cristiano, fu condannato all’oblio più spietatamente di quanto non sia
stato fatto con i suoi predecessori, responsabili di efferate persecuzioni.
Nel momento in cui, nel febbraio 362, divenne imperatore
e si affrancò dall’obbligo di dover praticare in clandestinità le ritualità
della fede su cui si era incamminato, decise ad attuare un programma di
ripristino di un governo imperiale ispirato a principi del passato sul modello
di grandi imperatori quali erano stati Augusto, Traiano e quello che gli era
per cultura più vicino, Marco Aurelio. Egli, con la restaurazione del
paganesimo, voleva riaffermare il principio di equità e giustizia, assimilati
dalle dottrine filosofiche cui si era formato, per stroncare gli abusi legati alla
corruzione ed abolite i privilegi.
Emanò pertanto un proclama di tolleranza verso i culti di
tutte le religioni che consentì l’apertura dei templi pagani per la
celebrazione dei relativi riti e restituì i beni confiscati estendendo ai
pagani i privilegi che Costantino e Costanzo avevano concesso al culto
cristiano.
Riconoscendo al paganesimo le stesse prerogative di cui
godeva il cristianesimo, egli fu designato pontifex
maximus della religione pagana e si dedicò alla redazione di scritti
ispirati dalla sua cultura neoplatonica, richiamando accanto a se i suoi
maestri pagani perché ne promuovessero il culto. A tal fine ordinò la
costruzione di un mitreo (cavità di
modeste dimensioni, priva di finestre dove si celebrava il culto ad
Helios-Mitra) all’interno del palazzo imperiale.
Nello
spirito di tolleranza verso i cristiani, consentì il rientro nelle proprie sedi
a tutti i vescovi cristiani esiliati dai proclami ariani, non tanto per
liberalità quanto per la convinzione che questo avrebbe favorito il loro
reciproco disfacimento, ritenendo che non vi fossero “belve più pericolose per gli uomini di quanto non siano stati i
cristiani nei confronti dei loro correligionari”. Però precluse loro
l’insegnamento di retorica e grammatica, non ritenendoli in grado, per la loro
formazione ideologica, di servire la cultura secondo la tradizione classica, la
paideia (modello ateniese che educava
i giovani secondo la cura del corpo e la socializzazione dell’individuo), e
pose un limite al loro impiego nell’amministrazione. Decisione che mise in
disagio le famiglie cristiane costrette ad educare i figlioli secondo
l’insegnamento pagano e coloro che,
inseriti nell’amministrazione statale, furono obbligati all’abiura allarmando
le autorità ecclesiastiche e causando disordini contestuali al processo di
ripristino dei valori pagani. Questi interventi contro i cristiani, non
condivisi nemmeno dal suo maggior ammiratore, Ammiano Marcellino, gli valse l’appellativo
di “Apostata” che, attribuitogli dal vescovo Gregorio Nazianzeno (Orazione IV) scritta dopo la morte di
Giuliano e ripreso da Sant’Agostino nella Città
di Dio, rimase associato per sempre alla figura di Giuliano. L’appellativo
circolava già quando Giuliano era in vita e ad esso replicò ritorcendolo contro
i cristiani “noi non ci siamo abbandonati
allo spirito dell’apostasia” e “quelli
che non sono né Greci né Ebrei, ma appartengono all'eresia galilea ...
apostatando hanno preso una via loro propria” (Contro i Galilei, 297 e 164).
Il
malcontento della componente cristiana si stava organizzando contro Giuliano
che non ebbe modo di considerare la ripresa di una persecuzione contro di loro
perché venne distolto dall’intervento contro i persiani durante cui trovò la
morte, evento che segnò la fine del progetto di ritorno al paganesimo e la
spinta si afflosciò perché il cristianesimo era ormai penetrato in profondità
nelle coscienze della maggior parte della
società e nelle istituzioni e, come era accaduto nel secolo precedente,
ogni tentativo per reprimerlo infondeva maggior impulso alla sua diffusione.
Giuliano lasciò un patrimonio di scritti (epistole,
orazioni, satire e trattati teologico-filosofici) per argomentare la
restaurazione del paganesimo. Tra essi i più significativi dl punto di vista
religioso sono “Contro i Galilei” e “Inno a Helios re”.
In “Contro i
Galilei” esamina la religione ebraica, partendo dalla Genesi, per
dimostrare come il Cristianesimo fosse una derivazione irrazionale
dell’ebraismo, attribuendo al Dio una funzione di organizzatore e non di
creatore. Al Dio ebraico contesta il “divieto
di adorare altri déi” come se tale affermazione fosse il riconoscimento di
una pluralità e non di un’unicità ed una ammissione di “mancanza di onnipotenza” in quanto incapace di distogliere gli
uomini da altri dèi. Ed in qualche maniera misura il Dio ebraico con il “demiurgo platonico” “artefice e padre dell’universo” in
quanto “forza ordinatrice” che
trasforma e non crea perché mediatore tra il mondo delle “idee” e la “materia”
a cui trasmette il modello ideale già esistente. Giuliano mette in risalto gli
episodi biblici in cui il Dio si è mostrato despota (costringere il popolo a
vivere in schiavitù) o tollerante (con Davide per l’uccisione di Uria l’Ittita,
marito di Betsabea) per evidenziare come il cristianesimo invece di sanare
queste scelleratezze le ha “lavate” con il “battesimo” facendo affermare a Gesù
(Matteo), circa la legge mosaica, “Non
sono venuto per abolirla ma per rinnovarla”.
L’“Inno a Helios re” e “Madre degli Dei” contengono
l’impostazione del suo sistema teologico che, in una ispirazione poetica
piuttosto che dottrinaria, vede nel re
Sole il dio attorno al quale l’universo si organizza,
Per
la scelta del nuovo imperatore, non avendo Giuliano completato il progetto per
una nomina che si ponesse in funzione del bene comune e non essendovi diretti
discendenti in linea maschile della dinastia costantiniana, la componente
civile e militare indicò imperatore (giugno 363) il più influente comandante
dell’esercito, Gioviano, cristiano ed originario della Pannonia. Egli ebbe solo
il tempo di annullare i provvedimenti anticristiani di Giuliano e di concludere
una discutibile pace con i persiani a cui concesse il controllo dell'Armenia
e dei territori conquistati dagli imperatori suoi predecessori in Mesopotamia,
motivo che indusse lo storico Marcellino a definirlo debole, succube del
Cristianesimo e politicamente incapace. Morì accidentalmente in Galizia
(febbraio 364).
Gli succedette un altro militare originario della
Pannonia, Valentiniano I (364-375), energico, austero e cristiano che avviò un
evento di portata storica perché, associandosi in qualità di augusto il fratello Valente (375-378)
diede avvio alla divisione dell’Impero. Infatti assegnò a Valente il controllo
delle province orientali, Impero
d’Oriente costituito da Egitto, Medioriente, Turchia, e parte meridionale
della penisola balcanica, e mantenne per se il controllo dei territori
nordafricani, Spagna, Francia, Britannia, Italia, Svizzera, Austria e parte
settentrionale della penisola balcanica, Impero
d’Occidente. Due settori legati da nominale unità in cui si poteva
legiferare in maniera differente e le cui rispettive capitali Costantinopoli e
Roma divennero rivali inconciliabili.
Nel
concilio di Lampsaco (attuale Lapseki sullo stretto dei
Dardanelli) indetto nel 364 da Valentiniano, furono rigettate le tesi ariane pur
se la parte orientale dell'impero, sotto l'imperatore Valente di fede ariana,
rimase a questa ancorata. Divenne fondamentale,
in quel tempo l'azione dei tre grandi padri Cappadoci (Basilio di Cesarea, Gregorio
di Nissa e Gregorio di Nazianzo), strenui difensori del Credo niceno che iniziò a fare breccia nel blocco ariano.
6a. Graziano e Teodosio
Graziano
(375-383) che, alla morte padre Valentiniano I, aveva affiancato il fratello
Valentiniano II di quattro anni (375-392), nominò, dopo la morte di Valente
(378), imperatore in Oriente il comandante spagnolo Teodosio (379-395). Questi, insediatosi a Costantinopoli, cercò
subito di rinvigorire l’esercito con larghi arruolamenti di Goti per
meglio fronteggiare le orde barbariche di Alemanni e Franchi che premevano
nelle regioni del Reno, e quelle di Ostrogoti, Visigoti e Vandali che premevano
sul Danubio. Alla guerra frontale, Graziano e Teodosio preferirono il
patteggiamento, accogliendo i barbari come “federati” (alleati in appoggio
all’esercito) ed istituendo, al di qua del Danubio, un vero e proprio stato
germanico cuscinetto che rappresentò la prima unità politica barbarica,
presupposto della seguente frantumazione dell’Impero d’Occidente.
Successivamente
Teodosio, assunta una posizione di preminenza e ritenendo che l’imperatore
dovesse mantenere una supervisione sulle attività della Chiesa, nel 380, con
l’editto di Tessalonica (attuale Salonicco), fece del Cristianesimo la religione
ufficiale dello Stato e nel 381 convocò, su
sollecitazione del vescovo di Milano, Ambrogio (339-387) il 1° Concilio di
Costantinopoli in cui vennero gettate le basi per la definitiva affermazione
del credo niceno-costantinopolitano. L’abolizione del “Mitraismo” (391)
gli procurò l’appellativo “il Grande”
da parte degli scrittori cristiani ed, in Oriente, venne commemorato come santo
il 17 gennaio.
Nel 383 Graziano morì
assassinato mentre si apprestava ad affrontare Magno Massimo proclamato
imperatore dalle legioni britanniche. Magno Massimo propose un trattato di
amicizia a Teodosio che accettò mentre segretamente si preparava ad
affrontarlo. Lo scontro si concluse nel 388 ad Aquileia con la sconfitta
definitiva di Magno Massimo. Valentiniano II divenne imperatore in Occidente dove
l’effettivo potere era gestito dal magister
militum Arbogaste. Dopo la morte misteriosa di Valentiniano II (392), Teodosio
rimase signore di tutto l’impero e fu l'ultimo imperatore a regnare su un
impero unificato.
A
Teodosio successero i figli, Onorio
(395-423) ed Arcadio (395-408),
il primo in Occidente, insediato a Milano (dove Teodosio aveva installato la
corte) ed affiancato da un prode generale dell’esercito, Stilicone (semibarbarus, di
padre vandalo e madre romana); il secondo in Oriente, affiancato dal prefetto
Flavio Rufino.
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Nota
Le
notizie riportate si riferiscono in buona parte a quanto ha scritto lo storico
Amminano Marcellino (330-391) in Rerum gestarum libri XXXI (Res
gestae) in cui vengono
descritti gli anni tra il 96 ed il 378 (da Nerva a Valente), continuando l'opera di Cornelio Tacito. Quelli giunti a noi
riguardano solo il periodo 353-378. Pur essendo nato in Medioriente si sentì
profondamente Romano ed entrò nell’esercito di Costanzo II a fianco di Ursicino
che seguì anche nella spedizione contro Claudio Silvano di cui ne condivise la
caduta in disgrazia. Riprese quota con Giuliano a cui rimase sempre a fianco.
La esposizione storica del suo tempo fatta da Ammiano Marcellino, nato da nobile famiglia di Antiochia è estremamente importante perché serena, imparziale e completa “guida esatta e degna di fede, che ha composto la storia del suo tempo senza indulgere nei pregiudizi e nelle passioni che affliggono solitamente la mente di un contemporaneo” (Edward Gibbon) e, benché pagano, si deve rilevare la testimonianza sulla persecuzione dei cattolici da parte dell'imperatore Costanzo, cristiano ma di confessione ariana, che ha contrapposto a Giuliano di cui forse eccede in esaltazione “è l’esemplare di una vita migliore” ma ne rivela anche i difetti e ne stigmatizza l’intolleranza nei riguardi dei cristiani di cui ammira l’eroismo con cui affrontavano il martirio e ne loda le virtù mentre irride l’intolleranza verso il vescovo di Roma (a quel tempo Liborio) che ritiene la somma autorità della Chiesa.